N. 18 - Giugno 2009
(XLIX)
LE ORIGINI DEL 18 APRILE
La situazione politica nel 1947
di Cristiano Zepponi
L’esperienza dei governi d’unità antifascista, fondati
prima sul Cln e poi sul faticoso accordo tra i tre
partiti di massa consacrati dalle elezioni del 2 giugno
1946, si concluse improvvisamente nella primavera del
1947, allorchè i nuovi indirizzi del quadro
internazionale cominciarono ad irrompere fragorosamente
nello scenario italiano; la Carta costituzionale, frutto
di un’alchimia politico/giuridica tra le esigenze dei
princìpi cattolici, dell’internazionalismo comunista e
del neutralismo socialista ne costituiva l’ultima
testimonianza: la solidarietà antifascista tra i partiti
di governo aveva infatti cominciato ad indebolirsi già a
partire dall’inverno del 1946, quando i sentimenti
anticomunisti si rafforzarono nella Chiesa, tra i
liberali, i qualunquisti e la Dc.
1. I
primi
mesi
del
1947
Nel
gennaio
del
1947,
pochi
mesi
prima
della
cosiddetta
“svolta
moderata”,
la
prima
missione
negli
Stati
Uniti
di
De
Gasperi
(allora
a
capo
del
suo
secondo
gabinetto)
incassò
un
simbolico
assegno
di
100
milioni
di
dollari
concesso
a
titolo
di
prestito
dalla
Export-Import
Bank
per
aiutare
la
ripresa
italiana,
da
tempo
promesso
e
continuamente
rinviato
anche
a
causa
della
condotta
americana,
“ancora
disattenta
ed
incerta
sul
ruolo
dell’Italia”;
oltre,
quel
ch’è
più
importante,
al
segno
d’un
mutato
atteggiamento
nei
confronti
del
blocco
sovietico,
e –
di
conseguenza
–
della
politica
italiana
in
genere,
che
annoverava
pur
sempre
tra
le
sue
fila
il
più
grande
partito
comunista
d’Occidente.
Fu
lo
stesso
De
Gasperi
che
impose
all’attenzione
degli
interlocutori
la
realtà
dei
fatti:
“il
Paese
è
oggi
nella
morsa
di
una
crisi
tanto
economica
che
politica
[…]
il
partito
comunista
stava
esercitando
la
massima
pressione
per
portare
l’Italia
all’interno
della
sfera
d’influenza
russa”,
si
legge
nell’appunto
della
conversazione
tra
il
primo
ministro
italiano
ed
il
segretario
di
Stato
uscente
Byrne
redatto
da
James
Dunn,
appena
nominato
ambasciatore
a
Roma.
Ancora
oggi,
comunque,
nessuno
può
chiarire
con
certezza
se
il
presidente
Truman
abbia
condizionato
o
meno
ulteriori
e
più
cospicui
aiuti
economici
all’estromissione
dei
comunisti
dal
governo.
Quel
ch’è
certo
è
che
lo ‘Zeitgeist’,
lo
spirito
del
tempo,
spingeva
in
quella
direzione;
specie
dopo
gli
esiti
disastrosi
per
la
Dc
delle
elezioni
amministrative
del
10
novembre
1946,
che
costituivano
“un
monito
chiarissimo
su
come
vanno
le
cose
in
Italia”,
per
usare
le
parole
dell’analisi
confidenziale
del
responsabile
degli
affari
italiani
al
Dipartimento
di
Stato
americano,
Walter
Dowling.
Il
quale
consigliava,
nel
caso
in
cui
il
governo
avesse
deciso
che
“nell’interesse
nazionale
valga
la
pena
di
compiere
il
grande
sforzo
che
sarà
necessario
per
impedire
che
l’Italia
diventi
comunista”,
alcune
iniziative
immediate
tra
le
quali
“una
parola
gentile,
una
fetta
di
pane
e un
tributo
alla
civiltà
italiana”,
oltre
alla
visita
di
De
Gasperi
di
cui
sopra.
Appena
tornato,
tuttavia,
lo
stesso
De
Gasperi
fu
assorbito
dalle
conseguenze
della
scissione
di
Palazzo
Barberini,
dove
il
vecchio
Psiup,
sottoposto
a
dirompenti
pressioni
esterne,
si
era
diviso
nel
Psi
di
Nenni
(filo-comunista)
e
nel
Psli
(Partito
socialista
dei
lavoratori
italiani)
di
Saragat,
vicino
a
posizioni
socialdemocratiche:
un
esito
atteso,
caldeggiato
e
voluto
dalla
Dc,
dopo
i
fallimentari
tentativi
di
scindere
l’alleanza
tra
Nenni
ed i
comunisti,
e
dallo
stesso
Pci,
preoccupato
da
un’eventuale
scissione
“a
sinistra”
o
dalla
possibilità
di
un
voltafaccia
socialista.
Nacque
così,
il 2
febbraio
del
1947,
il
terzo
gabinetto
De
Gasperi.
Ancora,
nella
compagine
governativa
figurarono
comunisti
e
socialisti,
nonostante
le
pressioni
vaticane
spingessero
per
un’immediata
rottura
dell’alleanza
già
all’indomani
delle
elezioni
amministrative
del
9
novembre
1946:
ma
uscirono
dalla
crisi
vistosamente
indeboliti,
dopo
la
perdita
dei
dicasteri
delle
Finanze
e
degli
Esteri.
Il
loro
coinvolgimento,
in
ultima
analisi,
risultò
necessario
per
minimizzare
le
reazioni
all’imminente
firma
del
Trattato
di
pace,
che
conteneva
in
effetti
“un
giudizio
morale
e
giuridico
sull’Italia,
la
pronuncia
di
un
castigo
attraverso
il
quale
deve
redimersi”,
com’ebbe
a
dire
Benedetto
Croce;
reazioni
che
puntualmente
si
verificarono
nel
luglio
successivo,
allorchè
la
bozza
finale
fu
sottoposta
all’esame
dell’Assemblea
costituente
per
la
ratifica,
dopo
la
firma
a
febbraio
nel
salone
dell’Orologio
del
Quai
d’Orsay.
Ma
ciò
non
toglie
che
il
processo
di
esautorazione,
di
progressiva
emarginazione
delle
sinistre
dal
potere
fosse
già
cominciato.
In
quello
stesso
febbraio
del
1947,
però,
altri
e
più
importanti
avvenimenti
sullo
scenario
mondiale
rivelarono
il
cambiamento
d’indirizzi
della
politica
americana.
La
Gran
Bretagna,
uscita
stremata
e
nettamente
ridimensionata
dallo
sforzo
bellico,
fu
infatti
costretta
ad
annunciare
il
disimpegno
dalla
guerra
civile
greca,
dove
le
forze
comuniste
dell’Eam
(appena
velatamente
sostenute
dalla
Jugoslavia
e
dalla
Bulgaria)
rischiavano
di
prevalere
sugli
oppositori
filo-occidentali;
le
finanze
della
Corona,
pur
rimpinguate
da
un
prestito
americano
di
3.750.000.000
di
dollari
nel
dicembre
1945,
e da
un
analogo
sussidio
canadese
di
1.250.000.000
di
dollari,
non
riuscivano
più
a
sostenere
una
politica
di
potenza
in
stile
pre-bellico.
