N. 53 - Maggio 2012
(LXXXIV)
Le antiche origini della boxe moderna
DALL'EUFRATE A ROMA
di Alessandro Pietrantonio
Quando
si
pensa
al
pugilato
e
alle
sue
origini
viene
quasi
naturale
cercarle
nella
Grecia
antica,
ma
al
contrario
di
quanto
si
potrebbe
pensare
sono
da
ritrovare
in
tempi
assai
precedenti.
Inni
e
leggende
delle
civiltà
mesopotamiche,
ma
anche
di
quella
egizia,
narrano
di
eroi
o
semplici
combattenti
che
sconfiggono
i
propri
avversari
in
una
lotta
a
pugni
chiusi.
Esistono
addirittura
graffiti
preistorici
del
III
millennio
a.C.
che
raffigurano
combattimenti
tra
uomini,
presumibilmente
in
occasione
di
una
qualche
cerimonia.
Questi
pare
siano
però
intenti
in
una
sorta
di
misto
tra
il
pugilato
e la
lotta,
più
simile
al
pancrazio
greco
(da
pan,
tutto,
e
kràtos,
forza).
Per
quanto
riguarda
le
civiltà
sviluppatesi
tra
i
fiumi
Tigri
ed
Eufrate
le
maggiori
testimonianze
ci
provengono
da
Assiri
e
Babilonesi,
ma
non
è
sicuramente
da
meno
quella
del
precedente
regno
sumero;
da
ricordare
in
particolare
sono
l’Inno
di
Shulgi
e l’Epopea
di
Gilgamesh,
in
cui
il
protagonista
è
descritto
mentre
combatte
a
pugni
chiusi
contro
un
demone.
Molti
studiosi
ritengono
di
poter
trovare
l’origine
di
questa
pratica
sportiva
prima
che
altrove
tra
le
civiltà
nuragiche
della
Sardegna.
A
quanto
pare
il
faraone
Ramses
II
rimase
affascinato
dall’abilità
guerriera
di
uno
dei
cosiddetti
Popoli
del
mare
abitanti,
a
quanto
sembra,
la
Sardegna
centro-occidentale:
gli
Shardana.
Il
dio-re
egizio
fu
tanto
strabiliato
da
tale
popolo
che
decise
di
farne
la
propria
guardia
personale.
Questo
popolo
ha
tramandato
fino
a
noi
un
numeroso
gruppo
di
statue
del
I
millennio
prima
di
Cristo;
tra
queste
alcuni
riconoscono
appunto
figure
di
lottatori,
in
particolare
di
pugili.
A
quanto
si
racconta
anche
nei
testi
egizi
era
uso
comune
tra
gli
Shardana
lottare
tra
loro
con
gli
avambracci
e i
pugni
coperti
da
qualcosa
di
simile
al
caestus
romano
in
cuoio
e
metallo;
con
esso
dunque
si
colpivano
al
volto
e al
corpo.
Quello
che
però
le
statue
ci
mostrano,
oltre
a
questa
sorta
di
primitivo
“guantone”,
è
uno
scudo
rettangolare
semirigido
che
i
combattenti
vengono
raffigurati
tenere
sopra
la
testa.
È
dunque
difficile
dire
se
davvero
essi
possano
essere
assimilati
a
dei
moderni
pugili,
se
non
forse
più
a
degli
antenati
dei
gladiatori.
La
prima
testimonianza
letteraria
che
tratti
di
una
vera
e
propria
gara
è
quella
del
23°
canto
dell’Iliade.
Patroclo
è
morto
e
tra
gli
Achei,
dopo
aver
pianto
il
compagno,
si
organizzano
dei
giochi
funebri.
Tra
questi
vi
sono
anche
delle
gare
di
pugilato,
in
greco
pygmachìa.
Primeggia
tra
tutti
colui
che
verrà
ricordato
come
il
costruttore
del
cavallo
di
Troia:
Epeo.
Omero
però
lo
presenta
non
come
il
tipico
eroe
epico,
ma
semplicemente
come
un
atleta:
abile
nella
boxe
ma
incapace,
come
ammette
lui
stesso,
di
fare
la
guerra.
