N. 65 - Maggio 2013
(XCVI)
L’ISTITUTO PARLAMENTARE
Evoluzione storica e problemi critici
di Eleonora Stefanelli
Come
per
altri
oggetti
o
momenti
di
storia,
anche
con
riferimento
alla
nascita
dei
parlamenti
non
sono
mancati
ampi
dibattiti
che
hanno
per
protagonisti
studiosi
di
fama
internazionale.
Grazie
a
essi
la
ricerca
ha
tentato
di
trovare
nel
passato
una
conferma
del
presente.
Tra
questi
spicca
la
figura
e il
pensiero
di
Montesquieu,
laddove
egli
sosteneva
che
la
nascita
delle
prime
istituzioni
parlamentari
fosse
da
collocare
ai
tempi
delle
invasioni
barbariche
dell’Europa
occidentale
o
addirittura
anni
addietro.
Tuttavia,
è
proprio
nel
corso
del
XIX
secolo,
grazie
allo
sviluppo
e
alla
diffusione
dell’istituto
parlamentare
in
molte
parti
del
mondo,
che
i
più
tentarono
di
dimostrare
che
il
proprio
Paese
era
stato
il
primo
a
creare
l’istituto.
Andò
sviluppandosi,
già
a
partire
dal
XII
secolo,
l’idea
di
un’
Inghilterra
“madre
dei
Parlamenti”.
Tra
i
sostenitori
di
tale
idea,
vi
era
William
Stubbs,
storico
inglese
e
vescovo
di
Oxford.
In
particolare,
egli
espresse
la
convinzione
che
già
i
parlamenti
riuniti
sei
mesi
prima
del
re
Edoardo
I
dessero
la
prova
dell’effettiva
esistenza
di
un’Assemblea
nazionale,
investita
di
specifiche
funzioni,
come
il
potere
di
imporre
tributi,
legiferare
e
deliberare
sulla
politica
generale”.
Il
quadro
da
lui
tracciato
con
riguardo
alle
origini
e
all’evoluzione
storica
nonché
costituzionale
del
sistema
inglese
sembrò
agli
occhi
di
molti
degno
di
apprezzamento.
Difatti,
la
sua
convinzione,
secondo
la
quale
il
popolo
inglese
aveva
avuto
la
missione
di
instaurare
nel
mondo
il
regime
parlamentare,
trovava
pieno
riscontro
sotto
due
aspetti
sostanziali:
1)
Edoardo
I fu
tra
i
primi
a
trasformare
il
motto
“Quod
omnes
tangit,
ab
omnibus
approbari
debet”(ciò
che
interessa
tutti
deve
essere
approvato
da
tutti)
in
un
principio
cardine
del
diritto
costituzionale;
2)
il
Parlamento
inglese
che
egli
convocò
nel
1275
rappresentò
un
“parlamento
modello”.
Le
lontane
origini
del
vocabolo
risalgono
alla
società
feudale,
caratterizzata
da
una
molteplicità
di
centri
di
potere
che,
fondandosi
sui
diritto
e i
doveri
reciproci
derivanti
dal
contratto
feudale,
si
contrapponevano
alle
pretese
di
dominazione
del
sovrano.
Invero,
nacque
nei
Paesi
occidentali
ed
era
noto
con
la
definizione
generale
di
parlamentum
o
parliamentium,
nome
con
cui
nell’Alto
medioevo
si
designavano
le
assemblee
dei
cittadini
riuniti
per
discutere
questioni
di
interesse
pubblico.
Lo
si
ritrova
altresì
in
molti
documenti
pontifici,
si
pensi,
a
tal
proposito
agli
“Acta
pontifucum
romanorum
inedita”
ove
Papa
Urbano
II
richiamava
gli
abitanti
di
Velletri
all’obbligo
di
exhibere
parlamentum,
ovvero
all’obbligo
di
presentare
alla
rassegna
il
loro
contingente
militare.
Non
mancò
chi
tendeva
a
utilizzare
termini
alternativi
e
sostitutivi
della
parola
parlamento;
si
pensi
alla
figura
di
Giovanni
Balbi,
noto
con
il
nome
di
Giovanni
da
Genova,
grammatico
e
teologo
italiano,
che
nella
sua
opera
maggiore
intitolata
“Catholicon
seu
Summa
prosodiae”(indicato
altresì
come
Summa
quae
vocatur
Catholicon)
utilizzava
il
sinonimo
colloquium
o
consilium
per
indicare
le
grandi
assemblee
o
riunioni
regie.
Per
quanto
riguarda
l’ambiente
comunale,
invece,
quest’ultimo
era
solito
impiegare
il
termine
colloquio,
mentre
nei
regni
occidentali,
i
consigli
riuniti
dai
sovrani
assumevano
per
lo
più,
e
soprattutto
in
Spagna,
il
nome
di
curia
oppure
di
cortes.
