N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
A Canicattì, in settembre
ad Antonio Saetta e Rosario Livatino, uomini
di Giuseppe Tramontana
"[...]
poi che la vita è un
male,
e
son
moleste,
dopo la prima giovinezza,
l’ore:
ma chi soldato fra i
soldati
muore,
resta giovane sempre
sulla
terra
[…]”
(U. Saba, Congedo)
C’è, in Sicilia, una
strada
particolare.
È la
statale
640
che
collega
Porto
Empedocle
a
Caltanissetta,
spaccando
in
due
il
cuore
fertile,
puntellato
di
vigneti,
delicatamente
ondulato,
dell’Isola.
È una lingua d’asfalto
color
grigio
slavato.
Sale,
sale,
si
inerpica
fino
a
confluire
nella
E932
e da
qui
nella
A19.
Il
tutto
per
arrivare
nella
Capitale,
Palermo,
svirgolando
vari
paesi,
grossi
e
piccoli,
tra
i
quali
Canicattì.
Ed è proprio Canicattì,
Agrigento,
il
fulcro
della
nostra
storia.
È
proprio
qui
che
bisogna
andare
per
scoprire
la
particolarità
di
questa
strada
siciliana,
altrimenti
anonima
filìnia
nel
viluppo
della
ragnatela
stradale
isolana.
Molte lacrime sono state
versate
su
questo
nastro
di
bitume,
molte
lacrime
e
molto
sangue.
Incidenti.
Si
sa,
come
in
ogni
angolo
d’Italia.
Ed
anche
il
suo
ciglio
è
trapuntato
di
colonnine
in
memoria
di
vittime
della
strada,
fiori
freschi
o
rinsecchiti,
angioletti
e
lumini,
qualche
fotografia
di
giovane
sorridente,
un
nastro
bianco
cullato
dal
vento
sciroccoso.
Ce ne sono tanti, lungo
quella
strada,
di
questi
‘ad
memorabilia’.
Così
è.
Così
gli
uomini
credono
di
poter
lenire
il
dolore.
E
nutrire
il
vuoto
onnivoro
che
lascia
chi
muore.
Eppure, questa statale
ha
un
record
del
tutto
singolare.
È
l’unica
strada
in
cui
sono
stati
uccisi,
a
qualche
chilometro
di
distanza,
ben
due
magistrati,
Antonino
Saetta
e
Rosario
Livatino.
Il
primo,
tra
l’altro,
caduto
insieme
al
figlio
Stefano.
Rosario Livatino venne
ucciso
il
21
settembre
1990,
vent’anni
fa.
Abitava
a
Canicattì.
Era
figlio
unico,
cattolico
praticante.
Ma
soprattutto
onesto.
Avrebbe
compiuto
38
anni
il
successivo
3
ottobre.
Si
recava
in
Tribunale,
ad
Agrigento,
quel
giorno.
Sul viadotto Gasena, la
sua
Ford
Fiesta
amaranto
venne
affiancata
da
quella
di
un
commando
mafioso.
Livatino
venne
ferito
ad
una
spalla,
scesa
dall’auto
e
tentò
di
fuggire
lungo
la
scarpata.
Uno
dei
killer,
Gaetano
Puzzangaro
di
Palma
di
Montechiaro,
conosciuto
col
soprannome
di
‘A
musca’,
lo
inseguì
e lo
finì.
Gli ultimi quattro colpi
glieli
sparò
in
faccia.
Pare
che,
mentre
stava
a
terra,
guardando
il
killer
diritto
negli
occhi
gli
abbia
chiesto:
“Ma
cosa
ti
ho
fatto?”
È un omicidio emblematico,
quello
di
Livatino.
Un
giovane
uomo
di
nemmeno
38
anni,
sprezzantemente
definito
dall’allora
Presidente
della
Repubblica
Francesco
Cossiga
“giudice
ragazzino”.
È una fine emblematica
come
tutte
le
tragedie
che
condensano
in
pochi
atti,
in
poche
scene,
le
vicissitudini,
le
aporie,
le
magmaticità
della
storia.
Della
storia
dell’Italia
contemporanea,
nel
caso
specifico.