Questo
in
una
società
guerriera
come
quella
micenea
è
considerata
naturalmente
un’attività,
per
così
dire,
di
“serie
B”.
A
partire
dall’età
Classica
però,
in
cui
le
attività
sportive
cominciano
ad
avere
grande
successo,
la
situazione
cambia,
tanto
che
nel
688
a.C.
viene
introdotta
come
disciplina
ufficiale
nella
XIII
Olimpiade,
il
cui
primo
vincitore
è
ricordato
con
il
nome
di
Onomasto
di
Smirne.
Oltre
alla
testimonianza
omerica
possiamo
trovare
riferimenti
a
una
lotta
pugilistica
anche
nella
tradizione
mitologica.
Infatti
due
dei
più
importanti
eroi
del
mito
greco,
Teseo
ed
Eracle,
sono
soliti,
tra
le
altre
cose,
combattere
i
nemici
con
la
forza
dei
loro
pugni.
Il
pugilato
greco
aveva
naturalmente
delle
regole
abbastanza
chiare.
Innanzitutto
è da
sottolineare
il
fatto
che
tali
gare
prevedevano,
oltre
all’uso
delle
mani,
per
colpire
l’avversario,
anche
quello
delle
gambe.
Questo
lo
fa
somigliare
in
un
certo
senso
più
alla
moderna
kick
boxing
che
al
pugilato
vero
e
proprio.
Ciononostante
le
gambe
erano
usate
molto
di
rado.
Non
esisteva
un
ring,
gli
spettatori
formavano
un
cerchio
coi
loro
corpi
all’interno
del
quale
i
due
pugili
si
affrontavano.
Era
vietato
colpire
con
le
dita,
e
pare
che
tali
regole
venissero
per
lo
più
rispettate
per
timore
delle
conseguenze:
i
trasgressori
infatti
venivano
fustigati,
dopo
aver
ovviamente
perso
l’incontro.
Il
combattimento
terminava
o
con
quello
che
noi
definiamo
ko
oppure
con
la
resa
data
dal
dito
indice
alzato
del
combattente
stremato.
È
interessante
sapere
che
inizialmente
venne
usata,
come
d’altronde
ogni
arte
marziale,
come
addestramento
per
fortificare
il
corpo
e
anche
la
mente.
Addirittura
a
Sparta
non
si
decretavano
vinti
e
vincitori,
ma
semplicemente
si
combatteva
fino
a
stancarsi,
il
tutto
per
mantenersi
in
forma
e
abituarsi
al
dolore
e
alla
violenza
di
una
battaglia.
Come
si
può
notare
perfettamente
dalle
rappresentazioni
grafiche
e
dalle
statue
non
si
lottava
a
mani
nude.
Fino
intorno
al
500
a.C.
erano
utilizzate
delle
fasce
di
cuoio
chiamate
himàntes
che
si
arrotolavano
attorno
a
nocche,
dita
e
polsi.
Si
cominciò
in
seguito
a
usare
i
cosiddetti
sphaìrai:
fasciature
in
cuoio
con
un
lato
esterno
affumicato
e
con
l’interno
imbottito,
per
proteggere
la
mano
e al
contempo
colpire
più
duramente.
O
ancora
si
usavano
dei
tasselli
(òxys)
in
cuoio
spesso
su
mani,
polsi
e
avambracci.
Insomma
si
studiarono
vari
modi
per
provocare
più
dolore
nell’avversario
e
meno
a se
stessi.
Può
essere
infine
interessante
sapere
che
il
famoso
sacco
del
pugile
moderno
altro
non
è
che
un
pronipote
di
quello
che
gli
atleti
greci
chiamavano
kòrykos:
un
sacco
da
allenamento
riempito
con
sabbia,
per
i
più
poveri,
o
farina
per
chi
se
lo
poteva
permettere.
Come
per
ogni
sport
olimpico
gli
antichi
Greci
non
concepivano
la
moderna
importanza
del
“partecipare”
di
de
Coubertin.
Bronzo
e
argento
difatti
non
esistevano
nelle
premiazioni
e
solo
uno
era
vincitore
e
degno
di
ricevere
tutti
gli
onori.
