N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
sulLA MINIATURA
STORIA DELL’ARTE MEDIEVALE PER ECCELLENZA
di Chiara Francesca Chianella
Attualmente
l’ossido
di
piombo
(Pb3
O4)
si
definisce
minio
ed è
un
pigmento
dal
colore
rosso
aranciato.
Nell’età
classica
e
nei
primi
secoli
del
Medioevo,
invece,
per
minium
si
intendeva
il
cinabro,
il
solfuro
di
mercurio
(HgS),
che
è un
minerale
mercurico
che
si
presenta
in
natura
con
una
vivace
colorazione
rossa.
Splendente
nella
sua
particolare
sfumatura,
il
cinabro
fu
impiegato
spesso
dagli
antichi
artisti
-
come
testimoniano
i
vibranti
affreschi
della
Casa
dei
Vettii
e
della
Villa
dei
Misteri
site
in
Pompei
- e
nella
decorazione
delle
iniziali
dei
codici
antichi
da
cui
derivò
la
definizione
dell’arte
di
decorare
le
pagine
dei
manoscritti,
la
miniatura.
Tale
arte
nel
Medioevo
prendeva
il
nome
anche
di
alluminatura
o
illuminatura.
Quest’ultimo
termine
fa
la
sua
apparizione
nel
Manoscritto
di
Lucca
risalente
all’VIII
secolo
e
noto
come
«Compositiones
ad
tingenda»,
in
un
capitolo
recante
il
titolo
«De
Lazuri».
L’origine
del
termine,
secondo
il
Brunello,
ha a
che
vedere
se
non
con
l’aspetto
tecnico
di
tale
arte:
egli
constata
che
nella
miniatura
medievale
si
adoperavano
largamente
lacche
alluminate
(o
illuminate),
ricavate
dalla
reazione
chimica
dell’allume
di
rocca
con
coloranti
vegetali
che
erano
estratti
dalla
robbia,
dall’ireos,
dal
verzino,
etc.
Lume
era
il
termine
usato,
nei
ricettari
medievali,
per
indicare
l’allume,
mentre
luminare,
alluminare
o
illuminare
era
un
gergo
tecnico
proprio
dei
ricettari
di
tintura
che
significava
dare
l’allume.
Perciò,
contrariamente
da
quanto
si
potrebbe
intuire,
alluminare
o
illuminare
non
significa
propriamente
dare
lume
o
luce
ma
dipingere
con
lacche
alluminate.
Quanto
all’origine
del
verbo,
si
può
pensare
ad
un
prestito
di
un
antico
termine
orientale,
al-lu-ha-rum,
che
era
una
sostanza
alluminosa
conosciuta
da
lungo
tempo
e
menzionata
perfino
in
antichi
testi
della
Mesopotamia.
La
miniatura
di
pennello
è
nata
e si
è
sviluppata
in
seguito
alle
trasformazioni
del
supporto
materiale
del
testo,
in
particolare
al
passaggio
dal
‘volumen’
di
papiro
al
‘codex’
costituito
da
fascicoli
di
pergamena
tenuti
insieme
con
una
cucitura
e
protetti
da
una
copertura
spesso
in
legno.
La
pergamena
ha
antiche
origini,
il
suo
impiego
come
supporto
per
le
scritture
risale
al
III
secolo
a.
C. e
deriva
il
suo
nome
dall’antico
e
fiorente
centro
della
cultura
ellenistica,
Pergamo,
nelle
vicinanze
dell’attuale
città
di
Smirne,
in
Asia
Minore.
Le
caratteristiche
meccaniche
della
pergamena,
e in
particolare
la
sua
resistenza,
provocarono
il
graduale
abbandono
del
papiro
il
cui
reperimento
da
parte
del
mondo
cristiano
risultò
difficoltoso
in
seguito
alla
conquista
islamica
dell’Egitto
avvenuta
nel
640.
La
carta
(bambagina)
si
diffonde
nel
mondo
arabo
a
partire
dall’VIII
secolo
mentre
in
quello
occidentale
dal
XII,
ed è
ottenuta
dalla
macerazione
di
stacci
di
cotone
che
una
volta
tagliati
e
triturati,
formano
una
pasta
che
veniva
adagiata
entro
telai
di
legno
e
fili
metallici;
in
tali
impasti,
successivamente,
venivano
frapposti
degli
strati
di
feltro,
poi,
dopo
la
torchiatura,
si
lasciavano
asciugare
in
fogli
e,
infine,
si
passava
un
collante
che
conferiva
resistenza
alla
carta.
Tra
il
XII
e il
XIII
secolo
la
carta
veniva
usata
in
Europa
per
minute
notarili,
schizzi
e
codici
di
pregio
inferiore:
l’uso
della
pergamena
veniva
preferito
per
la
sua
resistenza
tanto
da
diventare
il
privilegiato
supporto
di
importanti
documenti
destinati
a
durare
nel
tempo.