L’atteggiamento
di
Stalin
nei
confronti
dello
scacchiere
mediterraneo,
in
effetti,
si
rivelò
in
quei
mesi
piuttosto
incerto.
Ma
si
può
facilmente
intendere
che
la
caduta
della
Grecia
sarebbe
stata
intesa
come
un
presagio
infausto
per
l’Occidente
tutto,
che
dal
colosso
sovietico
cominciava
a
sentirsi
minacciato.
La
dichiarazione
d’impotenza
britannica,
alla
fine,
ebbe
l’effetto
di
spalancare
le
porte
all’iniziativa
americana,
simboleggiata
dalla
nomina
a
segretario
di
Stato
del
generale
Marshall:
già
il
12
marzo
il
presidente
Truman,
rivolgendosi
ad
una
sessione
unita
del
Congresso,
affermò
il
diritto
e la
necessità
per
l’America
d’intervenire
per
sostenere
i
regimi
democratici
impegnati
a
difendere
la
propria
libertà
contro
l’azione
di
minoranze
interne
e/o
condizionamenti
stranieri,
e
richiese
uno
stanziamento
di
400.000.000
di
dollari
“per
un’immediata
assistenza
alla
Grecia
e
alla
Turchia,
allo
scopo
di
impedire
il
ripetersi
degli
avvenimenti
verificatisi
in
vari
Stati
dell’Europa
orientale,
posti
sotto
il
controllo
russo
tramite
l’artifizio
di
governi
dominati
dai
comunisti”.
Un
mese
dopo,
la
richiesta
venne
accolta.
Fu
il
segno
d’un
ri-orientamento
della
politica
americana,
d’un
salto
di
qualità
ideologico
e
globalistico
che
riguardò
e
insieme
trascese
il
problema
della
piccola
Grecia,
ammonendo
direttamente
i
dirigenti
sovietici.
Questo
complesso
di
mutazioni,
irrigidimenti
e
assunzioni
di
responsabilità
avrebbe
poi
preso
il
nome
dal
presidente:
e la
“dottrina
Truman”
avrebbe
rappresentato,
sul
piano
pratico,
la
presa
di
coscienza
delle
divergenze
ormai
insanabili
tra
le
due
superpotenze,
meno
urgenti
forse
della
questione
ellenica,
ma
non
per
questo
meno
evidenti.
La
Germania,
innanzi
tutto:
la
conferenza
dei
Ministri
degli
Esteri
riunitasi
a
Monaco
nei
mesi
di
marzo
ed
aprile
del
1947
non
aveva
risolto
la
frattura
creatasi
tra
gli
occidentali
(dall’inizio
dell’anno
le
zone
d’occupazione
americana
e
britannica
erano
state
fuse),
che
stavano
attivamente
sostenendo
la
ripresa
del
Paese
sconfitto,
ed i
sovietici,
che
tentavano
di
cavarne
il
massimo
valore
materiale
possibile,
provavano
a
strappare
un
ruolo
nella
gestione
del
bacino
della
Ruhr
e
ritenevano
che
–
non
potendo
annettere
il
Paese,
“chiave
d’Europa”
–
fosse
preferibile
impedire
il
ripristino
della
potenza
d’anteguerra.
E
poi
l’Austria,
in
seconda
battuta,
cui
l’URSS
chiedeva
la
cessione
della
Carinzia
alla
Jugoslavia.
I
blocchi
si
stavano
irrigidendo
inesorabilmente:
s’imponeva,
anche
alla
piccola
Italia,
d’adeguarsi
alla
soluzione
più
‘naturale’,
la
ripartizione
bipolare
dell’Europa,
stabilita
da
due
superpotenze
ideologiche
e
impaurite.
2.
La
rottura
dell’alleanza
antifascista
De
Gasperi,
per
muoversi,
seppe
attendere:
e
per
questa
sua
qualità
Montanelli
–
quasi
mezzo
secolo
dopo
-
scrisse
che
sapeva
interpretare
al
meglio
la
celebre
preghiera
protestante,
“dammi
la
forza
di
cambiare
le
cose
che
si
possono
cambiare,
la
pazienza
di
accettare
quelle
che
non
si
possono
cambiare
e
l’intelligenza
di
distinguere
le
une
dalle
altre”.
Solo
dopo
la
firma
del
Trattato
di
pace
ed
un’altra
sconfitta
elettorale
(stavolta
in
Sicilia,
dove
il
20/21
aprile
si
votò
per
l’Assemblea
regionale
e la
Dc
passò
dal
33,6%
al
20,5%
contro
il
30,
4%
del
‘Blocco
del
popolo’
Pci-Psi-Pd’A),
quando
ancora
doveva
asciugarsi
il
sangue
versato
a
Portella
della
Ginestra,
il
leader
della
Dc
operò
la
rottura
dell’“alleanza
antifascista”
con
le
sinistre,
ed
estromise
comunisti
e
socialisti
dal
governo;
lo
stesso
accadde
contemporaneamente
nella
vicina
Francia.
Si
aprì
così,
coll’adeguamento
al
nuovo
scenario
internazionale,
“una
fase
nella
quale
la
classe
politica
italiana
assume
e
interiorizza
non
solo
l’esistenza
ma
la
pregnanza
e
potrei
dire
la
sovranità
del
nuovo
ordine
internazionale
che
regge
l’Europa
divisa
a
metà
e di
conseguenza
l’Italia”:
una
fase,
in
fondo,
di
cui
l’Italia
è
specchio
e
spia
al
tempo
stesso.
Dunque,
dopo
il
fallito
tentativo
di
pacificazione
di
Nitti
e
l’ancor
più
rapido
insuccesso
di
Orlando,
il
“presidente
della
vittoria”,
il
30
maggio
del
1947
De
Gasperi
formò
un
nuovo
gabinetto
monocolore,
rafforzato
da
quattro
indipendenti
(Sforza
agli
Esteri,
Merzagora
al
Commercio
estero,
Corbellini
ai
Trasporti
e
Del
Vecchio
al
Tesoro)
e
due
liberali,
Grassi
ed
Einaudi,
al
quale
fu
affidata
– in
veste
di
vicepresidente
del
Consiglio
e di
Ministro
del
Bilancio
- la
responsabilità
di
una
politica
economica
restrittiva
fondata
sulla
svalutazione,
la
riduzione
della
spesa
pubblica,
il
potenziamento
delle
esportazioni,
il
brusco
aumento
della
riserva
obbligatoria
delle
banche
e
del
tasso
di
sconto:
con
l’obiettivo
di
raggiungere
un’effettiva
stabilizzazione
economica,
oltre
ad
un
maggior
intervento
statale
sulla
vita
economica
italiana,
e di
favorire
la
nascita
d’un
blocco
sociale
di
ceti
medi
politicamente
moderato.
