N. 101 - Maggio 2016
(CXXXII)
L’OPERAZIONE CROSSPOINT
IL BOMBARDAMENTO DI ROMA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
di
Michelangelo
Borri
Molte
sono
le
domande
che
potremmo
porci
riguardo
al
bombardamento
di
Roma
durante
la
Seconda
guerra
mondiale.
Innanzitutto,
perché
l’eventualità
di
un
attacco
a
Roma,
capitale
dell’Italia
fascista,
fu
un
argomento
che
provocò
discussioni
tanto
violente
tra
gli
Alleati?
L’Urbe
era
il
centro
nevralgico
del
regime,
vi
risiedevano
il
Re,
Mussolini
e
tutti
i
maggiori
gerarchi
fascisti.
Nella
città
erano
presenti
importanti
obbiettivi
militari,
scali
ferroviari
e
fabbriche
di
armi.
Inoltre,
perché
risparmiare
Roma
quando
Londra
era
stata
più
volte
colpita
dalle
forze
dell’Asse,
senza
alcun
riguardo
per
la
popolazione
o
per
il
patrimonio
storico
della
città.
Nonostante
le
motivazioni
strettamente
militari,
vi
sono
anche
altri
fattori
che
devono
essere
presi
in
considerazione
in
una
corretta
analisi
degli
avvenimenti.
Sebbene
in
quel
momento
rappresentasse
un
obbiettivo
militare
di
indiscutibile
rilevanza,
Roma
non
era,
e
non
è,
soltanto
la
capitale
dell’Italia,
ma
anche
il
centro
della
cristianità,
la
culla
della
civiltà
occidentale.
Nessuna
città
al
mondo
presenta
un
patrimonio
storico-artistico
paragonabile
a
quello
dell’Urbe.
Di
questo
erano
perfettamente
consapevoli
non
soltanto
i
vertici
politici
e
militari
Alleati
ma
anche
gran
parte
della
popolazione
civile
mondiale.
Perché,
allora,
i
numerosi
tentativi
–
prima
della
Santa
Sede
e in
seguito
di
Badoglio
– di
dichiarare
Roma
“città
aperta”
non
portarono
a
dei
risultati
concreti?
E
perché,
infine,
il
regime
non
riuscì
a
difendere
Roma
in
modo
adeguato
e
non
avvertì
la
popolazione
dell’incombente
pericolo
di
un
attacco
dal
cielo?
Rispondere
a
queste
domande
in
modo
soddisfacente
richiederebbe
un’analisi
estremamente
lunga
e
complessa,
che
chi
scrive
non
ha
né i
mezzi
né
le
competenze
per
poter
affrontare.
Lo
scopo
del
presente
articolo
vuole
essere,
al
contrario,
quello
di
introdurre
i
fatti
relativi
al
bombardamento
di
Roma
e le
conseguenze
che
questo
ebbe
sul
conflitto
e
sulla
popolazione,
al
fine
di
far
sorgere,
mi
auguro,
nuovi
interrogativi
nel
lettore.
Le
forze
coinvolte
Allo
scoppio
della
guerra,
le
batterie
contraeree
piazzate
a
difesa
di
Roma
erano
tutte
fornite
di
pezzi
da
75
millimetri,
per
lo
più
risalenti
alla
Prima
guerra
mondiale
e
con
una
gittata
limitata
a
6000
metri,
mille
in
meno
rispetto
alla
quota
cui
volavano
i
bombardieri
americani.
Già
nel
1942,
dopo
che
i
bombardieri
Alleati
avevano
distrutto
gran
parte
delle
contraeree
italiane,
Mussolini
dovette
chiedere
a
Hitler
una
cinquantina
di
batterie
della
Flak,
la
contraerea
tedesca,
da
mettere
a
difesa
dei
centri
industriali
maggiormente
colpiti.
Non
era
migliore
la
situazione
dell’aviazione
militare
italiana.
All’inizio
della
guerra,
nel
1939,
l’Italia
disponeva
ufficialmente
di
1796
aerei.
Da
questa
stima
devono
però
essere
sottratti
i
mezzi
non
funzionanti,
in
manutenzione
o
talmente
obsoleti
da
non
essere
in
grado
di
affrontare
un
combattimento.
