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N. 18 - Giugno 2009 (XLIX)

LE ORIGINI DEL 18 APRILE
La situazione politica nel 1947
di Cristiano Zepponi

 

L’esperienza dei governi d’unità antifascista, fondati prima sul Cln e poi sul faticoso accordo tra i tre partiti di massa consacrati dalle elezioni del 2 giugno 1946, si concluse improvvisamente nella primavera del 1947, allorchè i nuovi indirizzi del quadro internazionale cominciarono ad irrompere fragorosamente nello scenario italiano; la Carta costituzionale, frutto di un’alchimia politico/giuridica tra le esigenze dei princìpi cattolici, dell’internazionalismo comunista e del neutralismo socialista ne costituiva l’ultima testimonianza: la solidarietà antifascista tra i partiti di governo aveva infatti cominciato ad indebolirsi già a partire dall’inverno del 1946, quando i sentimenti anticomunisti si rafforzarono nella Chiesa, tra i liberali, i qualunquisti e la Dc.

 

1. I primi mesi del 1947

 

Nel gennaio del 1947, pochi mesi prima della cosiddetta “svolta moderata”, la prima missione negli Stati Uniti di De Gasperi (allora a capo del suo secondo gabinetto) incassò un simbolico assegno di 100 milioni di dollari concesso a titolo di prestito dalla Export-Import Bank per aiutare la ripresa italiana, da tempo promesso e continuamente rinviato anche a causa della condotta americana, “ancora disattenta ed incerta sul ruolo dell’Italia”; oltre, quel ch’è più importante, al segno d’un mutato atteggiamento nei confronti del blocco sovietico, e – di conseguenza – della politica italiana in genere, che annoverava pur sempre tra le sue fila il più grande partito comunista d’Occidente. Fu lo stesso De Gasperi che impose all’attenzione degli interlocutori la realtà dei fatti: “il Paese è oggi nella morsa di una crisi tanto economica che politica […] il partito comunista stava esercitando la massima pressione per portare l’Italia all’interno della sfera d’influenza russa”, si legge nell’appunto della conversazione tra il primo ministro italiano ed il segretario di Stato uscente Byrne redatto da James Dunn, appena nominato ambasciatore a Roma.

 

Ancora oggi, comunque, nessuno può chiarire con certezza se il presidente Truman abbia condizionato o meno ulteriori e più cospicui aiuti economici all’estromissione dei comunisti dal governo. Quel ch’è certo è che lo ‘Zeitgeist’, lo spirito del tempo, spingeva in quella direzione; specie dopo gli esiti disastrosi per la Dc delle elezioni amministrative del 10 novembre 1946, che costituivano “un monito chiarissimo su come vanno le cose in Italia”, per usare le parole dell’analisi confidenziale del responsabile degli affari italiani al Dipartimento di Stato americano, Walter Dowling. Il quale consigliava, nel caso in cui il governo avesse deciso che “nell’interesse nazionale valga la pena di compiere il grande sforzo che sarà necessario per impedire che l’Italia diventi comunista”, alcune iniziative immediate tra le quali “una parola gentile, una fetta di pane e un tributo alla civiltà italiana”, oltre alla visita di De Gasperi di cui sopra.

 

Appena tornato, tuttavia, lo stesso De Gasperi fu assorbito dalle conseguenze della scissione di Palazzo Barberini, dove il vecchio Psiup, sottoposto a dirompenti pressioni esterne, si era diviso nel Psi di Nenni (filo-comunista) e nel Psli (Partito socialista dei lavoratori italiani) di Saragat, vicino a posizioni socialdemocratiche: un esito atteso, caldeggiato e voluto dalla Dc, dopo i fallimentari tentativi di scindere l’alleanza tra Nenni ed i comunisti, e dallo stesso Pci, preoccupato da un’eventuale scissione “a sinistra” o dalla possibilità di un voltafaccia socialista.

 

 

Nacque così, il 2 febbraio del 1947, il terzo gabinetto De Gasperi.

Ancora, nella compagine governativa figurarono comunisti e socialisti, nonostante le pressioni vaticane spingessero per un’immediata rottura dell’alleanza già all’indomani delle elezioni amministrative del 9 novembre 1946: ma uscirono dalla crisi vistosamente indeboliti, dopo la perdita dei dicasteri delle Finanze e degli Esteri. Il loro coinvolgimento, in ultima analisi, risultò necessario per minimizzare le reazioni all’imminente firma del Trattato di pace, che conteneva in effetti “un giudizio morale e giuridico sull’Italia, la pronuncia di un castigo attraverso il quale deve redimersi”, com’ebbe a dire Benedetto Croce; reazioni che puntualmente si verificarono nel luglio successivo, allorchè la bozza finale fu sottoposta all’esame dell’Assemblea costituente per la ratifica, dopo la firma a febbraio nel salone dell’Orologio del Quai d’Orsay.

 

Ma ciò non toglie che il processo di esautorazione, di progressiva emarginazione delle sinistre dal potere fosse già cominciato.

 

In quello stesso febbraio del 1947, però, altri e più importanti avvenimenti sullo scenario mondiale rivelarono il cambiamento d’indirizzi della politica americana.