La
fiducia
degli
operatori
economici,
necessaria
per
la
riuscita
dell’operazione,
dipendeva
proprio
dall’allontanamento
delle
sinistre;
ed
in
questo
senso
agì
De
Gasperi,
trasformando
definitivamente
l’equilibrio
che
per
tre
anni
aveva
retto
la
politica
italiana
e
allineandosi
al
nuovo
corso
politico
caldeggiato
da
Washington.
“Né
da
parte
italiana,
né
da
parte
americana
esistono
prove
concrete
di
un’azione
concertata
tra
Roma,
Washington
e
Londra
per
porre
fine
anche
in
Italia
all’alleanza
di
guerra”,
secondo
Gambino.
Ma
quel
ch’è
certo
è
che
dai
mesi
di
marzo/aprile
del
1947
l’atteggiamento
americano,
precedentemente
utilitaristico
e
quasi
disinteressato,
si
trasformò
in
una
condotta
di
segno
radialmente
inverso,
come
timidamente
emerso
nel
corso
della
visita
americana
del
leader
democristiano:
“Il
Dipartimento
di
stato
è
profondamente
preoccupato
dal
deterioramento
delle
condizioni
politiche
ed
economiche
italiane,
che
evidentemente
stanno
conducendo
a un
ulteriore
aumento
della
forza
comunista
e a
un
conseguente
peggioramento
della
situazione
degli
elementi
moderati
[…]
Il
Dipartimento
desidera
inoltre
la
vostra
opinione
sulla
possibilità
che
De
Gasperi
abbandoni
la
guida
del
governo,
o
che
tenti
di
formare
un
governo
senza
l’estrema
sinistra,
nella
speranza
di
migliorare
le
prospettive
della
Democrazia
Cristiana
nelle
elezioni
di
Ottobre”,
scrisse
Marshall
il
1°
maggio
all’ambasciatore
Dunn,
chiarendo
che
l’abulia
nei
confronti
delle
faccende
italiane
era
definitivamente
terminata
e si
preparava
una
fase
in
cui
gli
Stati
Uniti
si
sarebbero
preoccupati
di
rafforzare
gli
elementi
filo-occidentali
di
un
Paese
ormai
conquistato
alla
‘dottrina
Truman’
ed
alla
nuova
teoria
del
“contenimento”
(containment)
elaborata
da
George
Kennan.
La
svolta
di
De
Gasperi,
qualunque
sia
stato
il
ruolo
dell’amministrazione
americana
nella
vicenda
(semplice
appoggio
morale/finanziario,
come
emerge
dagli
incitamenti
e
dalle
promesse
di
Marshall
durante
la
crisi,
o
condizionamento
esplicito)
costituiva
il
logico
epilogo
della
linea
politica
democristiana
dal
’44
in
poi,
e fu
salutata
come
“una
necessaria
chiarificazione”
in
gran
parte
del
mondo
cattolico.
Si
trattava,
da
una
parte,
di
una
mossa
sicuramente
rischiosa;
ma
il
rischio
era
attenuato
dalla
“temporaneità”
prospettata
da
De
Gasperi
al
suo
omologo
comunista,
Togliatti,
e
dalla
sorpresa
delle
sinistre,
probabilmente
prese
in
contropiede
da
una
tale
evoluzione
della
situazione
politica,
limitate
da
un
leader
deciso
a
contenere
le
reazioni
al
“governo
nero”
entro
limiti
legali
e
convinto
che
le
circostanze
favorevoli
all’insurrezione
fossero
ormai
venute
meno,
nonostante
la
delusione
della
“base”
esautorata
dal
potere.
Nessuno
pensava,
allora,
che
il
passaggio
all’opposizione
del
Pci
potesse
trasformarsi
in
un
“dato
definitivo
e
irrevocabile
della
politica
italiana”.
La
svolta
monocolore,
per
di
più,
garantiva
degli
indubbi
vantaggi
alla
compagine
degasperiana,
permettendole
di
perseguire
un
duplice
risultato:
prendere
atto
della
progressiva
divaricazione
tra
gli
Stati
Uniti
e
l’Unione
Sovietica,
dando
vita
ad
un
governo
che
meglio
si
adattasse
alle
mutate
circostanze
internazionali,
e
contemporaneamente
fare
della
Dc –
e
della
sua
stessa
leadership
–
“la
principale
garanzia
dell’ancoraggio
del
Paese
al
nascente
‘campo
occidentale’
[…]
(salvaguardando)
la
centralità
della
Dc
di
fronte
alla
duplice
offensiva
di
destra
e di
sinistra
che,
come
avevano
dimostrato
in
aprile
le
elezioni
regionali
siciliane,
rischiava
seriamente
di
metterne
a
repentaglio
il
primato
nel
Paese”.
La
guerra
fredda,
da
un
certo
punto
di
vista,
giocò
quindi
un
ruolo
centrale
nella
politica
degasperiana,
porgendole
il
pilastro
indispensabile
al
superamento
della
“coabitazione
forzata”.
I
vertici
del
Dipartimento
di
Stato
americano,
nel
periodo
in
questione,
concordavano
nell’interpretazione
della
situazione
europea;
la
loro
analisi,
più
che
all’agitazione
“rossa”,
additava
alle
difficoltà
economiche
del
Continente,
ereditate
dal
conflitto
appena
conclusosi,
la
vulnerabilità
di
fronte
alla
minaccia
comunista.
A
fine
maggio,
Clayton
scrisse:
“L’Europa
sta
cadendo
in
pezzi.
La
situazione
politica
è il
riflesso
di
quella
economica”.
Ne
derivava
logicamente
la
necessità
di
sostenere
la
ricostruzione
europea,
che
correva
il
rischio
di
restare
soffocata
dai
crescenti
deficit
della
bilancia
dei
pagamenti.
La
Gran
Bretagna,
principale
esportatrice
di
capitali
nella
fase
storica
precedente,
appariva
però
incapace
di
sostenere
il
suo
stesso
rango
imperiale,
come
detto
per
la
vicenda
greca,
e
passò
il
testimone
agli
Usa,
che
fecero
della
potenza
produttiva
e
finanziaria
la
leva
del
contenimento.
Fornendo
all’Europa
occidentale
le
risorse
necessarie
a
portare
avanti
la
ricostruzione
senza
drammatiche
strette
deflattive
e
sostenendo
i
governi
dotati
di
monete
forti
ed
aperti
agli
scambi
internazionali,
gli
americani
ritennero
di
poter
spegnere
sul
nascere
i
vari
focolai
di
crisi
che,
secondo
la
loro
analisi,
avrebbero
altrimenti
generato
tensioni
sociali
ed
instabilità
politica
a
vantaggio
dei
comunisti:
“Gli
aiuti
americani
all’Europa
dovrebbero
essere
diretti
non
a
combattere
il
comunismo
come
tale,
ma a
restituire
vigore
e
benessere
economico
alla
società
europea”,
prescriveva
infatti
l’ufficio
diretto
da
Kennan,
il
‘Policy
Planning
Staff’.
