N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
FANTASMI INDONESIANI
RICORDI DI UN MASSACRO
di Gianrigo Marletta
C’è
voluto
un
regista
americano,
Joshua
Oppenheimer,
per
riaprire
uno
dei
capitoli
più
sanguinosi
della
storia
Indonesiana.
Un
invito
nominale
convocava
i
corrispondenti
esteri
residenti
a
Jakarta,
al
solito
bar,
dove
giornalisti
ed
espatriati
del
settore
si
radunano
per
bere
e
discutere
con
quotidiana
frequenza.
Un
locale
elegante,
in
legno,
dalle
luci
soffuse
che
per
arrivarci
basta
semplicemente
attraversare
la
strada
dal
palazzo
di
venti
piani
che
racchiude
gli
uffici
di
tutti
i
media
internazionali.
Per
l’occasione
la
sala
di
sopra
era
stata
allestita
a
cinema.
Varcata
la
porta
del
bar,
scavando
tra
il
fumo
delle
sigarette
salivamo
le
scale
di
legno,
eleganti
ma
scricchiolanti,
e ci
accomodavamo
sulle
sedie
disposte
davanti
a
uno
schermo
a
molla.
L’occasione
era
la
proiezione
clandestina
di
un
documentario
appena
uscito
e
che
sta
facendo
il
giro
dei
film
festival
internazionali.
In
Indonesia
non
è
stato
ancora
sottoposto
alla
‘Commissione
della
Censura’,
e
anche
quando
lo
sarà,
tutti
sanno
che
verrà
subito
messo
al
bando.
Oppenheimer,
che
per
paura
ha
ammesso
di
non
avere
alcuna
intenzione
di
rimettere
piede
in
Indonesia,
ha
fatto
arrivare
il
film
a
Jakarta
tramite
un’amica
in
comune,
la
corrispondente
di
Al
Jazeera.
Quella
sera
eravamo
stati
invitati
segretamente
alla
proiezione
del
documentario
organizzata
proprio
da
lei.
E
dunque,
c’è
voluto
un
regista
americano,
Joshua
Oppenheimer,
per
riaprire
uno
dei
capitoli
più
sanguinosi
della
storia
Indonesiana.
I
fatti
vennero
da
subito
messi
a
tacere.
Meno
il
mondo
esterno
sapeva,
meglio
era.
L’operazione
durò
meno
di
un
anno
e si
rivelò
efficace.
La
nazione
intera
fu
invasa
da
orgoglio,
le
scuole
nei
decenni
a
seguire
inculcavano
ai
bambini
lodi
sui
nazionalisti
e
sulle
loro
eroiche
esecuzioni.
Gli
esecutori
divennero
eroi
nazionali,
e
tutt’ora
siedono
in
alto
-
rivestendo
cariche
politiche
molto
importanti.
Le
ferite
sono
lontane
dall’essere
cicatrizzate
e la
linea
di
condotta
del
governo
di
silenziare
da
verità,
quest’anno
è
stata
spezzata
da
Oppenheimer,
il filmmaker americano
che
gli
ultimi
sette
anni
li
ha
passati
a
scavare,
a
intervistare
e a
registrare,
presentando
oggi
un
bellissimo
documentario
lungo
due
ore
e
mezzo.
The Act
of
Killing,
il
filmato
che,
senza
ombra
di
dubbio,
scuoterà
le
comode
poltrone
del
governo,
dove
da
mezzo
secolo
siedono
criminali
e
assassini,
ha
splendidamente
riportato
alla
luce
quello
che
fu
il
massacro
dei
membri
del
PKI
(Partito
Comunista
Indonesiano),
dei
comunisti
e
dei
"comunisti",
che
tra
il
1965
e il
1966
portò
alla
morte
tra
uno
e
tre
milioni
di
persone.
“C’è
confusione
sul
numero
esatto
delle
vittime”
scrive
la
rivista
indonesiana Tempo.
La
versione
ufficializzata
nell’era
di
Suharto,
ossia
il
dittatore
(imposto
dalla
CIA,
ma
questa
è
un’altra
storia)
che
ordinò
il
massacro
e
che
governò
il
paese
per
più
di
trent’anni,
asserì
che
furono
uccise
78,000
persone.