La Gran Bretagna, uscita stremata e nettamente ridimensionata dallo sforzo bellico, fu infatti costretta ad annunciare il disimpegno dalla guerra civile greca, dove le forze comuniste dell’Eam (appena velatamente sostenute dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria) rischiavano di prevalere sugli oppositori filo-occidentali; le finanze della Corona, pur rimpinguate da un prestito americano di 3.750.000.000 di dollari nel dicembre 1945, e da un analogo sussidio canadese di 1.250.000.000 di dollari, non riuscivano più a sostenere una politica di potenza in stile pre-bellico.

 

L’atteggiamento di Stalin nei confronti dello scacchiere mediterraneo, in effetti, si rivelò in quei mesi piuttosto incerto. Ma si può facilmente intendere che la caduta della Grecia sarebbe stata intesa come un presagio infausto per l’Occidente tutto, che dal colosso sovietico cominciava a sentirsi minacciato.

 

La dichiarazione d’impotenza britannica, alla fine, ebbe l’effetto di spalancare le porte all’iniziativa americana, simboleggiata dalla nomina a segretario di Stato del generale Marshall: già il 12 marzo il presidente Truman, rivolgendosi ad una sessione unita del Congresso, affermò il diritto e la necessità per l’America d’intervenire per sostenere i regimi democratici impegnati a difendere la propria libertà contro l’azione di minoranze interne e/o condizionamenti stranieri, e richiese uno stanziamento di 400.000.000 di dollari “per un’immediata assistenza alla Grecia e alla Turchia, allo scopo di impedire il ripetersi degli avvenimenti verificatisi in vari Stati dell’Europa orientale, posti sotto il controllo russo tramite l’artifizio di governi dominati dai comunisti”. Un mese dopo, la richiesta venne accolta.

 

Fu il segno d’un ri-orientamento della politica americana, d’un salto di qualità ideologico e globalistico che riguardò e insieme trascese il problema della piccola Grecia, ammonendo direttamente i dirigenti sovietici. Questo complesso di mutazioni, irrigidimenti e assunzioni di responsabilità avrebbe poi preso il nome dal presidente: e la “dottrina Truman” avrebbe rappresentato, sul piano pratico, la presa di coscienza delle divergenze ormai insanabili tra le due superpotenze, meno urgenti forse della questione ellenica, ma non per questo meno evidenti.

 

La Germania, innanzi tutto: la conferenza dei Ministri degli Esteri riunitasi a Monaco nei mesi di marzo ed aprile del 1947 non aveva risolto la frattura creatasi tra gli occidentali (dall’inizio dell’anno le zone d’occupazione americana e britannica erano state fuse), che stavano attivamente sostenendo la ripresa del Paese sconfitto, ed i sovietici, che tentavano di cavarne il massimo valore materiale possibile, provavano a strappare un ruolo nella gestione del bacino della Ruhr e ritenevano che – non potendo annettere il Paese, “chiave d’Europa” – fosse preferibile impedire il ripristino della potenza d’anteguerra.

 

E poi l’Austria, in seconda battuta, cui l’URSS chiedeva la cessione della Carinzia alla Jugoslavia.

 

I blocchi si stavano irrigidendo inesorabilmente: s’imponeva, anche alla piccola Italia, d’adeguarsi alla soluzione più ‘naturale’, la ripartizione bipolare dell’Europa, stabilita da due superpotenze ideologiche e impaurite.

 

2. La rottura dell’alleanza antifascista

 

De Gasperi, per muoversi, seppe attendere: e per questa sua qualità Montanelli – quasi mezzo secolo dopo - scrisse che sapeva interpretare al meglio la celebre preghiera protestante, “dammi la forza di cambiare le cose che si possono cambiare, la pazienza di accettare quelle che non si possono cambiare e l’intelligenza di distinguere le une dalle altre”.

 

Solo dopo la firma del Trattato di pace ed un’altra sconfitta elettorale (stavolta in Sicilia, dove il 20/21 aprile si votò per l’Assemblea regionale e la Dc passò dal 33,6% al 20,5% contro il 30, 4% del ‘Blocco del popolo’ Pci-Psi-Pd’A), quando ancora doveva asciugarsi il sangue versato a Portella della Ginestra, il leader della Dc operò la rottura dell’“alleanza antifascista” con le sinistre, ed estromise comunisti e socialisti dal governo; lo stesso accadde contemporaneamente nella vicina Francia.

 

Si aprì così, coll’adeguamento al nuovo scenario internazionale, “una fase nella quale la classe politica italiana assume e interiorizza non solo l’esistenza ma la pregnanza e potrei dire la sovranità del nuovo ordine internazionale che regge l’Europa divisa a metà e di conseguenza l’Italia”: una fase, in fondo, di cui l’Italia è specchio e spia al tempo stesso.

 

Dunque, dopo il fallito tentativo di pacificazione di Nitti e l’ancor più rapido insuccesso di Orlando, il “presidente della vittoria”, il 30 maggio del 1947 De Gasperi formò un nuovo gabinetto monocolore, rafforzato da quattro indipendenti (Sforza agli Esteri, Merzagora al Commercio estero, Corbellini ai Trasporti e Del Vecchio al Tesoro) e due liberali, Grassi ed Einaudi, al quale fu affidata – in veste di vicepresidente del Consiglio e di Ministro del Bilancio - la responsabilità di una politica economica restrittiva fondata sulla svalutazione, la riduzione della spesa pubblica, il potenziamento delle esportazioni, il brusco aumento della riserva obbligatoria delle banche e del tasso di sconto: con l’obiettivo di raggiungere un’effettiva stabilizzazione economica, oltre ad un maggior intervento statale sulla vita economica italiana, e di favorire la nascita d’un blocco sociale di ceti medi politicamente moderato. La fiducia degli operatori economici, necessaria per la riuscita dell’operazione, dipendeva proprio dall’allontanamento delle sinistre; ed in questo senso agì De Gasperi, trasformando definitivamente l’equilibrio che per tre anni aveva retto la politica italiana e allineandosi al nuovo corso politico caldeggiato da Washington.