3.
Il
piano
Marshall
Il 5
giugno,
cinque
giorni
dopo
l’esautorazione
delle
sinistre
dalla
compagine
di
governo
in
Italia,
il
segretario
di
stato
Marshall
annunciò
–
parlando
all’università
di
Harvard
- la
disponibilità
americana
ad
un
piano
straordinario
di
sostegno
finanziario
all’Europa
occidentale,
traducendo
in
operazione
politica
l’assioma
della
prosperità
come
fondamento
della
stabilità
democratica.
Un
programma
d’assistenza
coordinato
e a
lunga
scadenza
rivolto
all’Europa
nel
suo
insieme,
dunque,
che
superasse
la
prassi
degli
aiuti
localizzati
fin’allora
prevalente
e
che
presto
avrebbe
preso
il
nome
dal
suo
ideatore.
Così
ne
parlò
De
Gasperi
ai
primi
di
febbraio
del
1948:
“Ma
che
cosa
è il
Piano
Marshall?
Lasciando
da
parte
la
sua
tecnica
che
è
ancora
da
fissare,
diremo
che
in
sostanza
esso
è la
collaborazione
economica
fra
i
Paesi
europei
integrata
da
aiuti
americani.
Se
davvero
l’America
avesse
voluto
asservire
i
suoi
debitori
italiani
e
francesi
avrebbe
fatto
dei
prestiti
diretti
a
tali
paesi
e
non
si
sarebbe
interessata
all’Europa.
Invece
l’America
cerca
di
sollevare
l’Europa,
di
mettere
d’accordo
i
Paesi
europei,
di
creare
una
situazione
di
possibilità
economiche
perché
divengano
un
baluardo
della
pace
[…].
L’attuazione
del
‘Piano’
vuol
dire
ritorno
all’ordine
delle
nazioni,
vuol
dire
eliminare
ogni
causa
di
guerra.
Con
l’attuazione
del
‘Piano’
le
nazioni
europee
saranno
delle
collaboratrici
di
pace
nell’ordine
economico”.
Per
la
Dc,
in
effetti,
il
nascente
piano
Marshall
(o
Erp,
European
Recovery
Program)
costituiva
una
miniera
di
occasioni
uniche
ed
irripetibili.
Innanzitutto
permetteva
un
solido
ancoraggio
del
Paese
al
carro
occidentale
che
andava
ormai
delineandosi,
permettendo
allo
stesso
De
Gasperi
di
presentarsi
come
garante
del
legame
con
gli
Stati
Uniti.
In
secondo
luogo
offriva
la
concreta
speranza
di
un
futuro
prospero,
una
volta
superata
la
stretta
deflattiva
e
creditizia
cui
Einaudi
stava
sottoponendo
il
Paese
per
stabilizzare
la
lira.
In
ultima
analisi
avrebbe
permesso
di
ridurre
i
margini
di
manovra
del
Pci,
minando
la
credibilità
della
sua
proposta
di
governo
sul
terreno
fondamentale
della
politica
estera
e
sottolineandone
l’ambivalenza,
perennemente
in
bilico
tra
le
urgenze
del
benessere
collettivo
e la
sostanziale
subalternità
alle
posizioni
sovietiche,
nonostante
l’iniziale
aperturismo
di
Togliatti,
che
nei
concitati
giorni
del
maggio
1947,
nel
bel
mezzo
della
crisi
di
governo,
si
premurò
di
chiarire
che
da
parte
comunista
non
si
fosse
“contrari
all’aiuto
finanziario
da
parte
degli
Stati
Uniti
d’America”,
e
che
anzi
si
ritenesse
“necessario
questo
aiuto”.
L’adesione
al
piano,
inizialmente
aperta
a
tutti,
si
scontrò
da
subito
con
una
reazione
sovietica
sospettosa,
pur
se
mascherata
da
settimane
di
trattative
per
lo
più
formali;
tuttavia,
dalla
fine
di
giugno
–
constatato
l’obiettivo
di
solidificare
una
sfera
d’influenza
filo-americana
- i
dirigenti
dell’Est
presero
a
denunciare
gli
intenti
fondamentalmente
imperialisti
ed
anti-comunisti
del
piano,
condannandosi
così
ad
una
posizione
politica
di
sostanziale
isolamento.
4.
Irrigidimenti
e
tensioni
L’atteggiamento
del
Pci
nei
confronti
del
nuovo
governo,
comunque,
si
precisò
solo
nel
corso
dell’estate
di
quell’anno,
quando
Togliatti
e i
suoi
intuirono
che
l’illusione
di
rovesciare
rapidamente
l’esecutivo
era
destinata
a
rimanere
tale,
e
che
la
possibilità
di
una
collaborazione
governativa
era
definitivamente
tramontata.
Nel
corso
dell’estate
il
costo
della
vita
continuò
a
salire,
parallelamente
ad
una
grave
crisi
della
bilancia
dei
pagamenti,
in
seguito
alla
sospensione
della
convertibilità
della
sterlina,
decisa
appena
un
mese
prima
(luglio
1947)
con
catastrofiche
conseguenze.
Ne
derivò
un
drastico
aumento
di
proteste
ed
agitazioni
operaie
ed
agrarie,
che
acuirono
la
percezione
del
pericolo
comunista;
e
ulteriori
nubi
si
addensarono
al
momento
della
firma
del
Trattato
di
pace,
che
prescriveva
il
ritiro
delle
truppe
alleate
dal
territorio
nazionale
entro
tre
mesi
(ovvero,
entro
il
12
dicembre).
Si
temeva
un
intervento
di
Tito,
che
il
15
settembre
rinnovò
il
proposito
di
risolvere
con
la
forza
il
problema
di
Trieste.
E si
temeva
anche
la
manifestazione
nazionale
contro
il
carovita
e la
speculazione
indetta
dal
Pci
e
dal
Psi
per
il
20
dello
stesso
mese,
anniversario
della
presa
di
Roma
e
della
fine
del
potere
temporale
della
Chiesa.
Comunque
sia,
le
mozioni
di
sfiducia
presentate
singolarmente
nella
notte
tra
il 4
ed
il 5
ottobre
da
Nenni,
Saragat
e
dai
repubblicani,
nonostante
l’ambiguo
comportamento
dei
qualunquisti,
caddero
tutte
nel
vuoto,
rafforzando
ulteriormente
la
posizione
di
De
Gasperi
(confortato
dall’astensione
o
dall’assenza
di
molti
dei
deputati
socialdemocratici
e
repubblicani).
Gli
americani,
in
quei
giorni,
valutarono
la
possibilità
di
un
golpe
comunista
nel
Nord-Italia,
eventualmente
sostenuto
dai
titini:
lo
stesso
ambasciatore
Tarchiani
aveva
prospettato
una
simile
eventualità,
nel
corso
di
un
colloquio
con
il
sottosegretario
di
Stato
Robert
Lovett
datato
16
settembre.