Gli
aerei
moderni
e
funzionanti
erano,
in
realtà,
poco
più
di
550.
Un
confronto
con
le
forze
degli
Alleati
evidenzia
in
modo
chiaro
non
soltanto
l’inferiorità
dell’aviazione,
ma
anche
l’arretratezza
dell’apparato
industriale
italiano
rispetto
a
quello
di
Inghilterra
e
Stati
Uniti.
Nel
1939
il
totale
dei
velivoli
a
disposizione
delle
Regia
Aeronautica
era,
come
detto,
di
1796
unità,
mentre
l’Inghilterra,
nello
stesso
anno,
poteva
contare
su
circa
7000
aerei.
Gli
Stati
Uniti,
al
momento
del
loro
ingresso
nel
conflitto
nel
dicembre
del
1941,
possedevano
all’incirca
20000
aerei,
ma
il
loro
enorme
apparato
industriale
permise
di
triplicarne
il
numero
già
nel
1942.
Del
tutto
inutili
erano,
infine,
i
ricoveri
antiaerei
costruiti
dal
regime,
per
i
quali
era
stato
speso
un
miliardo
e
mezzo
di
lire
(una
cifra
enorme
per
l’epoca).
Il
problema
riguardava
non
soltanto
il
numero
dei
rifugi,
decisamente
troppo
basso,
ma
anche
la
tenuta
di
quelli
disponibili,
che
non
erano
in
grado
di
resistere
agli
ordigni
ad
alto
potenziale
degli
Alleati
e si
trasformavano
spesso
in
trappole
mortali.
Il
falso
mito
dell’inviolabilità
dell’Urbe
Se
quindi
i
mezzi
a
disposizione
per
difendere
Roma
e la
sua
popolazione
erano
totalmente
insufficienti,
la
situazione
era
aggravata
dal
fatto
che
nessuno
sembrava
rendersi
conto
dell’imminente
pericolo.
Tutti,
sia
la
popolazione
che
le
autorità
cittadine
e
militari,
erano
convinti
che
Roma
non
sarebbe
mai
stata
bombardata.
De
Simone
riporta,
a
tal
proposito,
una
conversazione
dell’aprile
del
1943
tra
il
governatore
di
Roma,
principe
Gian
Giacomo
Borghese
ed
il
prefetto
di
Roma,
Manlio
Presti.
Entrambi
erano
assolutamente
convinti
che
gli
Alleati
non
avrebbero
mai
osato
bombardare
la
città
eterna,
tanto
da
non
chiedere
fondi
per
la
costruzione
di
nuovi
rifugi,
o
per
la
manutenzione
di
quelli
già
esistenti.
Peraltro,
fin
dall’inizio
del
1943
erano
giunte
alla
Prefettura
numerose
segnalazioni
circa
le
pessime
condizioni
di
molti
dei
ricoveri
antiaerei
della
città,
puntualmente
ignorate
dalle
autorità
competenti.
Roma,
al
contrario
di
tutti
i
grandi
centri
urbani
europei,
negli
anni
del
conflitto
vide
crescere
il
numero
dei
propri
abitanti.
Gli
italiani
erano
infatti
convinti
che
la
presenza
del
Papa
rendesse
l’Urbe
intoccabile.
Tale
illusione
fece
sì
che
gli
allarmi
antiaerei
fossero
spesso
ignorati,
così
come
i
volantini
che
gli
Alleati
lanciavano
sulla
città
per
segnalare
alla
popolazione
che
presto
vi
sarebbero
stati
dei
bombardamenti.
Gli
ultimi
manifesti
lasciati
su
Roma
dagli
aerei
americani
nella
notte
del
19
luglio,
a
poche
ore
dall’inizio
dell’attacco,
avvertivano
la
popolazione
di
allontanarsi
dai
possibili
obbiettivi
militari
che,
vi
era
scritto,
sarebbero
stati
presto
colpiti.
Roma
“città
aperta”
La
delicatezza
della
questione
relativa
al
bombardamento
di
Roma
fu
avvertita
fin
dall’ingresso
in
guerra
dell’Italia,
nel
giugno
del
1940.
I
maggiori
quotidiani
inglesi
si
chiesero
subito
quale
sarebbe
stato
l’atteggiamento
del
Governo
britannico
nei
confronti
dell’Urbe.