 

“Né da parte italiana, né da parte americana esistono prove concrete di un’azione concertata tra Roma, Washington e Londra per porre fine anche in Italia all’alleanza di guerra”, secondo Gambino. Ma quel ch’è certo è che dai mesi di marzo/aprile del 1947 l’atteggiamento americano, precedentemente utilitaristico e quasi disinteressato, si trasformò in una condotta di segno radialmente inverso, come timidamente emerso nel corso della visita americana del leader democristiano: “Il Dipartimento di stato è profondamente preoccupato dal deterioramento delle condizioni politiche ed economiche italiane, che evidentemente stanno conducendo a un ulteriore aumento della forza comunista e a un conseguente peggioramento della situazione degli elementi moderati […] Il Dipartimento desidera inoltre la vostra opinione sulla possibilità che De Gasperi abbandoni la guida del governo, o che tenti di formare un governo senza l’estrema sinistra, nella speranza di migliorare le prospettive della Democrazia Cristiana nelle elezioni di Ottobre”, scrisse Marshall il 1° maggio all’ambasciatore Dunn, chiarendo che l’abulia nei confronti delle faccende italiane era definitivamente terminata e si preparava una fase in cui gli Stati Uniti si sarebbero preoccupati di rafforzare gli elementi filo-occidentali di un Paese ormai conquistato alla ‘dottrina Truman’ ed alla nuova teoria del “contenimento” (containment) elaborata da George Kennan.

 

La svolta di De Gasperi, qualunque sia stato il ruolo dell’amministrazione americana nella vicenda (semplice appoggio morale/finanziario, come emerge dagli incitamenti e dalle promesse di Marshall durante la crisi, o condizionamento esplicito) costituiva il logico epilogo della linea politica democristiana dal ’44 in poi, e fu salutata come “una necessaria chiarificazione” in gran parte del mondo cattolico.

 

Si trattava, da una parte, di una mossa sicuramente rischiosa; ma il rischio era attenuato dalla “temporaneità” prospettata da De Gasperi al suo omologo comunista, Togliatti, e dalla sorpresa delle sinistre, probabilmente prese in contropiede da una tale evoluzione della situazione politica, limitate da un leader deciso a contenere le reazioni al “governo nero” entro limiti legali e convinto che le circostanze favorevoli all’insurrezione fossero ormai venute meno, nonostante la delusione della “base” esautorata dal potere.

 

Nessuno pensava, allora, che il passaggio all’opposizione del Pci potesse trasformarsi in un “dato definitivo e irrevocabile della politica italiana”.

 

La svolta monocolore, per di più, garantiva degli indubbi vantaggi alla compagine degasperiana, permettendole di perseguire un duplice risultato: prendere atto della progressiva divaricazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, dando vita ad un governo che meglio si adattasse alle mutate circostanze internazionali, e contemporaneamente fare della Dc – e della sua stessa leadership – “la principale garanzia dell’ancoraggio del Paese al nascente ‘campo occidentale’ […] (salvaguardando) la centralità della Dc di fronte alla duplice offensiva di destra e di sinistra che, come avevano dimostrato in aprile le elezioni regionali siciliane, rischiava seriamente di metterne a repentaglio il primato nel Paese”.

 

La guerra fredda, da un certo punto di vista, giocò quindi un ruolo centrale nella politica degasperiana, porgendole il pilastro indispensabile al superamento della “coabitazione forzata”.

 

I vertici del Dipartimento di Stato americano, nel periodo in questione, concordavano nell’interpretazione della situazione europea; la loro analisi, più che all’agitazione “rossa”, additava alle difficoltà economiche del Continente, ereditate dal conflitto appena conclusosi, la vulnerabilità di fronte alla minaccia comunista. A fine maggio, Clayton scrisse: “L’Europa sta cadendo in pezzi. La situazione politica è il riflesso di quella economica”.

 

Ne derivava logicamente la necessità di sostenere la ricostruzione europea, che correva il rischio di restare soffocata dai crescenti deficit della bilancia dei pagamenti.

 

La Gran Bretagna, principale esportatrice di capitali nella fase storica precedente, appariva però incapace di sostenere il suo stesso rango imperiale, come detto per la vicenda greca, e passò il testimone agli Usa, che fecero della potenza produttiva e finanziaria la leva del contenimento. Fornendo all’Europa occidentale le risorse necessarie a portare avanti la ricostruzione senza drammatiche strette deflattive e sostenendo i governi dotati di monete forti ed aperti agli scambi internazionali, gli americani ritennero di poter spegnere sul nascere i vari focolai di crisi che, secondo la loro analisi, avrebbero altrimenti generato tensioni sociali ed instabilità politica a vantaggio dei comunisti: “Gli aiuti americani all’Europa dovrebbero essere diretti non a combattere il comunismo come tale, ma a restituire vigore e benessere economico alla società europea”, prescriveva infatti l’ufficio diretto da Kennan, il ‘Policy Planning Staff’.

