N. 1 - Gennaio 2008
(XXXII)
SENZA
VIA D’USCITA
Riflessioni sul mondo lavorativo
di Laura Novak
L’incendio è scoppiato
silente durante la notte fredda della Torino di
dicembre. Dodici ore di turno ininterrotto
probabilmente sono sembrate senza termine, i ritmi
invertiti, con le mani a lavoro durante i momenti in
cui invece la tua città intorno dorme.
Deve essere stato un
inferno improvviso di fiamme e calore, intrappolati in
pareti roventi e investiti da una lava di olio bollente
fuoriuscito da una vasca del processo finale della
lavorazione di lamiere incandescenti.
I morti, i feriti in
condizioni disperate, ustionati, marchiati col fuoco
hanno segnato le righe delle pagine dei quotidiani
d’Italia.
Lo strazio delle famiglie
dei sei operai per cui il tempo si è fermato a quella
notte, ha creato onde di dolore sociale e collettivo, e
finalmente le morti sul lavoro, le cosiddette bianche
perché innocenti e fuori contesto morale, sono stati i
titoli della cronaca del nostro paese.
Non stiamo a chiederci
quanto a lungo ancora l’attenzione si soffermerà,
ritaglierà nella propria immaginazione luoghi segreti
dove custodire visi e lacrime di coloro che hanno perso
in quel rogo parte della propria vita.
Chiediamoci perché è
potuto accadere.
Il mondo del lavoro ci
viene presentato dagli altari politici come in continuo
mutamento, evoluzioni e migliorie costanti sempre da
attuare e figure istituzionali impegnati in riforme
senza fine.
Da anni ormai gli impieghi
non aumentano né tanto meno diminuiscono, cambiano,
mutano di aspetto e di scopo all’improvviso. Di
conseguenza mutano le specifiche del rapporto tra
preparazione e ruolo finale di occupazione.
La meritocrazia è
abbandonata agli angoli delle stanze decisionali dei
luoghi di lavoro del giorno, del mese, della vita.
E gli individui si perdono
nei fiumi umani delle classi lavoratrici. Soggetti
dimenticati per un insieme da controllare e gestire.
Eppure, nonostante questi
mutamenti lenti (a volte oscuri) nelle modalità di
permanenza sul mondo del lavoro, rimaniamo imprigionati
nelle tempistiche delle esigenze di quotidiano sudore.
La scenografia alle tue
spalle può cambiare, può essere l’entrata ad alte
griglie di ferro di un complesso abnorme dove le tute da
lavoro sostituiscono i vestiti della giornata; può
essere la porta scorrevole di ufficio asettico e senza
finestre aperte sul mondo; può essere un volante davanti
ai tuoi occhi in costante movimento e la strada che ti
aspetta ancora a lungo.
Gli individui si
trasformano in “stardandizzazioni” di ruoli e
occupazioni, diventano oggetto sociale e dimenticano le
loro necessità di sicurezza per il bene primario a fine
mese.
Le catene di montaggio
continuano ancora oggi a sussistere ai cambiamenti
sociali, e come le occupazioni si evolvono anche le
catene umane e il loro rapporto con la macchina si
evolve e cambia aspetto.
Ma, proprio perchè la
catena sussiste, diventi un membro necessario, un
bullone dell’ingranaggio che va oliato a sufficienza
perché non crei attrito, un componente meccanico la cui
efficienza viene monitorata ogni giorno. Sei sì
necessario, ma mai indispensabile. Perché il lavoro
contemporaneo non ha specifiche necessarie al suo
svolgimento, i movimenti meccanici sono fruibili da
qualsiasi mano li compia.
E meccanici diventano i
tuoi ritmi di lavoro, meccaniche le tue ore di sonno
accantonate, meccanici i tuoi rapporti di
collaborazione.
Il rogo della Thyssen è
l’estremo dolore. E il limite varcato da cui non si può
tornare.
Le linee basilari della
sicurezza sul lavoro sono state ritracciate, la
salvaguardia è rivolta al prodotto e non a colui che lo
assembla, che lo plasma.
Le schiere lavoratrici
avvertono la mancanza di limpidezza e le menzogne
gestite ad arte dalle aziende, perché infine i loro
diritti individuali fondamentali diventino
all’improvviso opzionali.
Ci trasformiamo a volte
consapevolmente, altre volte meno, in automi programmati
ogni giorno agli stessi atti e di conseguenza agli
stessi pensieri.
Il desiderio di fuga
nasce, ma viene accantonato.
Dopo la tragedia il
comunicato ufficiale della Thyssen crea alibi alla
mancanza del rispetto delle norme fondamentali di
sicurezza, adducendo smantellamenti di sede e
assicurando la presenza degli strumenti basilari per il
mantenimento della sicurezza negli impianti oggi come il
giorno dell’incendio.
Poche chiarezze al lettore
rimangono in questi eventi. I termini utilizzati nelle
versioni dei sopravvissuti sono poco fraintendibili:
estintori senza manutenzione, scarichi o già utilizzati,
turni senza sosta ed equipaggiamento scarno rispetto ai
materiali importanti trattati.
Eppure i controlli in sede
erano stati effettuati dagli enti competenti e superati
a pieni voti dall’azienda.
Ed è in questi giorni di
morti senza gridi, nelle notti di lavoro di ognuno di
noi, che avvertiamo quanto durante il percorso
quotidiano abbiamo perso consapevolezza, coscienze
risucchiate in un vortice di doveri.
Di certo il lavoro nero o
sena norme di sicurezza, lo sfruttamento minorile, le
discrimazioni sessuali e il mobbing continuano a creare
alienazione. La costrizione del denaro impone le sue
leggi e l’animo si piega lentamente.
Nelle file di coloro che
hanno l’esistenza scandita dalle lancette del lavoro non
esistono vincitori, ma solo vinti.
Eppure una volta si poteva
ancora credere che il lavoro nobilita. |