Gli
stessi
Alleati
non
furono
sempre
d’accordo
su
come
agire
su
Roma.
Gli
Stati
Uniti
si
mostrarono
più
volte
disposti
a
trattare,
tramite
la
Santa
Sede,
per
una
smilitarizzazione
della
zona
urbana
–
almeno
fino
all’aprile
del
1943.
Il
Governo
britannico,
al
contrario,
fu
da
sempre
contrario
a
concedere
alla
città
eterna
uno
status
particolare.
Roma
era,
innanzitutto,
la
capitale
del
nemico,
il
luogo
di
residenza
di
Mussolini,
del
Re e
dei
vertici
del
regime.
Essa
costituiva,
inoltre,
un
importante
punto
di
collegamento
tra
nord
e
sud
dell’Italia.
Ma a
rendere
gli
inglese
irremovibili
nella
loro
posizione
era
il
fatto
che
gli
italiani
avessero
preso
parte,
nel
1940,
ai
raid
aerei
su
Londra.
La
Santa
Sede
e
Pio
XII
in
persona
furono
invece
i
maggiori
promotori
di
una
vasta
attività
diplomatica
volta
a
garantire
la
salvezza
di
Roma
dalle
distruzioni
del
conflitto.
Già
alla
fine
del
1942
il
Vaticano
propose
agli
Alleati
e al
Governo
italiano
un
piano
per
la
smilitarizzazione
dell’Urbe.
Verso
la
fine
di
dicembre
si
arrivò
anche
alla
redazione
di
una
bozza
nella
quale
si
definivano
le
condizioni
per
trasformare
Roma
in
“città
aperta”.
Queste
prevedevano
la
rimozione
dal
territorio
cittadino
di:
tutti
gli
uffici
governativi,
il
Governo
e la
famiglia
reale,
gli
Stati
Maggiori
dell’esercito,
le
strutture
militari
e
tutte
le
organizzazioni
tedesche.
Le
ferrovie
e le
strade
della
città
non
dovevano
inoltre
essere
utilizzate
per
il
transito
di
personale
o
mezzi
militari.
Erano
richieste,
infine,
delle
misure
di
controllo
e un
limite
di
tempo
per
completare
la
smilitarizzazione.
L’azione
diplomatica
del
Vaticano
dovette
tuttavia
scontrarsi
con
le
motivazioni
militari.
Già
nel
gennaio
del
1943
gli
Alleati
decisero
di
sospendere
le
trattative
con
il
regime
fascista,
che
non
sembrava
intenzionato
ad
adempiere
agli
obblighi
dell’accordo.
D’altro
canto,
il
Governo
italiano
era
sicuro
che
gli
Alleati
non
avrebbero
mai
bombardato
Roma,
anche
senza
un
accordo
diplomatico
in
tal
senso,
per
il
semplice
fatto
che
vi
risiedeva
il
pontefice.
Una
volta
approvata
l’operazione
Husky,
nel
maggio
del
1943,
il
bombardamento
di
Roma
non
poteva
più
essere
evitato.
Mettere
fuori
uso
gli
scali
ferroviari
romani
significava
interrompere
i
collegamenti
tra
nord
e
sud
Italia,
ritardando
così
l’afflusso
di
soldati
e
armamenti
verso
la
Sicilia.
Ai
benefici
militari
se
ne
aggiungevano
altri
di
tipo
psicologico.
Colpire
la
capitale
italiana,
poco
dopo
lo
sbarco
delle
forze
alleate
in
Sicilia,
avrebbe
potuto
aumentare
il
malcontento
tra
la
popolazione,
portando
a
una
rivolta
contro
il
regime
fascista.
Non
a
caso
il
25
luglio,
sei
giorni
dopo
il
primo
bombardamento
alleato
su
Roma,
Mussolini
venne
arrestato.
Il
nuovo
Governo,
affidato
al
maresciallo
Pietro
Badoglio,
si
affrettò
a
riprendere
le
trattative
diplomatiche.
In
seguito
al
secondo
raid
alleato,
quello
del
13
agosto,
dichiarò
unilateralmente
Roma
“città
aperta”,
annunciando
che
sarebbero
stati
presi
i
provvedimenti
necessari
a
rendere
la
condizione
effettiva.