 

3. Il piano Marshall

 

Il 5 giugno, cinque giorni dopo l’esautorazione delle sinistre dalla compagine di governo in Italia, il segretario di stato Marshall annunciò – parlando all’università di Harvard - la disponibilità americana ad un piano straordinario di sostegno finanziario all’Europa occidentale, traducendo in operazione politica l’assioma della prosperità come fondamento della stabilità democratica.

 

Un programma d’assistenza coordinato e a lunga scadenza rivolto all’Europa nel suo insieme, dunque, che superasse la prassi degli aiuti localizzati fin’allora prevalente e che presto avrebbe preso il nome dal suo ideatore.

 

Così ne parlò De Gasperi ai primi di febbraio del 1948: “Ma che cosa è il Piano Marshall? Lasciando da parte la sua tecnica che è ancora da fissare, diremo che in sostanza esso è la collaborazione economica fra i Paesi europei integrata da aiuti americani. Se davvero l’America avesse voluto asservire i suoi debitori italiani e francesi avrebbe fatto dei prestiti diretti a tali paesi e non si sarebbe interessata all’Europa. Invece l’America cerca di sollevare l’Europa, di mettere d’accordo i Paesi europei, di creare una situazione di possibilità economiche perché divengano un baluardo della pace […]. L’attuazione del ‘Piano’ vuol dire ritorno all’ordine delle nazioni, vuol dire eliminare ogni causa di guerra. Con l’attuazione del ‘Piano’ le nazioni europee saranno delle collaboratrici di pace nell’ordine economico”.

 

Per la Dc, in effetti, il nascente piano Marshall (o Erp, European Recovery Program) costituiva una miniera di occasioni uniche ed irripetibili. Innanzitutto permetteva un solido ancoraggio del Paese al carro occidentale che andava ormai delineandosi, permettendo allo stesso De Gasperi di presentarsi come garante del legame con gli Stati Uniti. In secondo luogo offriva la concreta speranza di un futuro prospero, una volta superata la stretta deflattiva e creditizia cui Einaudi stava sottoponendo il Paese per stabilizzare la lira.

 

In ultima analisi avrebbe permesso di ridurre i margini di manovra del Pci, minando la credibilità della sua proposta di governo sul terreno fondamentale della politica estera e sottolineandone l’ambivalenza, perennemente in bilico tra le urgenze del benessere collettivo e la sostanziale subalternità alle posizioni sovietiche, nonostante l’iniziale aperturismo di Togliatti, che nei concitati giorni del maggio 1947, nel bel mezzo della crisi di governo, si premurò di chiarire che da parte comunista non si fosse “contrari all’aiuto finanziario da parte degli Stati Uniti d’America”, e che anzi si ritenesse “necessario questo aiuto”.

 

L’adesione al piano, inizialmente aperta a tutti, si scontrò da subito con una reazione sovietica sospettosa, pur se mascherata da settimane di trattative per lo più formali; tuttavia, dalla fine di giugno – constatato l’obiettivo di solidificare una sfera d’influenza filo-americana - i dirigenti dell’Est presero a denunciare gli intenti fondamentalmente imperialisti ed anti-comunisti del piano, condannandosi così ad una posizione politica di sostanziale isolamento.

 

4. Irrigidimenti e tensioni

 

 L’atteggiamento del Pci nei confronti del nuovo governo, comunque, si precisò solo nel corso dell’estate di quell’anno, quando Togliatti e i suoi intuirono che l’illusione di rovesciare rapidamente l’esecutivo era destinata a rimanere tale, e che la possibilità di una collaborazione governativa era definitivamente tramontata.

 

Nel corso dell’estate il costo della vita continuò a salire, parallelamente ad una grave crisi della bilancia dei pagamenti, in seguito alla sospensione della convertibilità della sterlina, decisa appena un mese prima (luglio 1947) con catastrofiche conseguenze.

 

Ne derivò un drastico aumento di proteste ed agitazioni operaie ed agrarie, che acuirono la percezione del pericolo comunista; e ulteriori nubi si addensarono al momento della firma del Trattato di pace, che prescriveva il ritiro delle truppe alleate dal territorio nazionale entro tre mesi (ovvero, entro il 12 dicembre).

 

Si temeva un intervento di Tito, che il 15 settembre rinnovò il proposito di risolvere con la forza il problema di Trieste. E si temeva anche la manifestazione nazionale contro il carovita e la speculazione indetta dal Pci e dal Psi per il 20 dello stesso mese, anniversario della presa di Roma e della fine del potere temporale della Chiesa.

 

Comunque sia, le mozioni di sfiducia presentate singolarmente nella notte tra il 4 ed il 5 ottobre da Nenni, Saragat e dai repubblicani, nonostante l’ambiguo comportamento dei qualunquisti, caddero tutte nel vuoto, rafforzando ulteriormente la posizione di De Gasperi (confortato dall’astensione o dall’assenza di molti dei deputati socialdemocratici e repubblicani).

 

Gli americani, in quei giorni, valutarono la possibilità di un golpe comunista nel Nord-Italia, eventualmente sostenuto dai titini: lo stesso ambasciatore Tarchiani aveva prospettato una simile eventualità, nel corso di un colloquio con il sottosegretario di Stato Robert Lovett datato 16 settembre. E solo sei giorni dopo, un memorandum del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato dal titolo inequivocabile (“Possibile azione degli Stati Uniti per aiutare il governo italiano nel caso di una presa di controllo dell’Italia del Nord da parte dei comunisti e dell’insediamento in quest’area di un «governo» comunista italiano”) aveva ribadito il clima di tensione che gravava sul Paese.