Ci troviamo davanti ad
un
giudice,
senza
scorta,
che
viene
inseguito,
braccato
come
una
preda
da
caccia
e
crivellato.
Solo,
inerme,
ferito,
con
negli
occhi
la
sagoma
di
un
carnefice
ad
oscurargli
il
sole.
Così
si
muore
in
Italia.
Così
si
muore
in
Sicilia.
Non ci vollero piani
sofisticati
o
strategie
altisonanti,
nessuna
auto
da
far
saltare
in
aria,
nessun
viadotto
da
minare,
zero
scorte
da
colpire.
No.
Tutto
più
semplice.
Per
uccidere
un
giudice
onesto
e
incorruttibile,
per
soffocare
la
giustizia.
Ben presto si venne a
sapere
tutto
dell’agguato,
dei
colpi
sparati,
della
ferita
alla
spalla,
dell’inseguimento
e
persino
delle
ultime
parole.
E si
venne
a
sapere
grazie
ad
un
supertestimone.
Fu, infatti,
un
rappresentante
di
commercio
settentrionale,
Pietro
Ivano
Nava,
che,
come
in
Una
storia
semplice
di
Leonardo
Sciascia,
assistette
casualmente
all’agguato.
Ma,
a
differenza
del
personaggio
sciasciano,
Nava
non
decise
che
non
era
affar
suo,
ma
afferrò
il
cellulare
della
sua
auto
e
chiamò
il
113.
E fu ancora
grazie
alla
sua
testimonianza
che
gli
inquirenti
diedero
un
volto
ai
componenti
del
commando
assassino.
Vennero
subito
arrestati
Domenico
Pace
e
Paolo
Amico,
palmesi,
fuggiti
in
Germania
poche
ore
dopo
l’agguato.
E
ancora:
Giovanni
Avarello,
di
Canicattì,
i
palmesi
Giuseppe
Croce
Benvenuto
e
Gaetano
Puzzangaro.
I mandanti
del
delitto
furono
individuati
in
Salvatore
Calafato,
di
Palma,
e
Salvatore
Parla
e
Giuseppe
Montanti,
di
Canicattì,
i
quali
obbedirono
ad
un
ordine
impartito
dal
carcere
di
San
Vito
da
Antonio
Gallea,
zio
di
Avarello
e
capo
della
stidda
di
Canicattì.
Accanto al
corpo
di
Livatino
venne
rinvenuta
un’agenda
in
cui
spiccava
la
sigla
STD.
Una
sigla
che
per
mesi
fece
scervellare
gli
inquirenti.
Che significava?
Alla
fine
fu
un
docente
universitario,
Giovanni
Tranchina,
a
risolvere
il
giallo.
Quella
sigla
sta
per
Sub
Tutela
Dei,
sotto
la
tutela
di
Dio,
e si
trova
vergata
in
tutte
le
agende
di
Livatino.
Sono
le
invocazioni
con
le
quali,
in
età
medievale,
si
impetrava
la
divina
assistenza
nell’adempimento
di
determinati
pubblici
uffici.
Ma, alla
data
del
1990,
quello
di
Livatino
non
era
il
primo
omicidio
commesso
su
quella
strada.
Qualche
chilometro
più
su,
in
contrada
Giulfo,
verso
Caltanissetta
–
anzi,
in
pieno
territorio
nisseno
-
giusto
un
paio
d’anni
prima
erano
stati
assassinati
il
giudice
Antonino
Saetta
e il
figlio
Stefano,
che
l’accompagnava.
Naturalmente
il
bersaglio
era
il
padre.
Il
figlio
condivise
per
caso
la
stessa
sorte
del
genitore.
Ora, spesso
si
parla
di
‘giudici’
usando
questo
termine
al
posto
di
‘magistrati’,
senza
differenziare
tra
pubblici
ministeri
e
giudici
giudicanti.