Anticamente
i
fogli
venivano
cuciti
uno
di
seguito
all’altro
al
fine
di
formare
un
lungo
rotolo
paragonabili
a
quelli
in
papiro
utilizzati
dagli
scribi
egizi.
La
pergamena
fu
tagliata
in
fogli
rettangolari
per
formare
un
libro
vero
e
proprio
solo
nel
II
secolo
d.
C..
Ogni
foglio
poteva
essere
piegato
una
volta
(in
folio),
o
due
volte
(in
quarto),
o
ulteriormente
(in
ottavo),
etc.
Il
procedimento
di
creazione
della
pergamena
consisteva
nell’asportazione
dell’epidermide
e
dell’ipoderma
dal
derma
di
diversi
animali
(vitelli,
capre,
agnelli,
montoni,
etc.)
per
permettere
l’allineamento
delle
fibre
di
collagene
e di
elastina
in
strati
paralleli
alla
superficie
esterna
nel
derma.
Nel
Medioevo
le
pergamene
adibite
all’uso
quotidiano
erano
prodotte
con
pelli
di
capra
o di
pecora,
da
cui
derivò
il
termine
cartapecora.
Le
pergamene
che
componevano
libri
liturgici
di
grandi
dimensioni,
invece,
erano
ricavate
dalla
pelle
di
maiale,
più
resistenti.
I
Francesi
chiamavano
velin
le
pergamene
più
delicate
e
sottili
ottenute
dalle
pelli
di
agnelli
o
capretti
nati
morti,
oppure
vitelli
nati
morti
dai
quali
si
ricavavano
fogli
molto
pregiati;
questo
tipo
di
pergamena
prende
il
nome
di
vellum
o
pergamenum
vituli,
mentre
gli
altri
tipi
erano
indicati
genericamente
con
i
termini
pergamenum,
pergamina,
membrana,
carta
pecorina
o
solo
carta.
Il
processo
di
disidratazione,
essiccamento
sul
telaio
e la
levigazione,
atte
a
produrre
la
pergamena,
è
sinteticamente
descritto
nel
Manoscritto
di
Lucca
«Compositiones
ad
tingenda»:
“pergamina
quomodo
fieri
debet.
Mitte
illam
in
calcem,
et
jaceat
ibi
per
dies
tres.
Et
tende
illam
in
cantiro.
Et
rade
illam
cum
nobacula
de
ambas
partes;
et
laxas
desiccare.
Deinde
quodquam
volueris
scalipatura
facere,
fac,
et
post
tingue
cum
coloribus.”
Da
queste
parole
si
evince
che
la
depilazione
avveniva
per
mezzo
di
bagni
di
calce.
In
altri
scritti,
precisa
il
Brunello,
la
permanenza
nella
calce
non
si
limitava
ai
soli
tre
giorni:
le
pelli
dovevano
essere
in
un
primo
momento
lasciate
in
ammollo
per
una
giornata
in
acqua
pulita
per
poi
essere
trattate
fino
a
sedici
giorni
in
acqua
di
calce.
Dopo
di
che
si
lavava
e si
depilava
servendosi
di
un
coltello
provvisto
di
una
lama
arcuata
a
taglio
smussato
per
poi
ripassarla
in
un
bagno
di
calce
fresca.
Successivamente
la
pelle
veniva
stesa
al
telaio
(cantiro)
lasciandola
asciugare
all’aria,
dopo
veniva
nuovamente
bagnata
con
acqua
fresca:
queste
due
operazioni
erano
ripetute
per
più
volte
ed
erano
finalizzate
a
rendere
la
superficie
della
pelle
trattata
abbastanza
liscia.
Nello
stesso
momento
si
doveva
badare
ad
un’operazione
molto
delicata
che
era
quella
di
eliminare
le
irregolarità
della
pergamena
servendosi
dello
stesso
coltello
sopra
menzionato
al
fine
di
rendere
più
sottile
la
superficie.
In
seguito
alla
raschiatura
si
procedeva
alla
smerigliatura
eseguita
con
la
polvere
di
pomice.
Infine
la
pelle
era
pronta
per
essere
inumidita,
asciugata
e
poi
tagliata
secondo
la
necessità.
Dopo
la
rilegatura,
che
permetteva
di
disporre
il
testo
in
modo
ordinato
distribuendolo
in
una
o
più
colonne
di
dimensioni
costanti
rispetto
ai
margini
del
foglio,
si
passava
alla
scrittura
del
testo
che
normalmente
precedeva
la
sua
illustrazione.
L’inchiostro,
che
era
steso
impiegando
calami
o
piume
opportunamente
appuntite,
era
composto
da
carbone
(nerofumo
o
carbone
di
legna)
o
noce
di
galla.
Dopo
aver
scritto
il
testo
si
passava
a
tracciare
le
rubriche
–
titoli
che
anticipavano
il
testo
vero
e
proprio
–
servendosi
di
un
inchiostro
a
base
di
cinabro.