 

Per questo il 13 dicembre, il giorno prima che le truppe alleate terminassero il ritiro (contro il volere di De Gasperi ed i desiderata di diversi esponenti vaticani), il presidente Truman pubblicò l’ammonimento americano: “Sebbene gli Stati Uniti stiano ritirando le loro truppe dall’Italia, in adempimento agli obblighi assunti con il trattato di pace, il nostro Paese continua a essere interessato al mantenimento di un’Italia libera e indipendente. Se lo sviluppo degli avvenimenti dovesse dimostrare che la libertà e l’indipendenza dell’Italia, su cui sono basati gli accordi di pace, sono minacciate direttamente o indirettamente, gli Stati Uniti, in quanto firmatari del trattato di pace e in quanto membri delle Nazioni Unite, saranno quindi obbligati a chiedersi quali misure possano essere più idonee al mantenimento della pace e della sicurezza”.

 

Il documento comprendeva la riaffermazione dell’appartenenza italiana al blocco occidentale (esemplificata dalla parola “interesse”), l’enunciazione dei presupposti legali per un eventuale ritorno americano sul territorio nazionale (l’alterazione dei presupposti di libertà ed indipendenza sanciti dagli accordi di pace) e la rivendicazione della possibilità di un’azione unilaterale in caso di necessità (senza neanche accennare alla possibilità di una richiesta in tal senso del governo italiano), mettendo in guardia i potenziali avversari dalle tentazioni del colpo di mano.

 

Altre preoccupazioni attanagliavano però i dirigenti comunisti, già abbondantemente frustrati per l’impossibilità di rovesciare il governo in carica, in aula come in piazza.

 

I sovietici cominciarono infatti a “fare ordine” nel settore di competenza, arroccandosi in difesa delle conquiste recenti: anche l’Est cominciava a irrigidirsi. Al neonato Cominform, alla fine di settembre, affidarono il compito di stabilire una più stretta collaborazione tra i partiti comunisti dell’Europa orientale, il Pci ed il Pcf (partito comunista francese), i soli a farne parte; e nell’incontro di Szklarska Poreba, svoltosi dal 22 al 27 settembre nei pressi di Breslavia, due dirigenti del Pci (Longo ed Eugenio Reale) constatarono il repentino cambiamento di opinioni dei sovietici (rappresentati da Zdanov e Malenkov), che alla semplice comunistizzazione dei Paesi dell’Europa orientale intendevano sostituire un’integrale sovietizzazione, eliminando la possibilità di quelle “vie nazionali al socialismo” che Tito (come Gomulka, come Ackerman) rappresentava, sull’altare di una divisione rigidamente dicotomica del continente.

 

I sovietici affidarono ai compagni jugoslavi, in primis Kardelj, l’onere di sferrare l’attacco contro gli omologhi italo/francesi: per “rancore anti-italiano” ed “ortodossia ideologica”, erano i più indicati. Ai dirigenti occidentali (specialmente a Togliatti, l’uomo della ‘svolta di Salerno’ e dell’alleanza con i cattolici) fu rinfacciata brutalmente la condotta fin’allora tenuta, ritenuta troppo carica d’illusioni parlamentari per il “nuovo corso” decretato dall’URSS; fu imposta la divisione in due campi ideologicamente contrapposti e la necessità di vincolare la loro azione alla politica estera sovietica, ingiunta la ripresa di uno scontro frontale, sul piano internazionale come su quello interno, contro la borghesia e gli Stati che la rappresentavano senza però arrivare ad un’insurrezione armata, condannata da Togliatti (sostenitore dell’opzione legalitaria) come dai sovietici; ed anche una parallela, aprioristica difesa delle esperienze maturate in Europa orientale che li avrebbe fatalmente esposti alle critiche degli avversari.

 

Il Pci si piegò. Come avrebbe in seguito riconosciuto lo stesso Berlinguer: “C’è da chiedersi se la nostra risposta sui Paesi dell’Europa orientale non abbia peccato di ambiguità, non abbia obbedito troppo all’esigenza – che pure si imponeva – di respingere gli attacchi concentrici delle forze conservatrici; […] e troppo poco abbia invece obbedito all’esigenza di rispondere agli interrogativi, alle preoccupazioni, ai timori sinceri di tanti democratici, affermando – non solo con la nostra condotta, come in sostanza avvenne, ma anche nell’esplicita elaborazione teorica – che noi restavamo persuasi della necessaria diversità delle vie al socialismo, e che avremmo ricercato e continuato a seguire vie originali e diverse rispetto all’esperienza dei Paesi dell’Europa orientale”.

 

Ciò non avvenne: e un’intransigenza indifferenziata e miope, senza possibilità di mediazione e senza velleità governative - come richiesto da una parte della base comunista delusa dal “legalitarismo” togliattiano - fu da allora imposta allo stesso, reticente segretario, costretto ad abbandonare la strategia prudente degli ultimi anni, e ad abbracciare senza riserve la politica dell’Urss.