L’annuncio
di
Badoglio
fu
accolto
con
diffidenza
dagli
Alleati
e le
trattative
continuarono
fino
all’8
settembre,
data
di
entrata
in
vigore
dell’armistizio
con
le
forze
angloamericane.
La
firma
dell’armistizio
con
gli
Alleati
segna
l’inizio
dell’occupazione
tedesca
di
Roma
e la
fine
di
qualsiasi
possibile
accordo
diplomatico
per
la
salvaguardia
del
territorio
e
della
popolazione
della
città.
Soltanto
nel
marzo
del
1944,
quando
ormai
le
forze
tedesche
in
Italia
centrale
non
erano
più
in
grado
di
respingere
l’avanzata
degli
angloamericani,
la
questione
della
“città
aperta”
tornò
a
essere
discussa.
Il
Comando
tedesco,
tramite
una
dichiarazione
su
“Il
Messaggero”,
si
disse
pronto
a
provvedere
alla
smilitarizzazione
dell’Urbe.
Si
trattava,
chiaramente,
di
una
mossa
politica,
con
la
quale
i
tedeschi
miravano
a
ingraziarsi
l’opinione
pubblica
e la
popolazione
romana.
Inoltre,
l’eventuale
accettazione
dello
status
di
“città
aperta”
avrebbe
impedito
agli
Alleati
di
far
transitare
truppe
e
mezzi
militari
attraverso
Roma,
rallentandone
l’avanzata
e
facilitando
al
contempo
la
ritirata
tedesca.
Nel
complesso,
probabilmente
la
questione
della
“città
aperta”
non
ha
mai
assunto
una
rilevanza
concreta
nelle
discussioni
tra
le
diverse
parti
in
conflitto.
Questa
è
stata
utilizzata,
a
seconda
delle
circostanze,
come
strumento
per
orientare
l’opinione
pubblica.
Le
trattative
riguardo
lo
speciale
status
di
Roma
hanno
avuto,
da
parte
degli
Alleati,
un
valore
fondamentalmente
politico,
volto
a
mantenere
buoni
rapporti
diplomatici
con
la
Santa
Sede
e
con
le
comunità
cattoliche
dei
propri
paesi.
Da
parte
dell’Asse,
lo
status
di
“città
aperta”
è
stato
usato
per
condannare
i
raid
aerei
su
Roma,
presentati
come
attacchi
barbarici
volti
a
distruggere
il
patrimonio
storico
e
culturale
della
città.
L’operazione
Crosspoint
Il
via
libera
al
bombardamento
di
Roma
arrivò
in
seguito
alla
Terza
Conferenza
di
Washington
(Trident),
svoltasi
nel
maggio
del
1943.
Gli
obbiettivi
principali
erano
gli
scali
ferroviari,
San
Lorenzo
e
Littorio,
e
gli
aeroporti
Littorio
e
Ciampino.
Il
fine
era
quello
di
ostacolare
lo
spostamento
delle
truppe
dell’Asse
verso
la
Sicilia
una
volta
lanciata
l’operazione
Husky
– lo
sbarco
delle
forze
alleate
in
Sicilia
–
fissata
per
il
10
di
luglio.
Il
nome
in
codice
Crosspoint
fu
scelto
da
Eisenhower
per
sottolineare
l’assoluta
precisione
richiesta
dalla
missione.
Come
riporta
De
Simone,
crosspoint
era
infatti
il
termine
tecnico
utilizzato
per
indicare
il
centro
del
mirino
Norden,
il
sistemo
di
puntamento
utilizzato
dai
bombardieri
americani.
Si
trattava,
quindi
di
un’operazione
estremamente
delicata,
per
la
quale
era
richiesta
una
precisione
assoluta:
il
minimo
errore
avrebbe
potuto
causare
la
distruzione
di
chiese,
monumenti,
opere
d’arte,
con
l’inevitabile
reazione
della
Santa
Sede
e
dell’opinione
pubblica
mondiale.
Dall’altra
parte,
si
riteneva
che
l’esito
positivo
della
missione
avrebbe
potuto
facilitare
sensibilmente
la
caduta
del
regime
fascista.
