.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

ATTUALITà


N. 60 - Dicembre 2012 (XCI)

FANTASMI INDONESIANI

RICORDI DI UN MASSACRO
di Gianrigo Marletta

 

C’è voluto un regista americano, Joshua Oppenheimer, per riaprire uno dei capitoli più sanguinosi della storia Indonesiana.

 

Un invito nominale convocava i corrispondenti esteri residenti a Jakarta, al solito bar, dove giornalisti ed espatriati del settore si radunano per bere e discutere con quotidiana frequenza.

 

Un locale elegante, in legno, dalle luci soffuse che per arrivarci basta semplicemente attraversare la strada dal palazzo di venti piani che racchiude gli uffici di tutti i media internazionali. Per l’occasione la sala di sopra era stata allestita a cinema. Varcata la porta del bar, scavando tra il fumo delle sigarette salivamo le scale di legno, eleganti ma scricchiolanti, e ci accomodavamo sulle sedie disposte davanti a uno schermo a molla.

 

L’occasione era la proiezione clandestina di un documentario appena uscito e che sta facendo il giro dei film festival internazionali. In Indonesia non è stato ancora sottoposto alla ‘Commissione della Censura’, e anche quando lo sarà, tutti sanno che verrà subito messo al bando.

 

Oppenheimer, che per paura ha ammesso di non avere alcuna intenzione di rimettere piede in Indonesia, ha fatto arrivare il film a Jakarta tramite un’amica in comune, la corrispondente di Al Jazeera. Quella sera eravamo stati invitati segretamente alla proiezione del documentario organizzata proprio da lei.

 

E dunque, c’è voluto un regista americano, Joshua Oppenheimer, per riaprire uno dei capitoli più sanguinosi della storia Indonesiana. I fatti vennero da subito messi a tacere. Meno il mondo esterno sapeva, meglio era. L’operazione durò meno di un anno e si rivelò efficace. La nazione intera fu invasa da orgoglio, le scuole nei decenni a seguire inculcavano ai bambini lodi sui nazionalisti e sulle loro eroiche esecuzioni.

 

Gli esecutori divennero eroi nazionali, e tutt’ora siedono in alto - rivestendo cariche politiche molto importanti. Le ferite sono lontane dall’essere cicatrizzate e la linea di condotta del governo di silenziare da verità, quest’anno è stata spezzata da Oppenheimer, il filmmaker americano che gli ultimi sette anni li ha passati a scavare, a intervistare e a registrare, presentando oggi un bellissimo documentario lungo due ore e mezzo.

 

The Act of Killing, il filmato che, senza ombra di dubbio, scuoterà le comode poltrone del governo, dove da mezzo secolo siedono criminali e assassini, ha splendidamente riportato alla luce quello che fu il massacro dei membri del PKI (Partito Comunista Indonesiano), dei comunisti e dei "comunisti", che tra il 1965 e il 1966 portò alla morte tra uno e tre milioni di persone.

 

“C’è confusione sul numero esatto delle vittime” scrive la rivista indonesiana Tempo. La versione ufficializzata nell’era di Suharto, ossia il dittatore (imposto dalla CIA, ma questa è un’altra storia) che ordinò il massacro e che governò il paese per più di trent’anni, asserì che furono uccise 78,000 persone.

 

Un numero assai più piccolo rispetto ai rapporti del Comando per la Restaurazione di Ordine e Sicurezza che arrotondò la figura a un milione, e a quelli dell’esercito che oggi stima tre milioni e degli “attivisti liberali” che affermano un totale di due milioni.

 

Un’orgia sanguinaria che partì nell’Ottobre del 1965 dallo spunto dell’esercito, ma che poi fu eseguita quasi interamente dalla popolazione stessa. L’epicentro fu l’isola di Java ma in poche settimane il massacro si sparse a macchia d’olio per tutto l’arcipelago, passando per Bali, Sumatra fino al Kalimantan (nel Borneo).

 

Occasione perfetta per regolare conti e vendette. L’odio non era difficile da coltivare in un paese suddiviso per gruppi etnici e religiosi, dove la gran parte della popolazione da anni si divideva in fazioni opposte: nazionalisti islamici contro comunisti.

 

Menti semplici, con motivazioni semplici, che danno spiegazioni altrettanto semplici. Anwar Congo – protagonista del documentario - era un piccolo criminale di strada che passava le serate a fare il bagarino davanti al cinema di Medan, capoluogo della Sumatra settentrionale.