E
solo
sei
giorni
dopo,
un
memorandum
del
Policy
Planning
Staff
del
Dipartimento
di
Stato
dal
titolo
inequivocabile
(“Possibile
azione
degli
Stati
Uniti
per
aiutare
il
governo
italiano
nel
caso
di
una
presa
di
controllo
dell’Italia
del
Nord
da
parte
dei
comunisti
e
dell’insediamento
in
quest’area
di
un
«governo»
comunista
italiano”)
aveva
ribadito
il
clima
di
tensione
che
gravava
sul
Paese.
Per
questo
il
13
dicembre,
il
giorno
prima
che
le
truppe
alleate
terminassero
il
ritiro
(contro
il
volere
di
De
Gasperi
ed i
desiderata
di
diversi
esponenti
vaticani),
il
presidente
Truman
pubblicò
l’ammonimento
americano:
“Sebbene
gli
Stati
Uniti
stiano
ritirando
le
loro
truppe
dall’Italia,
in
adempimento
agli
obblighi
assunti
con
il
trattato
di
pace,
il
nostro
Paese
continua
a
essere
interessato
al
mantenimento
di
un’Italia
libera
e
indipendente.
Se
lo
sviluppo
degli
avvenimenti
dovesse
dimostrare
che
la
libertà
e
l’indipendenza
dell’Italia,
su
cui
sono
basati
gli
accordi
di
pace,
sono
minacciate
direttamente
o
indirettamente,
gli
Stati
Uniti,
in
quanto
firmatari
del
trattato
di
pace
e in
quanto
membri
delle
Nazioni
Unite,
saranno
quindi
obbligati
a
chiedersi
quali
misure
possano
essere
più
idonee
al
mantenimento
della
pace
e
della
sicurezza”.
Il
documento
comprendeva
la
riaffermazione
dell’appartenenza
italiana
al
blocco
occidentale
(esemplificata
dalla
parola
“interesse”),
l’enunciazione
dei
presupposti
legali
per
un
eventuale
ritorno
americano
sul
territorio
nazionale
(l’alterazione
dei
presupposti
di
libertà
ed
indipendenza
sanciti
dagli
accordi
di
pace)
e la
rivendicazione
della
possibilità
di
un’azione
unilaterale
in
caso
di
necessità
(senza
neanche
accennare
alla
possibilità
di
una
richiesta
in
tal
senso
del
governo
italiano),
mettendo
in
guardia
i
potenziali
avversari
dalle
tentazioni
del
colpo
di
mano.
Altre
preoccupazioni
attanagliavano
però
i
dirigenti
comunisti,
già
abbondantemente
frustrati
per
l’impossibilità
di
rovesciare
il
governo
in
carica,
in
aula
come
in
piazza.
I
sovietici
cominciarono
infatti
a
“fare
ordine”
nel
settore
di
competenza,
arroccandosi
in
difesa
delle
conquiste
recenti:
anche
l’Est
cominciava
a
irrigidirsi.
Al
neonato
Cominform,
alla
fine
di
settembre,
affidarono
il
compito
di
stabilire
una
più
stretta
collaborazione
tra
i
partiti
comunisti
dell’Europa
orientale,
il
Pci
ed
il
Pcf
(partito
comunista
francese),
i
soli
a
farne
parte;
e
nell’incontro
di
Szklarska
Poreba,
svoltosi
dal
22
al
27
settembre
nei
pressi
di
Breslavia,
due
dirigenti
del
Pci
(Longo
ed
Eugenio
Reale)
constatarono
il
repentino
cambiamento
di
opinioni
dei
sovietici
(rappresentati
da
Zdanov
e
Malenkov),
che
alla
semplice
comunistizzazione
dei
Paesi
dell’Europa
orientale
intendevano
sostituire
un’integrale
sovietizzazione,
eliminando
la
possibilità
di
quelle
“vie
nazionali
al
socialismo”
che
Tito
(come
Gomulka,
come
Ackerman)
rappresentava,
sull’altare
di
una
divisione
rigidamente
dicotomica
del
continente.
I
sovietici
affidarono
ai
compagni
jugoslavi,
in
primis
Kardelj,
l’onere
di
sferrare
l’attacco
contro
gli
omologhi
italo/francesi:
per
“rancore
anti-italiano”
ed
“ortodossia
ideologica”,
erano
i
più
indicati.
Ai
dirigenti
occidentali
(specialmente
a
Togliatti,
l’uomo
della
‘svolta
di
Salerno’
e
dell’alleanza
con
i
cattolici)
fu
rinfacciata
brutalmente
la
condotta
fin’allora
tenuta,
ritenuta
troppo
carica
d’illusioni
parlamentari
per
il
“nuovo
corso”
decretato
dall’URSS;
fu
imposta
la
divisione
in
due
campi
ideologicamente
contrapposti
e la
necessità
di
vincolare
la
loro
azione
alla
politica
estera
sovietica,
ingiunta
la
ripresa
di
uno
scontro
frontale,
sul
piano
internazionale
come
su
quello
interno,
contro
la
borghesia
e
gli
Stati
che
la
rappresentavano
senza
però
arrivare
ad
un’insurrezione
armata,
condannata
da
Togliatti
(sostenitore
dell’opzione
legalitaria)
come
dai
sovietici;
ed
anche
una
parallela,
aprioristica
difesa
delle
esperienze
maturate
in
Europa
orientale
che
li
avrebbe
fatalmente
esposti
alle
critiche
degli
avversari.
Il
Pci
si
piegò.
Come
avrebbe
in
seguito
riconosciuto
lo
stesso
Berlinguer:
“C’è
da
chiedersi
se
la
nostra
risposta
sui
Paesi
dell’Europa
orientale
non
abbia
peccato
di
ambiguità,
non
abbia
obbedito
troppo
all’esigenza
–
che
pure
si
imponeva
– di
respingere
gli
attacchi
concentrici
delle
forze
conservatrici;
[…]
e
troppo
poco
abbia
invece
obbedito
all’esigenza
di
rispondere
agli
interrogativi,
alle
preoccupazioni,
ai
timori
sinceri
di
tanti
democratici,
affermando
–
non
solo
con
la
nostra
condotta,
come
in
sostanza
avvenne,
ma
anche
nell’esplicita
elaborazione
teorica
–
che
noi
restavamo
persuasi
della
necessaria
diversità
delle
vie
al
socialismo,
e
che
avremmo
ricercato
e
continuato
a
seguire
vie
originali
e
diverse
rispetto
all’esperienza
dei
Paesi
dell’Europa
orientale”.
Ciò
non
avvenne:
e
un’intransigenza
indifferenziata
e
miope,
senza
possibilità
di
mediazione
e
senza
velleità
governative
-
come
richiesto
da
una
parte
della
base
comunista
delusa
dal
“legalitarismo”
togliattiano
- fu
da
allora
imposta
allo
stesso,
reticente
segretario,
costretto
ad
abbandonare
la
strategia
prudente
degli
ultimi
anni,
e ad
abbracciare
senza
riserve
la
politica
dell’Urss.