Quanto
al
regno
italiano,
in
particolare
di
Sicilia,
i
termini
maggiormente
utilizzati
per
indicare
le
sue
grandi
assemblee
erano
i
seguenti:
curia
generale
o
solenne,
colloquium
solemne,
constitorium
solemne
in
regia
curia
celebratum.
Pertanto,
colloquio,
consiglio,
curia,
parlamento
erano
nozioni
che
finivano
con
l’indicare
le
riunioni
solenni
delle
corti
o
più
semplicemente
i
Consigli
regi
ai
quali
prendevano
parte
anche
i
signori
feudali,
i
dignitari,
gli
ecclesiastici
e i
laici.
Erano,
in
sostanza,
luoghi
di
incontro
finalizzati
a
uno
scambio
di
idee
e
opinioni
e a
dare
solennità
e
pubblicità
alle
decisioni.
Tali
convocazioni,
inizialmente
limitate
alla
grande
nobiltà
e
all’alto
clero,
furono
successivamente
estese
alla
nobiltà
minore
e
alla
comunità
degli
uomini
liberi.
In
ogni
caso,
particolarmente
interessante
è il
significato
che
assunse
l’istituzione
parlamentare
all’interno
del
sistema
giuridico
inglese,
dal
momento
che
in
Gran
Bretagna
all’espressione
“parlamento”
fu
attribuito
un
ampio
senso,
giacchè
con
essa
si
designava
tutto
il
complesso
degli
organi
che
partecipavano
alla
funzione
legislativa,
comprendendovi,
quindi,
anche
il
sovrano.
Non
a
caso
fu
proprio
in
Inghilterra
che
le
assemblee,
attraverso
le
lotte
secolari
generate
per
lo
più
dalla
differenza
di
formazione
e la
divergenza
di
interessi
tra
nobili
e
invitati,
riuscirono
ad
affermare
sempre
più
saldamente
la
propria
funzione.
Ciò
portò,
nel
tempo,
all’uso
di
riunioni
separate
fino
ad
arrivare,
intorno
al
1341,
alla
nascita
di
due
distinti
rami,
meglio
conosciuti
come
Camera
dei
Lords
temporali
e
spirituali
e
Camera
dei
Comuni,
rappresentati
dai
delegati
delle
contee
e
dei
borghi
aventi
anch’essi
potere
deliberante.
Il
punto
delicato
del
passaggio
verso
il
Parlamento
moderno
è
rappresentato
dalla
lotta
che
nel
XVII
secolo
la
borghesia
rappresentata
dalla
Camera
dei
Comuni
portò
avanti
contro
la
pretesa
aristocratica
degli
Stuart;
lotta
che
si
concluse
nel
1689
con
l’emanazione
del
Bill
of
Rights,
documento
approvato
dal
Parlamento
britannico
col
quale
si
stabiliva
che:
il
re
non
poteva
emanare
ordinanze
in
contrasto
con
gli
Statuti
del
Parlamento
né
poteva
dispensare
i
sudditi
dalla
loro
osservanza
e
altresì
richiedeva
una
coerenza
tra
le
spese
del
sovrano
e il
bilancio
approvato
dall’organo
parlamentare.
In
ogni
caso,
al
di
là
di
ogni
possibile
evoluzione,
è da
sottolineare
la
carenza
di
una
continuità
storica
tra
i
parlamenti
medievali
e
quelli
moderni
a
causa
della
presenza
di
profonde
discrepanze
riguardanti
sia
il
versante
delle
competenze
che
il
ruolo
dei
loro
membri.
Più
specificatamente,
le
attribuzioni
spettanti
ai
primi
erano
in
linea
di
massima
limitate
alle
questioni
sottoposte
al
loro
esame
dal
sovrano,
mentre
i
parlamenti
attuali
godono,
salvo
i
limiti
imposti
dalla
Costituzione,
di
funzioni
aventi
carattere
generale;
in
secondo
luogo,
i
rappresentanti
del
Parlamento
medievale,
diversamente
da
quanto
accade
oggi,
erano
delegati
della
comunità,
in
quanto
ricevevano
precise
istruzioni
circa
il
modo
in
cui
pronunciarsi
sugli
argomenti
loro
sottoposti.
Quasi
tutti
i
paesi
del
mondo,
a
prescindere
dalla
forma
di
governo
adottata,
hanno
un
Parlamento
o
forme
di
assemblee
variamente
rappresentative.
A
ciò
va
aggiunto
il
pieno
riconoscimento
sul
versante
giuridico
che
nel
tempo
è
stato
attribuito
al
Parlamento,
quale
organo
collegiale
permanente
basato
sul
bicameralismo.