In
Italia,
ed
in
Sicilia
in
particolare,
a
cadere
sono
stati
quasi
sempre
i
pubblici
ministeri,
cioè
gli
uomini
che
indagavano,
gli
inquirenti,
quelli
che
incalzavano
e
incalzano
i
boss,
i
latitanti,
quelli
che
li
accusano
e li
trascinano
alla
sbarra,
Bruno
Caccia
e
Giangiacomo
Ciaccio
Montalto,
Mario
Amato
e
Rocco
Chinnici,
Vittorio
Occorsio
e
Giovanni
Falcone,
Paolo
Borsellino
e
Antonino
Scopelliti,
Francesco
Coco
e
Emilio
Alessandrini.
Saetta, viceversa,
non
era
uno
di
questi.
Sessantaseienne
canicattinese,
riservatissimo
(molti
in
città
non
sapevano
neanche
che
fosse
giudice),
schivo,
integerrimo,
competente
e
preparato,
era
il
Presidente
della
Corte
d’Appello
di
Palermo,
cioè
era
un
magistrato
giudicante.
Il
primo
– e,
finora
unico
-
ucciso
dalla
mafia.
La sera del
25
settembre
1988,
a
bordo
della
sua
Lancia
Prisma,
lasciò
la
sua
casa
di
Via
Vittorio
Emanuele
a
Canicattì.
Con
lui
c’era
il
figlio
Stefano,
trentacinquenne.
Il
giorno
prima
aveva
partecipato
al
battesimo
del
nipotino
Giovanni,
secondogenito
della
figlia
Gabriella.
La
Lancia
Prisma
si
immise
sulla
SS640.
Avevano
attraversato
il
‘ponte
obliquo’,
famoso
tra
gli
abitanti
della
cittadina.
A mano manca
la
chiesetta
della
Madonna
dell’Aiuto,
davanti
alla
quale
la
ente
si
fa
il
segno
della
croce
chiedendo
protezione
per
il
viaggio.
Il
cielo
era
coperto
di
nuvole
leggere,
alte,
in
balia
di
un
venticello
di
frontiera
che
le
frastagliava
e
raggrumava
a
velare
la
luna
piena.
Il
lucore
notturno
si
specchiava
sinistramente
sui
tendoni
delle
serre,
facevano
guizzare
di
argento
vaporoso
i
pampini
delle
viti,
modellando
strane
figure
scure
tra
i
campi.
L’auto viaggiava
veloce.
Nel
giro
di
poco
meno
di
due
ore
sarebbero
stati
a
Palermo.
Probabilmente
i
due
nell’abitacolo
parlavano
della
festa
del
giorno
prima,
di
dove
mettere
il
quadro
appena
prelevato
dall’appartamento
di
Via
Vittorio
Emanuele…
All’altezza
di
una
curva,
un’auto
di
grossa
cilindrata,
sbucata
chissà
da
dove,
ma
evidentemente
in
attesa,
a
fari
spenti,
all’imbocco
di
una
delle
tante
trazzère
laterali,
affiancò
la
Lancia.
Spararono,
colpendo
la
fiancata.
L’auto
di
saetta
sbandò,
tagliò
di
traverso
l’altra
carreggiata
e si
fermò
sul
ciglio
della
strada.
I
killer
non
persero
tempo,
scattarono
giù
prima
che
le
vittime
potessero
dire
o
fare
alcunché
e li
crivellarono
di
colpi.
Erano
le
22,40.
E i
due
copri
rimasero
lì
per
tutta
la
notte.
Solo l’indomani
un
passante
trovò
la
macchina,
vide
lo
scempio
e si
prese
la
briga
di
chiamare
i
carabinieri.
I corpi erano
riversi
nell’abitacolo,
Stefano
abbracciato
al
padre,
come
per
proteggerlo.
Lungo
la
strada
furono
rinvenuti
47
bossoli
di
calibro
9,
ma a
giudicare
dai
fori
sulla
lamiera
e
sul
quadro
trasportato
nel
bagagliaio,
i
colpi
sparati
dovevano
essere
almeno
il
doppio,
il
triplo.
Perché? Perché
la
mafia
decise
di
far
fuori
un
magistrato
così
schivo,
così
lontano
dalle
luci
della
ribalta,
dalle
cronache,
un
magistrato
che
emetteva
sentenze
corrette,
ponderate.
Beh,
proprio
per
questo
– si
potrebbe
dire:
emetteva
sentenze
giuste.