La
svolta
imposta
dai
vertici
sovietici
indebolì
sensibilmente
le
posizioni
del
Pci
sullo
scenario
nazionale
e si
ripercosse
sullo
stesso
linguaggio
politico
dei
comunisti.
Da
una
posizione
di
moderata
conciliazione
con
i
socialdemocratici
del
Psli
si
passò
alle
accuse
di
“tradimento”,
da
un
sostanziale
quietismo
sui
problemi
economici
si
balzò
a
slogan
d’altri
tempi
-
esemplificati
dal
comunicato
del
25
ottobre,
dal
significativo
titolo
“Resistere
all’offensiva
padronale!
Contrattaccare!”
-,
dal
sostanziale
disinteresse
per
i
Consigli
di
gestione
si
puntò
ad
un
loro
recupero
sul
piano
della
lotta
politica.
L’irrigidimento
sovietico
trascinò
seco
il
Pci
di
Togliatti
anche
sul
fondamentale
terreno
del
Piano
Marshall,
che
il
leader
comunista
–
come
si è
visto
–
aveva
timidamente
avallato
in
maggio;
e la
nuova
fase
politica
decretata
dall’ukase
sovietico
fu
in
effetti
inaugurata
proprio
dalla
rapida
retromarcia
di
Togliatti
su
questo
tema,
nel
corso
del
VI
congresso
del
partito,
aperto
il 4
gennaio
1948
a
Milano:
“L’adesione
incondizionata
al
‘Piano
Marshall’
e
l’inizio
di
trasformazioni
economiche
nel
nostro
Paese
in
appendice
ad
una
grande
potenza
imperialistica,
costituiscono
quindi
una
minaccia
per
lo
sviluppo
autonomo
della
nostra
industria,
della
nostra
economia
e
dei
nostri
scambi
internazionali”.
Negli
stessi
giorni,
in
Italia,
le
difficoltà
economiche
eccitarono
ulteriormente
gli
animi:
in
Lombardia,
colpita
maggiormente
dalla
crisi
in
atto,
la
temperatura
politica
salì
in
fretta;
tra
gli
altri
gruppi
emerse
la
‘Volante
rossa’,
che
avrebbe
in
seguito
fatto
scuola.
Così
Nenni
descrisse
la
situazione:
“12
novembre.
Una
ventata
di
terrorismo
si è
abbattuta
sull’Alta
Italia
e
particolarmente
su
Milano.
Si è
cominciato
con
le
bombe
alle
sedi
comuniste
cui
sono
seguite
misure
di
rappresaglia
che
a
loro
volta
hanno
provocato
altri
attentati.
Un
cerchio
infernale.
Ieri
a
Mediglia
un
agrario
ha
sparato
su
degli
operai
uccidendone
uno
ed è
stato
linciato.
Stamattina
una
bomba
è
stata
lanciata
contro
una
sede
comunista
a
Milano.
Ne è
seguito
uno
sciopero
generale
con
devastazioni
di
giornali
e di
sedi
del
Msi,
dei
qualunquisti
ecc..
13
novembre.
L’ondata
di
violenza
dilaga.
A
Napoli
oggi
ci
sono
stati
grossi
incidenti.
Così
a
Livorno,
nel
Salernitano,
a
Palermo
ecc.
Sedi
di
organizzazioni
di
destra
e
giornali
sono
prese
d’assalto.
Il
ministro
Scelba
ha
risposto
oggi
a
ben
undici
interrogazioni
[…]14
novembre.
Nel
Paese
la
situazione
è
sempre
molto
tesa
e si
temono
gravi
incidenti
a
Cremona.
Insomma
l’atmosfera
del
’21,
con
la
differenza
che
siamo
più
forti
d’allora”.
Di
lì a
breve
la
tensione
accumulata
si
sfogò
nella
presa
della
prefettura
di
Milano
da
parte
del
parapartito
armato
(gestito
e
organizzato
da
Pietro
Secchia,
numero
tre
del
Pci)
in
risposta
alla
sostituzione
del
prefetto
–
gradito
alle
sinistre
-
Troilo,
il
28
novembre:
“Si
trattava”,
secondo
Giancarlo
Pajetta,
responsabile
per
la
Lombardia,
“di
mostrare
che
avevamo
una
forza
notevole
ed
eravamo
pronti
ad
usarla,
in
modo
da
impedire
che
certa
gente
si
illudesse
di
poterci
liquidare
facilmente”.
La
situazione
si
risolse
poi
in
un’intesa,
caldeggiata
sia
da
De
Gasperi
che
da
Togliatti
(il
quale
gelò
l’eccitato
Pajetta
con
una
celebre
boutade:
“Adesso
che
l’avete
presa,
cosa
ve
ne
fate?”);
ma
la
lotta
sociale
in
strade
e
piazze
proseguì
con
rinnovata
energia,
mobilitando
i
contadini
del
Meridione
come
gli
operai
dei
centri
industriali,
e
finanche
categorie
meno
inclini
all’azionismo
politico
(tra
cui
gli
impiegati
di
banca,
la
cui
vertenza
si
concluse
a
metà
gennaio,
dopo
14
giorni
di
trattative):
il
bollettino
delle
agitazioni
politico-sindacali
e
degli
scontri
che
ne
conseguivano,
composto
da
tasselli
di
conflittualità
locale,
rende
l’idea
della
situazione
del
Paese:
il
15
gennaio,
a
Roma,
la
polizia
caricò
una
manifestazione
di
invalidi;
una
settimana
dopo,
a
Firenze,
i
manifestanti
stessi
reagirono
alla
forza
pubblica
ed
assaltarono
la
prefettura.
Episodi
come
questi,
presi
a
dimostrazione
dell’irrigidimento
della
repressione
governativa
da
parte
delle
sinistre,
contribuirono
peraltro
a
mettere
sotto
accusa
l’opera
del
ministro
dell’Interno
Scelba
proprio
mentre
il
governo
metteva
mano
ad
un
decreto
legge
che
inaspriva
le
pene
per
chi
attuasse
blocchi
stradali
e
ferroviari,
soprattutto
se
con
“l’uso
della
violenza
o
minaccia
alle
persone
o
violenza
sulle
cose”.
Al
contempo,
il
parapartito
armato
–
deluso
per
l’esito
della
presa
della
Prefettura
–
cominciò
a
mostrare
segni
d’impazienza;
il
racconto
di
un
partecipante
alla
manifestazione
conclusiva
del
I
congresso
nazionale
della
Resistenza,
a
Roma,
lo
dimostra:
“Partimmo
da
Genova
dove
alla
stazione
ferroviaria
funzionava
perfettamente
la
sussistenza.
A
tutti
fu
distribuita
per
la
notte
una
razione
K,
razioni
d’emergenza
delle
truppe
americane…Nel
mezzo
della
Maremma
ci
fu
una
sosta
obbligatoria,
penso
sia
stata
dovuta
al
confluire
di
diversi
convogli...
Dopo
pochi
minuti
corse
la
voce
sabotaggio.
Esasperazione.