Anche
gli
inglesi
avevano
preparato
un
loro
piano
per
bombardare
Roma,
il
cui
obbiettivo
era
Mussolini
in
persona:
i
bombardieri
avrebbero
colpito
pesantemente
Palazzo
Venezia
e
Villa
Torlonia,
rispettivamente
l’ufficio
e la
residenza
del
dittatore,
contando
così
di
centrare
il
bersaglio.
Tale
piano
presentava
però
due
grossi
punti
deboli:
innanzitutto,
bombardando
Palazzo
Venezia
vi
era
il
grosso
rischio
di
colpire
altre
parti
del
centro
storico
di
Roma;
inoltre,
la
morte
del
duce
avrebbe
potuto
ridare
forza
al
regime,
rendendo
meno
probabile
una
rivolta
da
parte
della
popolazione.
In
seguito
a
queste
considerazioni,
gli
inglesi
abbandonarono
il
loro
proposito,
lasciando
agli
americani
l’esclusiva
dell’operazione
su
Roma.
La
pianificazione
dell’operazione
Crosspoint
iniziò
negli
ultimi
giorni
di
giugno.
La
parola
d’ordine
era,
come
detto,
“precisione”:
si
trattava
di
un
evento
epocale,
il
primo
bombardamento
nella
millenaria
storia
di
Roma;
tutto
il
mondo
ne
avrebbe
parlato
e
non
era
ammesso
commettere
errori.
Proprio
per
questo
motivo,
fu
deciso
che
l’attacco
si
sarebbe
svolto
di
giorno,
con
condizioni
meteorologiche
che
garantissero
una
visibilità
perfetta.
I
membri
degli
equipaggi
furono
oggetto
di
un’attenta
selezione,
vennero
scelti
gli
uomini
con
più
esperienza,
mentre
furono
esonerati
gli
avieri
di
religione
cattolica
che
non
se
la
fossero
sentita
di
partecipare
all’attacco
ed i
protestanti,
per
paura
che
potessero
colpire
intenzionalmente
delle
chiese
cattoliche.
Tutti
gli
equipaggi
dovettero
studiare
le
carte
topografiche
della
città,
con
indicati
gli
obbiettivi
militari
e le
strutture
che,
invece,
non
dovevano
essere
colpite
(in
particolare,
i
numerosi
edifici
di
proprietà
del
Vaticano
sparsi
per
la
città).
L’attacco
ebbe
inizio
alle
11,03
del
19
luglio
1943.
Se
le
prime
formazioni
mantennero
le
aspettative,
riuscendo
tutto
sommato
a
circoscrivere
l’area
delle
operazioni,
quelle
seguenti
finirono
spesso
per
mancare
i
bersagli;
per
ogni
ondata
di
bombe
che
cadde
sulla
città,
si
sollevarono
nubi
di
fumo
e
polvere
sempre
più
grandi,
che
finirono
per
compromettere
la
visuale
dei
puntatori.
Alla
fine,
gli
ordigni
furono
sganciati
fino
a
mezzo
chilometro
di
distanza
dagli
scali
ferroviari,
distruggendo
il
quartiere
di
San
Lorenzo
e
colpendo
pesantemente
i
quartieri
Prenestino,
Tiburtino
e
Tuscolano.
L’operazione
si
concluse
alle
13,35
e
portò
alla
distruzione
degli
scali
ferroviari
del
Littorio
e di
San
Lorenzo,
assieme
agli
aeroporti
del
Littorio
e di
Ciampino.
In
totale,
presero
parte
all’attacco
930
velivoli,
che
in
poco
più
di
due
ore
sganciarono
su
Roma
circa
4000
bombe.
Le
difese
antiaeree
della
città
si
rivelarono,
nella
maggior
parte
dei
casi,
del
tutto
inutili.
Le
poche
batterie
di
recente
costruzione,
in
grado
di
colpire
i
velivoli
nemici,
avevano
a
disposizione
poco
più
di
un
migliaio
di
munizioni,
contro
le
5000
previste;
già
alle
11,40
la
maggior
parte
delle
contraeree
cittadine
aveva
cessato
di
sparare.