Ed
era
incorruttibile.
Ormai
è
chiaro
che
quell’omicidio
fu
il
frutto
della
collaborazione
tra
la
mafia
nissena
e
quella
palermitana.
Era stato il
capomafia
di
Canicattì,
Peppe
De
Caro,
poi
ucciso,
a
farsi
garante
nei
confronti
della
cupola
dell’esecuzione
del
delitto.
Ecco, Saetta
era
un
giudice,
un
servitore
dello
Stato,
come
sul
dirsi,
esemplare.
Competente,
lucido,
distaccato,
onesto
e
integerrimo.
E
questo,
a
Cosa
Nostra
non
andava
bene.
In
particolare
un
paio
di
sentenze
non
andarono
giù
alle
cosche
palermitane.
La prima fu
quella
che
chiuse
il
processo
d’appello
per
l’omicidio
di
Rocco
Chinnici.
Era
il
29
luglio
1983.
Come
ogni
mattina,
il
Consigliere
Istruttore
Chinnici
uscì
di
casa
e
salì
sull’auto
che
era
venuto
a
prenderlo.
A bordo, il maresciallo
dei
carabinieri
Mario
Trapassi
e
l’appuntato
Salvatore
Bartolotta,
la
scorta
del
magistrato.
Il
portiere
dello
stabile
di
via
Pipitone
Federico,
Stefano
Li
Sacchi,
in
piedi
davanti
al
portone
osservava
distratto.
Forse
fumando
una
sigaretta.
Appena il giudice salì,
un
boato.
Una
127
parcheggiata
lì
vicino
esplose.
Palermo
come
Beirut.
Chinnici,
gli
uomini
della
scorta
ed
anche
il
povero
portiere
vennero
dilaniati,
altre
17
persone
ferite.
Il processo che ne seguì
vide
alla
sbarra
i
due
–
incensurati,
fino
ad
allora
–
fratelli
greco,
Michele,
detto
‘il
papa’,
e
Salvatore,
detto
‘il
senatorè,
e
ancora
Vincenzo
Rabito
e
Luigi
Scarpisi.
A carico di questi ultimi
un
ambiguo
personaggio
libanese,
Bon
Chebel
Ghassan,
mosse
l’accusa
di
aver
procurato
le
armi
per
l’attentato.
La
sentenza,
com’è
ovvio,
venne
impugnata.
In
sede
di
appello,
a
Palermo,
la
Corte,
presieduta
da
saetta,
fece
una
cosa
straordinaria.
Anziché diminuire le
pene,
come
era
prassi
pressoché
normale,
confermò
gli
ergastoli
per
i
fratelli
Greco
e
addirittura
aumentò
da
15 a
22
gli
anni
di
galera
a
carico
di
Rabito
e
Scarpisi:
per
loro
era
scattata
anche
l’aggravante
della
procurata
strage.
Successivamente, la sentenza
d’appello
venne
annullata
dalla
Cassazione
e
rinviata
davanti
alla
Corte
d’Assise
d’Appello
di
Messina,
ma
Cosa
Nostra
ormai
aveva
capito
dove
stava
il
nemico:
a
Palermo.
E
qual
era
il
suo
nome:
Antonino
Saetta.
Ma non finisce qui.
Il 4 maggio, a Monreale
è la
festa
del
Santissimo
Crocifisso,
una
festa
patronale,
malto
sentita
e
partecipata
dai
monrealesi.
Nel 1980 in città risiedeva
anche
un
giovane
capitano
dei
carabinieri,
Emanuele
Basile.
Basile
era
tarantino,
avrebbe
compito
31
anni
il
successivo
2
luglio
e da
tre
anni
comandava
con
piglio
sicuro
la
locale
stazione
dell’Arma.
Aveva
ereditato
il
lavoro
del
colonnello
Russo
e,
soprattutto,
di
Boris
Giuliano,
ucciso
poco
meno
di
un
anno
prima,
il
21
luglio
1979.
La sera della festa uscì,
insieme
alla
moglie
e
con
in
braccio
la
figlia
di 4
anni,
Barbara,
dalla
sede
del
municipio,
dove
si
era
tenuto
un
ricevimento.