Oltre
ad
essi
infatti
il
primo
della
competizione
riceveva
una
corona
di
alloro,
ma
nulla
più.
Pare
che
quando
invece
si
cominciò
a
inserire
premi
in
denaro
per
i
vincitori
delle
gare
iniziò
la
decadenza
di
questo
sport,
finché
nel
393
l’imperatore
Teodosio
vietò
l’organizzazione
delle
Olimpiadi.
Spostiamoci
ora
nella
penisola
italiana.
I
primi
probabilmente
a
regolamentare
un
combattimento
corpo
a
corpo
a
mani
nude
nella
nostra
terra
furono
gli
Etruschi.
Le
più
importanti
testimonianze
provengono
infatti
dalle
rappresentazioni
di
questo
popolo.
Inizialmente
si
combatteva
senza
protezioni,
poi
si
adottarono,
come
nel
mondo
ellenico,
delle
strisce
di
cuoio
lavorate
poi
per
essere
più
un
mezzo
di
offesa
che
di
difesa.
Anche
qui
i
pugili
diventano
mano
a
mano
dei
professionisti,
ma
mentre
nella
penisola
greca
era
più
che
altro
appannaggio
dei
ceti
alti,
nella
civiltà
etrusca
il
pugilato
divenne
un
mezzo
usato
in
prevalenza
dai
più
poveri
per
guadagnarsi
da
vivere
e
magari
una
posizione
migliore
nella
società.
Proprio
come
accadde
nella
prima
metà
nel
Novecento
con
il
moderno
pugilato
in
particolare
negli
Stati
Uniti.
Per
quanto
riguarda
le
regole
della
boxe
etrusca
sembra
che
le
gare
avvenissero
in
uno
spazio
limitato
e
soprattutto
in
un
tempo
stabilito:
assoluta
novità
per
l’epoca.
Tutto
lo
spettacolo
era
accompagnato
dal
suono
delle
tibie
ad
ancia
doppia
di
un
auleta.
Discepoli
in
questa
e
molte
altre
arti
del
popolo
dell’Etruria
furono
ovviamente
i
Romani.
Questi
ultimi
fecero
proprie
entrambe
le
scuole
pugilistiche
(greca
ed
etrusca),
aggiungendo
naturalmente
un
po’
del
loro.
I
combattenti
si
affrontavano
all’interno
di
in
un’arena,
durante
i
famosi
spettacoli
circensi
cruenti
e
sanguinosi
per
cui
il
popolo
italico
è
diventato
famoso
nel
mondo.
Il
pugilatus,
la
boxe
romana,
è la
forma
antica
più
vicina
al
moderno
pugilato
ottocentesco,
se
si
esclude
il
carattere
di
attività
gladiatoria
più
che
sportiva.
Erano
accettati
solo
colpi
da
impatto,
senza
prese
e
solo
con
i
pugni.
Questi
erano
protetti
da
uno
strumento
al
contempo
di
offesa
e di
difesa,
molto
simili
ai
nostri
guantoni:
il
caestus.
Era
costituito
da
una
sorta
di
guanto
rigido
che
copriva
parte
dell’avambraccio,
formato
da
cinghie
in
cuoio
a
cui
poi
vennero
aggiunte
borchie,
punte
e
placche
in
metallo.
I
combattimenti
divennero
sempre
più
crudi
finché
nel
I
secolo
a.C.
il
caestus
fu
proibito
ufficialmente,
mentre
nel
393,
sempre
Teodosio
I,
abolì
il
combattimento
corpo
a
corpo
in
tutto
l’Impero.
Gli
ultimi
dunque
che
poterono
assistere
a un
combattimento
dell’antico
pugilato
furono
proprio
i
Romani,
gli
stessi
che
poi
lo
abolirono.
Esso
scomparve,
ma
per
dare
poi
vita
in
età
Moderna
a
quella
che
sarà
definita
“noble
art”
(nobile
arte),
praticata
da
gran
parte
dell’aristocrazia
europea,
in
particolare
dai
Lord:
la
boxe.