Circa
la
sua
qualificazione,
è
opportuno
tenere
a
mente
che
trattasi
di
organo
costituzionale
e
non
anche
di
organo
a
rilevanza
costituzionale.
Quest’ultima
distinzione
va
necessariamente
sottolineata
ai
fini
di
una
migliore
nonché
maggiore
comprensione
dell’istituto
in
questione.
Gli
organi
“costituzionali”
costituiscono
parte
integrante
del
tessuto
statale
e in
quanto
tali
prendono
parte
alla
individuazione
degli
obiettivi
che
lo
Stato
è
chiamato
a
realizzare;
diversamente,
gli
organi
aventi
rilevanza
costituzionale
non
risultano
strettamente
regolamentati
dalla
Costituzione,
e
per
tale
ragione
non
godono
del
carattere
dell’indefettibilità,
nel
senso
che
non
contribuiscono
alla
determinazione
della
forma
di
Stato
o di
Governo.
Fatta
questa
premessa,
occorre
in
tale
contesto
accennare,
seppur
brevemente,
al
collegamento
intercorrente
tra
politica,
amministrazione
e
collettività.
A
tal
proposito,
merita
attenzione
l’art.
1
della
Costituzione,
atteso
che
mediante
il
riferimento
a
quest’ultima
norma
è
possibile
evidenziare
uno
se
non
anche
il
maggiore
tra
i
principi
derivanti
dall’esistenza
del
Parlamento:
la
sovranità
popolare.
Difatti,
il
secondo
comma
dell’articolo
1
della
Carta
Costituzionale
dispone
in
tal
modo:
“La
sovranità
appartiene
al
popolo,
che
la
esercita
nelle
forme
e
nei
limiti
della
Costituzione”.
Già
Rousseau
nel
1762
era
solito
fare
ricorso
al
c.d.
“pactum
subiectionis”,
quale
espressione
della
volontà
generale
del
popolo
fondato
sulla
equità
e
sulla
semplice
obbedienza
alla
legge
comune.
Nell’indicare
il
suesposto
principio
non
possiamo
non
soffermarci
sulla
nozione
di
“democrazia”,
che
è
alla
base
del
nostro
e
vigente
sistema
politico-giuridico.
La
moderna
sovranità
popolare,
difatti,
trova
piena
e
concreta
affermazione
nel
contrattualismo
democratico.
Non
a
caso
è
proprio
grazie
al
consolidamento
dello
Stato
contemporaneo
che
si è
assistito
all’eliminazione
di
forme
di
spartizione
del
potere
politico
tra
organi
aventi
diverse
legittimazioni,
come
Re e
popolo,
e a
una
conseguente
affermazione
della
sovranità
collettiva.
Di
più,
adottando
una
soluzione
maggiormente
estensiva,
il
carattere
democratico
dello
Stato
ha
contribuito
alla
realizzazione
di
una
svolta
fondamentale
con
riguardo
al
rapporto
tra
cittadini
e
pubblici
poteri.
Svolta
rappresentata
dal
consolidamento
del
criterio
della
trasparenza,
in
modo
che
sia
possibile
per
i
cittadini
verificare
la
conformità
dell’operato
pubblico
agli
interessi
sociali
e ai
precetti
costituzionali
e
sottoporre,
se
del
caso,
a
discussione
e
critica
le
smagliature
in
cui
gli
organi
pubblici
possano
essere
incorsi.
L’obiettivo
del
c.d.
“populi
imperium”
è di
garantire
il
consenso
maggioritario
e,
dunque,
un
più
stretto
collegamento
tra
politica,
amministrazione
e
cittadini.
Ma è
bene
non
fare
né
tantomeno
creare
confusione.
Il
concetto
stesso
di
sovranità
popolare,
ricavabile
dalla
nostra
Costituzione,
non
va
inteso
come
l’attribuzione
al
popolo
del
pieno
e
concreto
esercizio
delle
funzioni
sovrane,
bensì
nel
senso
che
lo
Stato
è
strutturato
in
modo
tale
che
i
suoi
organi
siano
determinati
sulla
base
delle
opinioni
e
degli
interessi
prevalenti
all’interno
della
comunità,
più
semplicemente
secondo
quella
che
viene
comunemente
definita
“Volontà
del
popolo”.
Pertanto,
in
via
conclusiva,
scopo
del
legislatore
è di
assicurare
la
dialettica
politica,
affinché
i
cittadini
possano
concorrere
con
metodo
liberale
e in
posizione
di
parità
assoluta
a
determinare
la
politica
nazionale.
Scopo
che
trova
piena
realizzazione
nell’attuale
contesto,
laddove
la
democrazia
sostanziale
ha
permesso
la
costruzione
di
un
assetto
economico-sociale
ove
tutti
godono
di
una
possibilità
indiscutibile:
lo
sviluppo
della
propria
personalità
e la
partecipazione
alla
vita
collettiva.