Un
numero
assai
più
piccolo
rispetto
ai
rapporti
del Comando
per
la
Restaurazione
di
Ordine
e
Sicurezza che
arrotondò
la
figura
a un
milione,
e a
quelli
dell’esercito
che
oggi
stima
tre
milioni
e
degli
“attivisti
liberali”
che
affermano
un
totale
di
due
milioni.
Un’orgia
sanguinaria
che
partì
nell’Ottobre
del
1965
dallo
spunto
dell’esercito,
ma
che
poi
fu
eseguita
quasi
interamente
dalla
popolazione
stessa.
L’epicentro
fu
l’isola
di
Java
ma
in
poche
settimane
il
massacro
si
sparse
a
macchia
d’olio
per
tutto
l’arcipelago,
passando
per
Bali,
Sumatra
fino
al
Kalimantan
(nel
Borneo).
Occasione
perfetta
per
regolare
conti
e
vendette.
L’odio
non
era
difficile
da
coltivare
in
un
paese
suddiviso
per
gruppi
etnici
e
religiosi,
dove
la
gran
parte
della
popolazione
da
anni
si
divideva
in
fazioni
opposte:
nazionalisti
islamici
contro
comunisti.
Menti
semplici,
con
motivazioni
semplici,
che
danno
spiegazioni
altrettanto
semplici.
Anwar
Congo
–
protagonista
del
documentario
-
era
un
piccolo
criminale
di
strada
che
passava
le
serate
a
fare
il
bagarino
davanti
al
cinema
di
Medan,
capoluogo
della
Sumatra
settentrionale.
Oggi
quest’uomo
dalla
personalità
docile,
quasi
simpatica,
ammette
apertamente
di
aver
tagliato
la
gola
a
centinaia
di
membri
del
PKI.
Racconta
con
fierezza
d’aver
sviluppato
una
tecnica
speciale,
imparata
dai
film
gangster
americani,
per
strangolare
le
vittime
senza
far
cadere
una
goccia
di
sangue
a
terra,
aggiungendo
che
la
sua
firma
durante
le
esecuzioni
era
sempre
la
stessa:
un
balletto
di
cha-cha.
L’odio
di
Anwar
Congo
contro
i
comunisti
nacque
quando
il
PKI
aveva
proposto
il
divieto
sulla
proiezione
di
film
Americani
in
Indonesia.
Un
voce
tra
le
tante,
quella
di
un
cittadino.
Ketut
Mantram
oggi
settantaduenne,
racconta
a un
giornale
locale
i
tre
mesi
di
vita
che
per
lui
iniziarono
alla
fine
del
‘65
a
Bali.
“Ogni
giorno,
per
tre
mesi,
dovevamo
rimanere
alla
nostra
postazione
e
attendere
ordini
dal
Comando
Militare
Regionale.
Ci
avevano
dato
delle
spade
e
indossavamo
camicie
e
pantaloni
neri
e
berretti
rossi.
Mentre
aspettavamo
gli
ordini
ci
istruivano
sulle
tecniche
di
reazione
in
caso
ci
fosse
stata
resistenza
da
parte
di
coloro
che
dovevamo
prelevare.
Ma
per
fortuna
non
ci
fu
mai
resistenza.
Non
ci
interessava
se
era
notte
o
giorno,
se
faceva
caldo
o
freddo,
noi
restavamo
là e
attendevamo
gli
ordini.
La
nostra
postazione
era
anche
il
luogo
dove
eseguivamo
gran
parte
delle
esecuzioni.
Mi
ricordo
la
prima
volta,
ricevemmo
un
deposito
di
90
membri
del
PKI.
Gran
parte
di
loro
veniva
dal
villaggio
di
Tegal
Badeng.
Quella
notte
li
sterminammo
tutti,
tagliando
loro
la
gola
o
infilzandoli
nel
petto
con
le
spade.
Io
non
avevo
mai
ucciso
nessuno
prima
di
allora
ma,
siccome
era
un
ordine,
dovetti
farlo.