Inutilmente
nel
buio
staffette
passavano
di
carro
in
carro
spiegando
le
ragioni
della
sosta.
Dal
carro
degli
spezzini
partì
un
colpo
di
bazooka.
Per
pochi
secondi,
ma
intensissima,
seguì
una
sparatoria
infernale.
Raffiche
di
sten,
colpi
di
pistola
e
scoppi
di
bombe
a
mano…Roma
era
deserta,
eccetto
le
ali
di
folla
plaudente
tutto
era
deserto.
Non
si
vedeva
né
polizia
né
soldati,
tutti
erano
pronti,
ma
nelle
caserme…Ricordo
la
delusione
di
tutti
quelli
che
mi
circondavano
quando,
nel
discorso
ufficiale,
Longo
raccomandò
la
calma…Le
intenzioni
di
tutti
al
basso
erano
ben
diverse.
Da
parte
di
tutti
c’era
il
proposito
di
spaccare
il
mondo
e a
un
certo
punto
la
sensazione
che
si
stava
per
concludere
qualcosa
di
grosso.
Ma
poi
la
tensione
cadde
in
un
sciogliete
le
righe…Le
armi
erano
rimaste
sotto
il
giubbotto,
anche
se
non
c’era
timore
alcuno
e
ogni
tanto
si
poteva
vedere
con
facilità
spuntare
di
sotto
l’abito
qualche
manico
di
rivoltella”.
Le
armi
della
Resistenza,
infatti,
erano
in
parte
ancora
disponibili,
e
contribuivano
ad
accrescere
lo
stato
d’inquietudine
che
regnava
nel
Paese.
“La
situazione
alla
fine
del
1947
è
contrassegnata,
dunque,
da
un
lato,
dalla
moderazione
del
gruppo
dirigente
comunista
che
tuttavia
non
riesce
a
contenere
del
tutto
le
rivendicazioni
economiche
e
politiche
della
base
operaia,
e,
dall’altro,
dai
timori
della
destra
interna
e
internazionale
e
dall’insistenza
della
stampa
filogovernativa
sul
carattere
‘preinsurrezionale’
degli
scioperi
e
delle
agitazioni
delle
ultime
settimane”.
Le
conseguenze
del
clima
di
scontro
frontale
che
si
andava
diffondendo
nel
Paese
emersero
quindi
fragorosamente
all’alba
del
nuovo
anno;
l’anno
delle
decisive
elezioni
politiche,
che
all’inizio
dell’estate
dell’anno
precedente
si
era
stabilito
si
svolgessero
nei
primi
mesi
del
1948,
e
che
il
governo
– a
febbraio
–
fissò
definitivamente
per
il
18
aprile.
5.
La
nascita
del
Fronte
Le
direttive
di
Zdanov
e
del
gruppo
dirigente
sovietico
trovarono
un
inatteso
alleato
nel
Psi
di
Nenni,
ripresosi
dalla
scissione,
reduce
da
un
ottimo
risultato
alle
elezioni
sindacali
e
rafforzato
dall’afflusso
di
molti
ex-azionisti:
“Forse
perché
nella
mia
mente
si
era
fissata
con
tanta
forza
l’esperienza
del
Fronte
popolare
francese”,
chiarì
poi
lo
stesso
Nenni,
“io
ero
convinto
che
anche
in
Italia
uno
schieramento
compatto
delle
sinistre
ci
avrebbe
portato
al
successo”
. Di
sicuro,
nella
scelta
di
presentarsi
uniti
ai
comunisti
contarono
anche
considerazioni
di
ben
altra
natura:
era
forte
il
timore,
presentandosi
da
soli,
di
“scoprirsi”
indeboliti
rispetto
alle
consultazioni
del
2
giugno
1946;
era
forte
il
richiamo
della
base
all’unione
con
i
“fratelli”
del
Pci;
ed
era
altrettanto
forte
la
velleità
di
rivincita
sugli
“scissionisti”
del
Psli,
che
l’8
gennaio
aveva
dichiarato
la
propria
indisponibilità
ad
allearsi
con
movimenti
non
socialisti.
Ragioni
troppo
solide
da
scalfire
anche
per
Pertini,
che
invano
tentò
di
opporsi
all’operazione
conclusasi
nella
notte
del
23
gennaio
1948,
in
occasione
del
congresso
del
partito,
quando
la
mozione
per
la
lista
unica
raccolse
525.000
voti,
mentre
Pertini
–
sostenitore
di
liste
separate
– ne
ottenne
solo
257.000.
Per
quanto
riguarda
Togliatti,
la
sensazione
che
emerge
è
quella
di
un
leader
perlomeno
perplesso
di
fronte
all’operazione,
che
rinnegava
in
effetti
l’intera
politica
seguita
dalla
svolta
di
Salerno
in
poi,
e
correva
a
tutta
velocità
verso
uno
scontro
frontale
con
il
“blocco”
avversario;
ma
il
Psi,
per
una
volta
compatto
nelle
sue
correnti
principali,
si
era
mosso
in
quella
direzione,
e
non
poteva
essere
deluso.
Una
frase
su
tutte
basta
a
rappresentare
la
situazione:
come
ebbe
a
dire
Togliatti,
“E
che
ci
posso
fare
io,
se
Nenni
e
Basso
vogliono
il
fronte
elettorale
a
tutti
i
costi?”.
Al
contempo,
non
va
dimenticato
che
anche
Togliatti
aveva
i
suoi
buoni
motivi
per
non
rifiutarsi:
primo
fra
tutti,
quello
di
accontentare
i
desiderata
sovietici,
ed
insieme
di
una
parte
del
partito.
Domenica
1°
febbraio
1948
nella
sala
del
Planetario
a
Roma
si
aprì
l’Assemblea
Generale
del
Fronte
Democratico-Popolare;
parteciparono,
oltre
al
Pci
ed
al
Psi,
una
pioggia
di
partiti,
sigle
e
associazioni:
dal
Partito
democratico
del
lavoro
al
Partito
sardo
d’azione,
dal
Partito
cristiano
sociale
al
Comitato
dei
consigli
di
gestione,
dal
Comitato
democratico
per
il
Mezzogiorno
a
quello
per
la
Costituente
della
terra
alla
Lega
dei
comuni
democratici.
In
quella
sede
si
definirono
anche
natura
ed
obiettivi
dell’alleanza:
“Il
Fronte
popolare
non
è un
partito,
né
una
somma
di
partiti.
I
movimenti,
i
gruppi,
i
partiti,
le
personalità
indipendenti
che
se
ne
fanno
promotori
conservano
i
loro
ideali,
la
loro
piena
autonomia
politica
e
organizzativa.
Il
Fronte
democratico
popolare
è
un’alleanza,
un
impegno
comune,
per
una
lotta
comune,
perché
siano
tradotti
nella
realtà
sociale,
nazionale
e
internazionale
i
principi
affermati
nella
Costituzione
della
Repubblica.
È
un’alleanza
per
il
raggiungimento
di
un
obiettivo
comune,
di
un
assetto
civile,
che
è la
condizione
di
ogni
libera
competizione”
.