 

La svolta imposta dai vertici sovietici indebolì sensibilmente le posizioni del Pci sullo scenario nazionale e si ripercosse sullo stesso linguaggio politico dei comunisti. Da una posizione di moderata conciliazione con i socialdemocratici del Psli si passò alle accuse di “tradimento”, da un sostanziale quietismo sui problemi economici si balzò a slogan d’altri tempi - esemplificati dal comunicato del 25 ottobre, dal significativo titolo “Resistere all’offensiva padronale! Contrattaccare!” -, dal sostanziale disinteresse per i Consigli di gestione si puntò ad un loro recupero sul piano della lotta politica.

 

L’irrigidimento sovietico trascinò seco il Pci di Togliatti anche sul fondamentale terreno del Piano Marshall, che il leader comunista – come si è visto – aveva timidamente avallato in maggio; e la nuova fase politica decretata dall’ukase sovietico fu in effetti inaugurata proprio dalla rapida retromarcia di Togliatti su questo tema, nel corso del VI congresso del partito, aperto il 4 gennaio 1948 a Milano: “L’adesione incondizionata al ‘Piano Marshall’ e l’inizio di trasformazioni economiche nel nostro Paese in appendice ad una grande potenza imperialistica, costituiscono quindi una minaccia per lo sviluppo autonomo della nostra industria, della nostra economia e dei nostri scambi internazionali”.

 

Negli stessi giorni, in Italia, le difficoltà economiche eccitarono ulteriormente gli animi: in Lombardia, colpita maggiormente dalla crisi in atto, la temperatura politica salì in fretta; tra gli altri gruppi emerse la ‘Volante rossa’, che avrebbe in seguito fatto scuola. Così Nenni descrisse la situazione: “12 novembre. Una ventata di terrorismo si è abbattuta sull’Alta Italia e particolarmente su Milano. Si è cominciato con le bombe alle sedi comuniste cui sono seguite misure di rappresaglia che a loro volta hanno provocato altri attentati. Un cerchio infernale. Ieri a Mediglia un agrario ha sparato su degli operai uccidendone uno ed è stato linciato. Stamattina una bomba è stata lanciata contro una sede comunista a Milano. Ne è seguito uno sciopero generale con devastazioni di giornali e di sedi del Msi, dei qualunquisti ecc.. 13 novembre. L’ondata di violenza dilaga. A Napoli oggi ci sono stati grossi incidenti. Così a Livorno, nel Salernitano, a Palermo ecc. Sedi di organizzazioni di destra e giornali sono prese d’assalto. Il ministro Scelba ha risposto oggi a ben undici interrogazioni […]14 novembre. Nel Paese la situazione è sempre molto tesa e si temono gravi incidenti a Cremona. Insomma l’atmosfera del ’21, con la differenza che siamo più forti d’allora”.

 

Di lì a breve la tensione accumulata si sfogò nella presa della prefettura di Milano da parte del parapartito armato (gestito e organizzato da Pietro Secchia, numero tre del Pci) in risposta alla sostituzione del prefetto – gradito alle sinistre - Troilo, il 28 novembre: “Si trattava”, secondo Giancarlo Pajetta, responsabile per la Lombardia, “di mostrare che avevamo una forza notevole ed eravamo pronti ad usarla, in modo da impedire che certa gente si illudesse di poterci liquidare facilmente”.

 

La situazione si risolse poi in un’intesa, caldeggiata sia da De Gasperi che da Togliatti (il quale gelò l’eccitato Pajetta con una celebre boutade: “Adesso che l’avete presa, cosa ve ne fate?”); ma la lotta sociale in strade e piazze proseguì con rinnovata energia, mobilitando i contadini del Meridione come gli operai dei centri industriali, e finanche categorie meno inclini all’azionismo politico (tra cui gli impiegati di banca, la cui vertenza si concluse a metà gennaio, dopo 14 giorni di trattative): il bollettino delle agitazioni politico-sindacali e degli scontri che ne conseguivano, composto da tasselli di conflittualità locale, rende l’idea della situazione del Paese: il 15 gennaio, a Roma, la polizia caricò una manifestazione di invalidi; una settimana dopo, a Firenze, i manifestanti stessi reagirono alla forza pubblica ed assaltarono la prefettura. Episodi come questi, presi a dimostrazione dell’irrigidimento della repressione governativa da parte delle sinistre, contribuirono peraltro a mettere sotto accusa l’opera del ministro dell’Interno Scelba proprio mentre il governo metteva mano ad un decreto legge che inaspriva le pene per chi attuasse blocchi stradali e ferroviari, soprattutto se con “l’uso della violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose”.

 

Al contempo, il parapartito armato – deluso per l’esito della presa della Prefettura – cominciò a mostrare segni d’impazienza; il racconto di un partecipante alla manifestazione conclusiva del I congresso nazionale della Resistenza, a Roma, lo dimostra: “Partimmo da Genova dove alla stazione ferroviaria funzionava perfettamente la sussistenza. A tutti fu distribuita per la notte una razione K, razioni d’emergenza delle truppe americane…Nel mezzo della Maremma ci fu una sosta obbligatoria, penso sia stata dovuta al confluire di diversi convogli... Dopo pochi minuti corse la voce sabotaggio. Esasperazione. Inutilmente nel buio staffette passavano di carro in carro spiegando le ragioni della sosta. Dal carro degli spezzini partì un colpo di bazooka. Per pochi secondi, ma intensissima, seguì una sparatoria infernale. Raffiche di sten, colpi di pistola e scoppi di bombe a mano…Roma era deserta, eccetto le ali di folla plaudente tutto era deserto. Non si vedeva né polizia né soldati, tutti erano pronti, ma nelle caserme…Ricordo la delusione di tutti quelli che mi circondavano quando, nel discorso ufficiale, Longo raccomandò la calma…Le intenzioni di tutti al basso erano ben diverse. Da parte di tutti c’era il proposito di spaccare il mondo e a un certo punto la sensazione che si stava per concludere qualcosa di grosso. Ma poi la tensione cadde in un sciogliete le righe…Le armi erano rimaste sotto il giubbotto, anche se non c’era timore alcuno e ogni tanto si poteva vedere con facilità spuntare di sotto l’abito qualche manico di rivoltella”.