Stavano andando a vedere
i
fuochi
artificiali,
che
alla
piccola
piacevano
tanto.
Poi,
tutti
a
nanna,
in
caserma.
Ma,
in
caserma
Emanuele
Basile
non
ci
arrivò
mai.
E
Barbarella,
per
quell’anno,
non
vide
i
fuochi.
Un
killer
li
raggiunse
mentre
percorrevano
Via
Pietro
Novelli
e
sparò
addosso
al
capitano
sei
colpi
di
pistola.
Per quel delitto finirono
in
carcere
Giuseppe
Madonia,
Vincenzo
Puccio,
Armando
Bonanno.
Giovanni
Brusca,
l’autista
del
commando,
sarebbe
stato
arrestato
anni
dopo.
I
mandanti,
i
soliti
Riina
e
Michele
Greco.
Anche
in
questo
caso
la
sentenza
di
primo
grado
venne
impugnata.
La prima volta la Corte
d’Assise
d’Appello
(non
presieduta
da
Saetta)
emise
un’ordinanza
con
la
quale
si
disponeva
una
perizia
sulla
terra
trovata
nelle
scarpe,
praticamente
rinunciava
all’incarico.
La seconda volta, la
stessa
Corte
(anche
questa
volta
non
presieduta
da
Saetta)
assolse
i
tre
imputati
con
l’incredibile
motivazione
che
‘c’erano
troppe
provè.
La
terza
volta
era
andata
meglio:
la
Corte
li
aveva
condannati,
ma
la
Cassazione
(erano
i
tempi
del
benemerito
Corrado
Carnevale)
ne
annullò
la
sentenza
“per
un
errore
di
data
nel
decreto
per
l’estrazione
dei
giudici
popolari”.
Fu dunque dopo questo
rosario
di
verdetti
favorevoli
che
il
caso
capitò
tra
le
mani
di
Saetta.
E il
23
giugno
1988
ci
fu
la
condanna.
Sorprendente
per
la
mafia.
E
che
ci
fossero
state
pressioni
ed
intimidazioni
è
cosa
pacifica,
se
solo
si
pensa
che
allorché
la
stessa
sentenza
venne
annullata
dalla
Cassazione
e la
Corte
d’Assise
di
Palermo
dovette
rioccuparsi
del
processo,
il
giudice
che
sostituì
Saetta,
Antonio
Scaduto,
denunciò
alla
Commissione
Antimafia
“una
velata,
ma
pesante
intimidazione”.
Insomma, Cosa Nostra ci
teneva
a
quel
processo.
Sentiva
che
quello
poteva
rappresentare
l’inizio
di
una
perdita
di
terreno
nei
confronti
dello
lo
Stato.
Ma oltre alla vendetta,
c’era,m
con
tutta
probabilità,
anche
la
precauzione.
Ci
si
voleva
liberare,
del
giudice
che
avrebbe
potuto
occuparsi
dell’appello
per
il
maxiprocesso
(chiuso,
in
primo
grado,
nel
dicembre
‘87).
Insomma
ci
si
voleva
preparare
il
terreno
e,
perché
no?,
intimidire
gli
altri
magistrati
giudicanti.
Invece, la sentenza definitiva
della
cassazione
per
il
duplice
omicidio
Saetta
giunse
il
14
novembre
1992.
Ma
nel
frattempo
qualcosa
era
cambiato
e
qualcuno
non
c’era
più.
Anche
tra
gli
assassini.
Di
Armando
Bonanno
si
persero
le
tracce,
probabilmente
vittima
della
lupara
bianca;
Vincenzo
Puccio
venne
ucciso
a
colpi
di
bistecchiera
in
testa
in
una
cella
dell’Ucciardone
il 9
maggio
1989.
Per quella carneficina
vennero
condannati,
con
sentenza
della
Corte
d’Assise
d’Appello
di
Palermo
dell’8
gennaio
2003,
Totò
Riina,
Francesco
Madonia
e
Pietro
Ribisi.
Oggi, sui luoghi dei due
delitti
sorgono
altrettanti
monumenti
commemorativi.