Infine
era
la
volta
della
realizzazione
della
miniatura.
I
meravigliosi
effetti
cromatici
delle
miniature
erano
realizzati
per
mezzo
dell’utilizzo
di
pigmenti
che
potevano
essere
di
varia
origine:
minerale,
vegetale,
animale
ma
potevano
anche
essere
ottenuti
artificialmente.
Essi,
prima
di
essere
applicati
sulla
pergamena,
dovevano
essere
preventivamente
sottoposti
a
procedimenti
particolari
per
poi
essere
uniti
al
legante
che
ne
assicurava
l’adesione
alla
superficie
da
decorare.
Tali
procedimenti
differivano
in
base
alla
natura
dei
pigmenti:
- i
colori
di
origine
minerale
erano
a
volte
ricavati
da
cristalli
semipreziosi
quali
i
lapislazzuli
e la
malachite,
e
anche
da
materiali
più
comuni
come
l’ocra;
essi
venivano
frantumati
fino
a
raggiungere
la
consistenza
di
una
polvere
finissima;
- i
pigmenti
di
origine
vegetale
provenivano
dal
legno
di
alcune
piante
(brasile:
rosso),
fiori
(ireos:
zafferano),
bacche
(spingerbino:
giallo-verde),
alcune
erbe
(indaco;
arzica:
giallo)
che
venivano
macerati
e
uniti
a
sostanze
che
rendevano
più
brillanti
i
colori
o
che
ne
fissavano
le
proprietà;
- il
‘kermes’
è un
pigmento
di
origine
animale
ed
era
ricavato
da
un
insetto
diffuso
in
area
mediterranea
e in
Oriente,
esso
veniva
essiccato
con
degli
alcani
e
conferiva
una
colorazione
rossa
che
veniva
impiegata,
oltre
che
per
la
pittura,
per
tingere
stoffe
e
pergamene;
- i
procedimenti
per
produrre
i
pigmenti
in
modo
artificiale
erano
abbastanza
complessi,
basti
ricordare
il
cinabro
artificiale
(ricavato
dallo
zolfo
con
l’uso
del
mercurio),
la
biacca
o
binaco
di
piombo
e il
verderame
(ottenuti,
in
ordine,
da
lamine
di
piombo
o
rame,
esposte
a
vapori
acidi).
Una
volta
fissati
i
colori,
per
ultimare
il
processo
di
produzione
di
una
miniatura,
si
procedeva
ad
una
verniciatura
con
uno
sottile
strato
di
albume,
talvolta
mescolato
con
gomma
arabica.
Queste
scrupolose
e
delicate
fasi
di
lavorazione
hanno
fatto
sì
che
un’arte
straordinaria
quanto
unica
come
la
miniatura
fosse
giunta
fino
a
noi
per
goderne
del
suo
splendore.
Credo
che
i
pixel
di
un
monitor
non
possano
rendere
giustizia
ai
capolavori
che
decorano
i
codici
antichi.
Col
tempo
le
tecniche
sono
cambiate
mostrando
al
mondo
l’estro
umano
tradotto
in
arte.
Perché
l’arte
non
è
altro
tutto
ciò
che
abbiamo,
perché
l’arte
è
l’originale
e il
tangibile
segno
del
passaggio
dell’uomo.
Riferimenti
bibliografici:
BRUNELLO
F.
(a
cura
di),
De
arte
illuminandi
e
altri
trattati
sulla
tecnica
della
miniatura
medievale,
Neri
Pozza
Editore,
Vicenza,
1992
- Il
titolo
completo
è
“Compositiones
ad
tigenda
musiva,
pelles,
et
alia,
ad
deaurandum
ferrum,
ad
mineralia,
ad
chrysographiam,
ad
glutina,
quaedam
conficienda,
aliaque
artium
documenta,
ante
annos
nongentos
scripta”.
Questo
manoscritto,
trovato
a
Lucca
nella
Biblioteca
dei
Canonici,
venne
pubblicato
per
la
prima
volta
da
LUDOVICO
ANTONIO
MURATORI
nelle
“Antiquitates
Italicae”»
cit.
in
BRUNELLO
F.
(a
cura
di),
De
arte
illuminandi
e
altri
trattati
sulla
tecnica
della
miniatura
medievale,
Neri
Pozza
Editore,
Vicenza,
1992;
DE
FLORIANI
A.,
Cenni
sulla
tecnica
della
miniatura
in
PUTATURO
DONATI
MURANO
A. –
PERRICCIOLI
SAGGESE
A.
(a
cura
di),
La
miniatura
in
Italia,
v. 1
Dal
tardoantico
al
Trecento
con
riferimenti
al
Medio
Oriente
e
all’Occidente
europeo,
Edizioni
Scientifiche
Italiane,
Napoli,
2005-2010.