Soprattutto
perché
era
un
dovere
verso
il
mio
Paese.
Poi
caricavamo
i
corpi
su
dei
camion
e li
sotterravamo
nelle
buche
che
erano
state
scavate
sulla
spiaggia
di
Baluk
Rening.
Ogni
buca
conteneva
fino
a
venti
corpi.
Alle
volte
li
portavamo
lì
vivi.
Una
volta
arrivati
ordinavamo
loro
di
voltarsi
verso
il
mare,
da
dietro
li
sgozzavamo
e
poi
li
sotterravamo.
Era
più
facile
scavare
buche
nella
sabbia
della
spiaggia.
Anche
se
il
Quartier
Generale
ci
aveva
ordinato
di
sopprimere
i
membri
del
PKI
fino
alle
radici,
i
miei
amici
ed
io
eravamo
selettivi.
Eliminavamo
soltanto
quelli
che
erano
davvero
coinvolti.
Dopo
tre
mesi
arrivò
l’ordine
di
cessare
tutte
le
attività.
E ci
dissero
di
tornare
a
casa.
Lavorammo
molto
duramente
in
quel
periodo.
Non
ci
fu
paga,
nessuno
ci
ringraziò.
Tutto
a un
tratto
era
finito
e a
noi
ordinarono
di
tornare
a
casa”.
Le
testimonianze
ripetono
a
non
finire
la
frase
“c’era
sangue
ovunque”.
L’obiettivo
della
telecamera
di
Oppenheimer
riprese
tutta
la
storia
da
un
unico
punto
di
vista,
quello
dei
carnefici.
I
protagonisti,
oggi
vecchietti
col
compito
di
scavare
nella
memoria,
furono
ripiantati
negli
stessi
luoghi
in
cui
nel
1965
massacrarono
le
migliaia
di
vittime.
La
richiesta
del
regista
era
di
riprodurre
fedelmente
gli
atti
di
quei
giorni.
Una
delle
scene
più
forti
era
quando
misero
in
scena
una
delle
tecniche più ricorrenti
per
uccidere:
“Ecco
vedi,
sdraiavamo
il
comunista
per
terra,
poi
prendevamo
un
tavolo
e
gli
appoggiavamo
una
delle
gambe
del
tavolo
sulla
gola.
Dopodiché
ci
sedevamo
tutti
e
cinque
sul
tavolo
e
saltellavamo
cantando
le
canzoni
che
avevamo
imparato
da
piccoli.
Poi
la
gola
si
spappolava
e
noi
dicevamo
‘è
morto?
Si
credo
che
sia
morto.
Via,
avanti
un
altro".
Il
motivo
per
cui
il
film
provocherà
una
fortissima
reazione
nel
paese
non
risiede
soltanto
nell’aver
riportato
alla
luce
le
esecuzioni
del
‘65
e di
averle
sbattute
in
faccia
al
mondo
intero,
ma
soprattutto
sta
nell’aver
collegato
i
registi
e
gli
esecutori
dello
sterminio
alle
odierne
prime
file
politiche,
smascherandone
i
collegamenti
con
le
associazioni
paramilitari,
ossia
quelle
organizzazioni
legalizzate
responsabili
di
attività
criminali
di
ogni
genere.
Finita
la
proiezione
scendemmo
al
bar,
ordinammo
del
rum
e
discutemmo
fino
a
tarda
notte
su
quello
che
avevamo
appena
visto.
La
cosa
che
più
m’impressionò
da
quello
scambio
d’idee
fu
quando,
lei,
la
mia
amica
di
Al
Jazeera
(che
da
mesi
esegue
ricerche
sulla
faccenda
per
un
servizio
che
uscirà
a
breve)
mi
disse:
“pensa
che
gran
parte
dei
resort
e
bar
sulla
spiaggia
nel
sud
di
Bali,
dove
i
turisti
di
tutto
il
mondo
passano
serate
a
ballare
e a
ubbriacarsi,
sono
costruiti
proprio
sulle
fosse
comuni.
Ci
hanno
schiaffato
sopra
una
lastra
di
cemento
e
via...”.