Il
primo,
dedicato
a
Rosario
Livatino,
si
trova
all’uscita
di
Agrigento,
in
contrada
Gasena,
appunto.
È
ben
visibile
da
entrambi
i
lati
della
SS640,
di
notte
si
dovrebbe
illuminare.
È
formato
da
una
larga
base
marmorea,
sulla
quale
è
collocata
una
sezione
di
piramide
al
centro
della
quale
si
innalzano,
verticalmente,
cinque
lastre
di
marmo:
uguali
per
lunghezza
tanto
le
due
esterne,
le
più
basse,
che
le
due
intermedie,
le
mediane.
Al centro la più alta e
sopra
di
essa
una
croce.
Il
tutto
circondato
da
fiori,
lumini.
E
poi,
d’attorno,
un
piccolo
prato
verdissimo
che
contrasta
con
il
giallo
arso
della
piana
e
due
cespugli
sempreverdi,
ben
curati,
tondeggianti.
Al centro della base una
lapide
ricorda:
“A
Rosario
Livatino,
Magistrato.
Martire
per
la
Giustizia.
21.9.1990”.
In suo onore è stata
costituita,
per
la
volontà
tenace
della
sua
ex
insegnante
di
latino
e
greco,
la
prof.ssa
Ida
Abate,
l’
“Associazione
degli
amici
del
giudice
Livatino”.
Ma non solo. Al IV Congresso
Ecclesiale
Nazionale,
tenutosi
a
Verona
dal
16
al
20
ottobre
2006,
Livatino
fu
il
testimonial
della
Regione
Sicilia.
È stato avviato anche un
processo
di
beatificazione.
A
lui
sono
dedicati
scuole,
vie,
organizzazioni,
associazioni,
centri
studi,
premi
internazionali.
Da
Palermo
a
Roma,
da
Quartu
Sant’Elena
a
Bari,
da
Cosenza
a
Reggio
Emilia.
Il monumento dedicato ad
Antonino
Saetta
si
trova
più
in
là,
verso
Caltanissetta,
in
contrada
Giulfo.
Anche
in
questo
caso,
sul
luogo
del
delitto.
Si
tratta
di
un
basamento
in
marmo,
su
cui
è
posto
un’altra
basa
quadrangolare
con
al
centro
una
colonna
volutamente
spezzata.
Alla base della colonna
la
scritta
“Al
giudice
Saetta
e al
figlio.
25.9.1988”.
È
tutto.
Spoglio,
disadorno,
il
marmo
è
ingiallito,
in
punti
spaccato,
mancante
in
un
angolo.
Non
solo.
Trovandosi in prossimità
di
una
curva
pericolosa,
è
difficilmente
visibile.
Ma
non
basta.
Anche
per
raggiungerlo
occorre
percorrere
circa
quattro-cinquecento
metri
tra
il
seccume
dell’erba
arsa
e il
terreno
incolto.
Ecco,
a
parte
un
gruppo
su
facebook
dedicato
a
lui
ed a
Livatino,
ed
altrettante
vie
a
intitolategli
a
Palermo,
Agrigento
e
Roma,
non
risulta
null’altro.
Sembra
quasi
dimenticato.
Nessuno sembra volerlo
ricordare,
ricordare
il
suo
rigore,
la
sua
onestà,
quella
cosa
che
– ne
sono
convinto-
rappresenta
l’unico
salvagente
per
un’Italia,
quella
attuale,
annaspante
tra
i
marosi:
il
senso
del
dovere.
Una figura alta, fastidiosa?
O è
la
nostra
memoria
corta?
Una memoria che si nutre
solo
di
faville
emotive
come
per
un
giovane
magistrato
morto,
ma è
incapace
di
valorizzare
razionalmente
la
figura
di
un
uomo
maturo,
esperto
e
schivo.
E dire che quelli di
Saetta
furono
gli
unici
funerali
a
cui
partecipò,
accanto
al
Presidente
della
Repubblica,
ai
ministri
Vassalli
e
Mattarella,
al
Presidente
dell’ARS
Lauricella,
il
CSM
al
completo.
Non
era
mai
accaduto
prima.
Non
sarebbe
accaduto
mai
più.
Neanche
dopo
le
stragi
del
1992.