 

Le armi della Resistenza, infatti, erano in parte ancora disponibili, e contribuivano ad accrescere lo stato d’inquietudine che regnava nel Paese.

 

“La situazione alla fine del 1947 è contrassegnata, dunque, da un lato, dalla moderazione del gruppo dirigente comunista che tuttavia non riesce a contenere del tutto le rivendicazioni economiche e politiche della base operaia, e, dall’altro, dai timori della destra interna e internazionale e dall’insistenza della stampa filogovernativa sul carattere ‘preinsurrezionale’ degli scioperi e delle agitazioni delle ultime settimane”.

Le conseguenze del clima di scontro frontale che si andava diffondendo nel Paese emersero quindi fragorosamente all’alba del nuovo anno; l’anno delle decisive elezioni politiche, che all’inizio dell’estate dell’anno precedente si era stabilito si svolgessero nei primi mesi del 1948, e che il governo – a febbraio – fissò definitivamente per il 18 aprile.

 

5. La nascita del Fronte

 

Le direttive di Zdanov e del gruppo dirigente sovietico trovarono un inatteso alleato nel Psi di Nenni, ripresosi dalla scissione, reduce da un ottimo risultato alle elezioni sindacali e rafforzato dall’afflusso di molti ex-azionisti: “Forse perché nella mia mente si era fissata con tanta forza l’esperienza del Fronte popolare francese”, chiarì poi lo stesso Nenni, “io ero convinto che anche in Italia uno schieramento compatto delle sinistre ci avrebbe portato al successo” . Di sicuro, nella scelta di presentarsi uniti ai comunisti contarono anche considerazioni di ben altra natura: era forte il timore, presentandosi da soli, di “scoprirsi” indeboliti rispetto alle consultazioni del 2 giugno 1946; era forte il richiamo della base all’unione con i “fratelli” del Pci; ed era altrettanto forte la velleità di rivincita sugli “scissionisti” del Psli, che l’8 gennaio aveva dichiarato la propria indisponibilità ad allearsi con movimenti non socialisti.

 

Ragioni troppo solide da scalfire anche per Pertini, che invano tentò di opporsi all’operazione conclusasi nella notte del 23 gennaio 1948, in occasione del congresso del partito, quando la mozione per la lista unica raccolse 525.000 voti, mentre Pertini – sostenitore di liste separate – ne ottenne solo 257.000.

 

Per quanto riguarda Togliatti, la sensazione che emerge è quella di un leader perlomeno perplesso di fronte all’operazione, che rinnegava in effetti l’intera politica seguita dalla svolta di Salerno in poi, e correva a tutta velocità verso uno scontro frontale con il “blocco” avversario; ma il Psi, per una volta compatto nelle sue correnti principali, si era mosso in quella direzione, e non poteva essere deluso. Una frase su tutte basta a rappresentare la situazione: come ebbe a dire Togliatti, “E che ci posso fare io, se Nenni e Basso vogliono il fronte elettorale a tutti i costi?”.

 

Al contempo, non va dimenticato che anche Togliatti aveva i suoi buoni motivi per non rifiutarsi: primo fra tutti, quello di accontentare i desiderata sovietici, ed insieme di una parte del partito.

 

Domenica 1° febbraio 1948 nella sala del Planetario a Roma si aprì l’Assemblea Generale del Fronte Democratico-Popolare; parteciparono, oltre al Pci ed al Psi, una pioggia di partiti, sigle e associazioni: dal Partito democratico del lavoro al Partito sardo d’azione, dal Partito cristiano sociale al Comitato dei consigli di gestione, dal Comitato democratico per il Mezzogiorno a quello per la Costituente della terra alla Lega dei comuni democratici.

 

In quella sede si definirono anche natura ed obiettivi dell’alleanza: “Il Fronte popolare non è un partito, né una somma di partiti. I movimenti, i gruppi, i partiti, le personalità indipendenti che se ne fanno promotori conservano i loro ideali, la loro piena autonomia politica e organizzativa. Il Fronte democratico popolare è un’alleanza, un impegno comune, per una lotta comune, perché siano tradotti nella realtà sociale, nazionale e internazionale i principi affermati nella Costituzione della Repubblica. È un’alleanza per il raggiungimento di un obiettivo comune, di un assetto civile, che è la condizione di ogni libera competizione” .

 

6. La Dc e la collaborazione di governo

 

Già nel corso dei dibattiti parlamentari di settembre-ottobre emerse con chiarezza la possibilità di una collaborazione democristiana con repubblicani e socialdemocratici, ampiamente caldeggiata dagli americani già a partire dalla formazione del De Gasperi IV - agli inizi di giugno.