6.
La
Dc e
la
collaborazione
di
governo
Già
nel
corso
dei
dibattiti
parlamentari
di
settembre-ottobre
emerse
con
chiarezza
la
possibilità
di
una
collaborazione
democristiana
con
repubblicani
e
socialdemocratici,
ampiamente
caldeggiata
dagli
americani
già
a
partire
dalla
formazione
del
De
Gasperi
IV -
agli
inizi
di
giugno.
La
Dc,
constatata
la
disponibilità
degli
interlocutori,
si
aprì
dunque
ad
un
allargamento
della
maggioranza.
Fu
piuttosto
facile
accordarsi
con
i
repubblicani:
Pacciardi,
dopo
aver
insistito
per
ottenere,
oltre
ad
una
vicepresidenza
del
Consiglio,
anche
il
Ministero
dell’Interno,
si
accontentò
di
un
Comitato
per
la
difesa
dell’ordine
pubblico.
Più
complessa
si
rivelò
l’intesa
per
l’ingresso
nel
governo
del
Psli
di
Saragat,
che
dovette
prima
superare
l’ostilità
dell’ala
sinistra
del
suo
partito
dimostrando
l’impossibilità
di
arrivare
ad
una
lista
unica
dei
socialisti
senza
il
Pci
e
poi
convincere
lo
stesso
De
Gasperi
a
rinunciare
all’alleanza
con
i
qualunquisti,
prima
di
incassare
l’approvazione
del
gruppo
parlamentare
(con
26
voti
favorevoli
e 6
tra
contrari
ed
astenuti).
In
questo
modo
completò
il
passaggio
dalla
collaborazione
governativa
con
le
sinistre
ad
un
gabinetto
di
centro
(formato,
oltre
alla
Dc,
da
Psli,
Pri
e
Pli).
Completato
il
riassetto
governativo,
toccò
a De
Gasperi
richiamare
i
suoi
allo
scontro
elettorale
nel
discorso
tenuto
in
occasione
del
I
Convegno
nazionale
delle
consigliere
democristiane,
a
Roma,
il 2
febbraio:
“Attenzione.
Il
‘cosiddetto’
Fronte
fa
uso
dei
gas.
La
cortina
dei
gas
fumogeni
è
costituita
da
quei
pochi
borghesi
di
stile
moderato
che
vengono
cacciati
avanti
per
nascondere
le
truppe
d’urto
che
seguono,
agli
ordini
del
‘maresciallo
Longo’,
truppe
di
choc,
che
si
battono
per
la
dittatura
balcanica
[…]
Ma
c’è
anche
il
gas
che
assopisce
ed
avvelena.
È il
gas
della
paura.
Bisogna
reagire
al
panico
e al
terrore!
Bisogna
avere
consapevolezza
che
la
lotta
è
aspra
e
decisiva
.
[…]
La
nostra
parola
d’ordine
è:
‘avere
coraggio
e
infondere
coraggio’.
Agire
secondo
coscienza.
Costi
quel
che
costi”.
7.
Le
elezioni
romane.
Il
primo
obiettivo
della
Dc,
che
a
metà
di
febbraio
lanciò
una
sottoscrizione
nazionale
dalle
colonne
de “Il
Popolo”
per
finanziare
la
campagna
elettorale
ricordando
ancora
che
“nessuno
sforzo,
nessun
sacrificio
deve
perciò
sembrare
troppo
grave
per
vincere
questa
battaglia”
,
era
quello
di
imporsi
come
il
collante
ed
il
pilastro
di
tutte
le
forze
anti-comuniste
del
Paese.
L’operazione
fu
facilitata
dai
buoni
risultati
ottenuti
alle
elezioni
romane
del
12
ottobre
1947,
che
testimoniarono
la
ripresa
dei
democristiani
dopo
i
deludenti
risultati
elettorali
dei
mesi
precedenti.
Rispetto
alle
consultazioni
romane
del
novembre
1946
la
Dc
raddoppiò
i
sostegni,
passando
da
104.000
a
204.000
voti
a
spese
di
qualunquisti
(crollati
da
106.000
a
62.000
voti),
monarchici
e
liberali.
Oltre
ai
neofascisti
del
Msi,
profilatisi
all’estrema
destra
e
capaci
di
raccogliere
3
seggi,
si
registrò
inoltre
una
moderata
regressione
del
Blocco
del
Popolo
social/comunista,
i
cui
voti
erano
cresciuti
proporzionalmente
meno
del
numero
dei
votanti,
provocando
la
perdita
di 3
seggi.
Sull’onda
del
successo,
la
Dc
si
mosse:
a
dicembre
il
ministro
dell’Industria
Togni
intervenne
all’assemblea
di
Confindustria,
avvicinando
quel
mondo
imprenditoriale
e
finanziario
che
sarebbe
stato
imprescindibile
per
un’affermazione
elettorale.
La
piccola
e
media
borghesia,
il
“referente
naturale”
della
Dc,
si
avvicinò
per
così
dire
spontaneamente,
man
mano
che
l’azione
parallela
della
discesa
dei
prezzi
e
dei
meccanismi
di
difesa
del
salario
(scala
mobile
ed
intese
sindacali)
garantì,
per
la
prima
volta
dall’anteguerra,
il
sorpasso
dello
stesso
sul
costo
della
vita
; e
per
invogliarla
ulteriormente
il
governo
in
carica
(nelle
figure
del
sottosegretario
alla
presidenza
del
Consiglio
Andreotti
e
del
Ministro
della
Giustizia
Grassi)
mise
mano
ad
una
legge
per
reintegrare
nei
ranghi
le
migliaia
di
funzionari
e
burocrati
epurati
per
motivi
politici
negli
anni
precedenti,
completando
il
processo
avviato
due
anni
prima
con
l’amnistia
decretata
dall’allora
Ministro
di
Grazia
e
Giustizia:
Palmiro
Togliatti.
Ne
derivò
una
rivincita
degli
sconfitti,
una
riabilitazione
complessiva
che
–
nella
pratica
–
mise
fine
al
“processo
al
fascismo”
e
spostò
le
luci
sul
campo
avverso,
validamente
sostenuta
da
alcune
esemplari
sentenze
delle
Corti
di
giustizia
ai
danni
dei
partigiani.
Achille
Battaglia,
a
questo
proposito,
parlò
di
“indebolimento
politico
dell’antifascismo”
,
consequenziale
alla
fine
dell’alleanza
tra
democristiani,
socialisti
e
comunisti.
Mentre
cominciavano
a
muoversi
sul
piano
della
battaglia
politica,
il
12
dicembre
i
partiti
anti
-
fascisti
approvarono
il
loro
ultimo
atto
concorde,
la
Carta
Costituzionale,
il
canto
del
cigno
e
insieme
l’epitaffio
d’un
incontro.
Riferimenti
bibliografici:
I.
Montanelli/M.
Cervi,
L’Italia
della
Repubblica,
Rcs
libri,
Milano
2000.