 

Oggi quest’uomo dalla personalità docile, quasi simpatica, ammette apertamente di aver tagliato la gola a centinaia di membri del PKI. Racconta con fierezza d’aver sviluppato una tecnica speciale, imparata dai film gangster americani, per strangolare le vittime senza far cadere una goccia di sangue a terra, aggiungendo che la sua firma durante le esecuzioni era sempre la stessa: un balletto di cha-cha.

 

L’odio di Anwar Congo contro i comunisti nacque quando il PKI aveva proposto il divieto sulla proiezione di film Americani in Indonesia.

 

Un voce tra le tante, quella di un cittadino. Ketut Mantram oggi settantaduenne, racconta a un giornale locale i tre mesi di vita che per lui iniziarono alla fine del ‘65 a Bali.

 

“Ogni giorno, per tre mesi, dovevamo rimanere alla nostra postazione e attendere ordini dal Comando Militare Regionale. Ci avevano dato delle spade e indossavamo camicie e pantaloni neri e berretti rossi. Mentre aspettavamo gli ordini ci istruivano sulle tecniche di reazione in caso ci fosse stata resistenza da parte di coloro che dovevamo prelevare. Ma per fortuna non ci fu mai resistenza. Non ci interessava se era notte o giorno, se faceva caldo o freddo, noi restavamo là e attendevamo gli ordini. La nostra postazione era anche il luogo dove eseguivamo gran parte delle esecuzioni. Mi ricordo la prima volta, ricevemmo un deposito di 90 membri del PKI. Gran parte di loro veniva dal villaggio di Tegal Badeng. Quella notte li sterminammo tutti, tagliando loro la gola o infilzandoli nel petto con le spade. Io non avevo mai ucciso nessuno prima di allora ma, siccome era un ordine, dovetti farlo. Soprattutto perché era un dovere verso il mio Paese. Poi caricavamo i corpi su dei camion e li sotterravamo nelle buche che erano state scavate sulla spiaggia di Baluk Rening. Ogni buca conteneva fino a venti corpi. Alle volte li portavamo lì vivi. Una volta arrivati ordinavamo loro di voltarsi verso il mare, da dietro li sgozzavamo e poi li sotterravamo. Era più facile scavare buche nella sabbia della spiaggia. Anche se il Quartier Generale ci aveva ordinato di sopprimere i membri del PKI fino alle radici, i miei amici ed io eravamo selettivi. Eliminavamo soltanto quelli che erano davvero coinvolti. Dopo tre mesi arrivò l’ordine di cessare tutte le attività. E ci dissero di tornare a casa. Lavorammo molto duramente in quel periodo. Non ci fu paga, nessuno ci ringraziò. Tutto a un tratto era finito e a noi ordinarono di tornare a casa”.

 

Le testimonianze ripetono a non finire la frase “c’era sangue ovunque”. L’obiettivo della telecamera di Oppenheimer riprese tutta la storia da un unico punto di vista, quello dei carnefici. I protagonisti, oggi vecchietti col compito di scavare nella memoria, furono ripiantati negli stessi luoghi in cui nel 1965 massacrarono le migliaia di vittime.

 

La richiesta del regista era di riprodurre fedelmente gli atti di quei giorni. Una delle scene più forti era quando misero in scena una delle tecniche più ricorrenti per uccidere: “Ecco vedi, sdraiavamo il comunista per terra, poi prendevamo un tavolo e gli appoggiavamo una delle gambe del tavolo sulla gola. Dopodiché ci sedevamo tutti e cinque sul tavolo e saltellavamo cantando le canzoni che avevamo imparato da piccoli. Poi la gola si spappolava e noi dicevamo ‘è morto? Si credo che sia morto. Via, avanti un altro".

 

Il motivo per cui il film provocherà una fortissima reazione nel paese non risiede soltanto nell’aver riportato alla luce le esecuzioni del ‘65 e di averle sbattute in faccia al mondo intero, ma soprattutto sta nell’aver collegato i registi e gli esecutori dello sterminio alle odierne prime file politiche, smascherandone i collegamenti con le associazioni paramilitari, ossia quelle organizzazioni legalizzate responsabili di attività criminali di ogni genere.

 

Finita la proiezione scendemmo al bar, ordinammo del rum e discutemmo fino a tarda notte su quello che avevamo appena visto. La cosa che più m’impressionò da quello scambio d’idee fu quando, lei, la mia amica di Al Jazeera (che da mesi esegue ricerche sulla faccenda per un servizio che uscirà a breve) mi disse: “pensa che gran parte dei resort e bar sulla spiaggia nel sud di Bali, dove i turisti di tutto il mondo passano serate a ballare e a ubbriacarsi, sono costruiti proprio sulle fosse comuni. Ci hanno schiaffato sopra una lastra di cemento e via...”. 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.