I
caccia
italiani
che
si
alzarono
in
volo
a
difesa
di
Roma
furono
trentotto,
e
dovettero
affrontare
i
268
Lightning
alleati
di
scorta
ai
bombardieri.
Quest’ultimi,
tra
le
varie
ondate
di
bombardamenti,
scesero
a
mitragliare
le
piazze
e i
grandi
viali
della
città,
provocando
centinaia
di
vittime
tra
i
civili
(i
mitragliamenti
sui
civili,
pesantemente
condannati
nei
giorni
e
nei
decenni
successivi,
erano
stati
introdotti
proprio
dalla
forze
italiane
in
Spagna
e in
Somalia).
Alla
fine,
soltanto
due
bombardieri
dei
930
attaccanti
furono
abbattuti:
uno
dalla
contraerea
tedesca
di
Pratica
di
Mare
e
l’altro
da
un
caccia
italiano.
Le
vittime
furono
circa
3000,
cui
devono
essere
aggiunti
almeno
11-12
mila
feriti.
La
mancanza
di
dati
precisi
è
dovuta
al
tentativo,
da
parte
del
regime,
di
non
lasciar
trapelare
informazioni
sugli
effettivi
danni
causati
dall’attacco.
La
stima
cui
facciamo
oggi
riferimento
è
stata
ottenuta
tramite
l’analisi
dei
rapporti
dei
carabinieri,
di
relazioni
dell’esercito,
delle
squadre
di
soccorso
e
dei
vigili
del
fuoco.
Dopo
la
fine
della
guerra,
ci
si è
chiesti
a
lungo
se
il
bombardamento
di
Roma
fosse
stato
realmente
necessario.
Dal
punto
di
vista
strettamente
militare,
probabilmente
no.
Molti
storici
concordano
sul
fatto
che
le
comunicazioni
tra
nord
e
sud
Italia
potevano
essere
interrotte
distruggendo
le
vie
di
comunicazione
attorno
a
Roma,
riducendo
così
gli
obbiettivi
militari
nella
capitale
ai
soli
aeroporti
del
Littorio
e di
Ciampino.
L’importanza
di
Roma,
tuttavia,
andava
ben
oltre
le
semplici
considerazioni
militari.
Era
il
simbolo
dell’Italia,
il
luogo
dove
risiedevano
i
vertici
del
Paese.
L’obbiettivo
principale
degli
Alleati,
in
quel
momento,
era
spingere
l’Italia
ad
arrendersi,
e il
modo
migliore
per
ottenere
dei
risultati
era
colpire
il
cuore
della
nazione.
Questo
è il
motivo
per
cui,
alla
fine
–
nonostante
le
numerose
precauzioni
prese,
l’addestramento
dei
piloti,
gli
avvertimenti
alla
popolazione
– i
bombardamenti
colpirono
le
abitazioni
civili.
Se
doveva
esservi
una
sollevazione
popolare
contro
il
regime,
questa
non
poteva
che
partire
dai
romani.
E
infatti,
a
distanza
di
sei
giorni
dall’attacco
alleato
su
Roma,
Mussolini
venne
arrestato.
Il
secondo
bombardamento,
quello
del
13
agosto,
servì
a
convincere
Badoglio,
che
già
stava
trattando
con
gli
Alleati,
ad
accelerare
i
tempi
per
la
firma
dell’armistizio
(che
sarebbe
avvenuta
il 3
settembre).
Questo
purtroppo
non
bastò
a
salvare
Roma,
che
fu
bombardata
altre
51
volte
dagli
Alleati.
Ma
la
colpa,
in
questo
caso,
fu
soprattutto
degli
occupanti
tedeschi,
che
utilizzarono
l’Urbe
per
il
transito
di
truppe
e
mezzi
militari
anche
dopo
la
dichiarazione
di
“città
aperta”.
Riferimenti
bibliografici:
De
Simone,
Cesare.
Venti
angeli
sopra
Roma.
I
bombardamenti
aerei
sulla
Città
Eterna
(19
luglio
1943
e 13
agosto
1943).
Milano,
Mursia
Editore,
1993.
Gentiloni
Silveri,
Umberto
e
Carli,
Maddalena.
Bombardare
Roma.
Gli
Alleati
e la
«Città
aperta»
(1940-1944).
Bologna,
Il
Mulino,
2007.