 

La Dc, constatata la disponibilità degli interlocutori, si aprì dunque ad un allargamento della maggioranza.

 

Fu piuttosto facile accordarsi con i repubblicani: Pacciardi, dopo aver insistito per ottenere, oltre ad una vicepresidenza del Consiglio, anche il Ministero dell’Interno, si accontentò di un Comitato per la difesa dell’ordine pubblico.

 

Più complessa si rivelò l’intesa per l’ingresso nel governo del Psli di Saragat, che dovette prima superare l’ostilità dell’ala sinistra del suo partito dimostrando l’impossibilità di arrivare ad una lista unica dei socialisti senza il Pci e poi convincere lo stesso De Gasperi a rinunciare all’alleanza con i qualunquisti, prima di incassare l’approvazione del gruppo parlamentare (con 26 voti favorevoli e 6 tra contrari ed astenuti).

 

In questo modo completò il passaggio dalla collaborazione governativa con le sinistre ad un gabinetto di centro (formato, oltre alla Dc, da Psli, Pri e Pli).

 

Completato il riassetto governativo, toccò a De Gasperi richiamare i suoi allo scontro elettorale nel discorso tenuto in occasione del I Convegno nazionale delle consigliere democristiane, a Roma, il 2 febbraio:

 

“Attenzione. Il ‘cosiddetto’ Fronte fa uso dei gas. La cortina dei gas fumogeni è costituita da quei pochi borghesi di stile moderato che vengono cacciati avanti per nascondere le truppe d’urto che seguono, agli ordini del ‘maresciallo Longo’, truppe di choc, che si battono per la dittatura balcanica […] Ma c’è anche il gas che assopisce ed avvelena. È il gas della paura. Bisogna reagire al panico e al terrore! Bisogna avere consapevolezza che la lotta è aspra e decisiva . […] La nostra parola d’ordine è: ‘avere coraggio e infondere coraggio’. Agire secondo coscienza. Costi quel che costi”.

 

7. Le elezioni romane.

 

Il primo obiettivo della Dc, che a metà di febbraio lanciò una sottoscrizione nazionale dalle colonne de “Il Popolo” per finanziare la campagna elettorale ricordando ancora che “nessuno sforzo, nessun sacrificio deve perciò sembrare troppo grave per vincere questa battaglia” , era quello di imporsi come il collante ed il pilastro di tutte le forze anti-comuniste del Paese.

 

L’operazione fu facilitata dai buoni risultati ottenuti alle elezioni romane del 12 ottobre 1947, che testimoniarono la ripresa dei democristiani dopo i deludenti risultati elettorali dei mesi precedenti.

 

Rispetto alle consultazioni romane del novembre 1946 la Dc raddoppiò i sostegni, passando da 104.000 a 204.000 voti a spese di qualunquisti (crollati da 106.000 a 62.000 voti), monarchici e liberali. Oltre ai neofascisti del Msi, profilatisi all’estrema destra e capaci di raccogliere 3 seggi, si registrò inoltre una moderata regressione del Blocco del Popolo social/comunista, i cui voti erano cresciuti proporzionalmente meno del numero dei votanti, provocando la perdita di 3 seggi.

 

Sull’onda del successo, la Dc si mosse: a dicembre il ministro dell’Industria Togni intervenne all’assemblea di Confindustria, avvicinando quel mondo imprenditoriale e finanziario che sarebbe stato imprescindibile per un’affermazione elettorale.

 

La piccola e media borghesia, il “referente naturale” della Dc, si avvicinò per così dire spontaneamente, man mano che l’azione parallela della discesa dei prezzi e dei meccanismi di difesa del salario (scala mobile ed intese sindacali) garantì, per la prima volta dall’anteguerra, il sorpasso dello stesso sul costo della vita ; e per invogliarla ulteriormente il governo in carica (nelle figure del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Andreotti e del Ministro della Giustizia Grassi) mise mano ad una legge per reintegrare nei ranghi le migliaia di funzionari e burocrati epurati per motivi politici negli anni precedenti, completando il processo avviato due anni prima con l’amnistia decretata dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia: Palmiro Togliatti.

 

Ne derivò una rivincita degli sconfitti, una riabilitazione complessiva che – nella pratica – mise fine al “processo al fascismo” e spostò le luci sul campo avverso, validamente sostenuta da alcune esemplari sentenze delle Corti di giustizia ai danni dei partigiani. Achille Battaglia, a questo proposito, parlò di “indebolimento politico dell’antifascismo” , consequenziale alla fine dell’alleanza tra democristiani, socialisti e comunisti.

 

Mentre cominciavano a muoversi sul piano della battaglia politica, il 12 dicembre i partiti anti - fascisti approvarono il loro ultimo atto concorde, la Carta Costituzionale, il canto del cigno e insieme l’epitaffio d’un incontro.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere Dc, Ed. Club Editori, Milano, 1981.

P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, 1977.

I. Montanelli, Istantanee, Rizzoli, Milano, 2006.

R. Albrecht-Carriè, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Bari, 1978.

N. Tranfaglia, Il 1948 in Italia. La storia e i film, La Nuova Italia, Firenze, 1991.

A. Riccardi, Le politiche della Chiesa, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1997.

I. Montanelli/M. Cervi, L’Italia della Repubblica, Rcs libri, Milano 2000.


 

 

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