N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
IL PRIMO DELLA LISTA
L’omicidio eccellente di Giovanni Corrao alle origini dello Stato unitario
di Giuseppe Tramontana
La sicurezza del potere si fonda
sull’insicurezza
dei
cittadini.
(L.
Sciascia,
Il
cavaliere
e la
morte)
Negli
ultimissimi
tempi
il
generale
Giovanni
Corrao
usciva
di
casa
solo
con
il
bel
tempo
e
solo
per
andare
nel
suo
podere
di
San
Ciro,
appena
fuori
il
quartiere
–
oggi
popolatissimo
– di
Brancaccio,
a
Palermo.
Non
era
vecchio,
il
generale.
Aveva
appena
quarantuno
anni,
ma
quante
ne
aveva
passate.
Lotte,
battaglie,
fucilate,
ferite,
marce
forzate,
fughe
notturne
per
terra
e
per
mare.
Ma
aveva
fatto
tutto
per
scelta,
per
rigore
morale
e
per
un’idea
che
continuava
a
frullargli
incessantemente
in
testa:
libertà
e
giustizia
per
il
popolo.
Era
alto,
il
generale,
alto
e
massiccio,
ben
piantato.
Con
una
bella
barba
nera
ad
incorniciare
un
viso
scurito
dal
sole,
sul
quale
fiammeggiavano
due
occhi
di
ebano
smaltato.
Un
diavolaccio,
sembrava.
Tutte
le
mattine,
accompagnato
dal
fedele
Gasparino,
il
tuttofare,
saliva
sul
calesse
e si
recava
in
campagna.
Aveva
deciso
di
intraprendere
la
via
dell’agricoltura.
O
almeno,
così
sembrava.
Eppure,
per
la
maggior
parte
della
gente,
dei
palermitani,
ma
anche
degli
uomini
delle
istituzioni,
il
generale
continuava
a
tenere
le
fila
delle
trame
rivoluzionarie
che
si
annodavano,
disfacevano
e
modellavano
in
Sicilia,
da
Catania
a
Trapani,
da
Siracusa
e
Ragusa
a
Palermo.
E
per
questo
era
finito,
ancora
una
volta,
nell’occhio
del
ciclone,
pochi
mesi
prima,
nell’aprile
del
1863.
Era
stato
arrestato
con
la
ridicola
accusa
di
essere
a
capo
di
una
comarca
aristocratico-borbonica
(nientedimeno!)
che
stava
progettando
un
moto
rivoluzionario
in
Sicilia.
Borbonico?
E
come
poteva
essere?
Il
generale,
insieme
all’amico
fraterno
Rosolino
Pilo,
era
stato
il
perseguitato
numero
uno
del
regime
napoletano.
Era
stato
lui
a
preparare
l’insurrezione
dell’aprile
’60,
quella
che
sarebbe
stata,
a
sua
volta,
l’apripista
dello
sbarco
dei
Mille.
Lui,
il
‘generale
dei
picciotti’
come
era
conosciuto
in
città?
Mille
volte
arrestato,
mille
volte
esule,
mille
volte
derubato
dell’affetto
della
moglie
e
del
figlio,
delle
amicizie,
di
una
vita
tranquilla
per
inseguire
un
sogno,
un
sogno
e
una
speranza,
una
speranza
di
giustizia
sociale
e di
dignità
per
tutti
i
siciliani,
soprattutto
i
più
poveri
e
soli,
quelli
abituati
da
secoli
a
masticare
fiele
e
miseria.
Non
era
successo
niente,
alla
fine.
Era
stato
liberato
quasi
subito.
Le
accuse
inconsistenti.
Eppure
era
stata
l’occasione
per
tastare
il
polso
dei
palermitani.
Infatti,
erano
scesi
in
piazza,
a
suo
sostegno,
a
rivendicare
la
sua
liberazione.
Lui
non
aveva
battuto
ciglio.
Non
si
era
nemmeno
arrabbiato,
non
si
era
nemmeno
addolorato.
In
un
certo
qual
modo,
se
lo
aspettava.
Non
erano
bei
tempi
quelli.
Nulla
di
nuovo.
Ormai
aveva
capito.
Non
che
lui
fosse
esente
da
colpa,
beninteso,
ma
coi
borbonici
proprio
no!
Dopo l’avventura in Aspromonte,
insieme
a
Garibaldi,
colui
che
lo
aveva
nominato
generale
di
brigata
sul
campo,
era
tornato
in
Sicilia.
Era
stato
l’unico
a
sparare
in
quell’occasione
contro
i
bersaglieri
ed
era
rimasto
anche
ferito
ad
un
braccio.
Il
Generale
era
stato
ferito
anche
lui.
Alla
coscia
sinistra
ed
al
malleolo
destro.
Era
stato
un
tenentino,
pare,
a
colpirlo.
Un
tal
Luigi
Ferrari
che
il
30
settembre
di
quello
stesso
1862
venne
insignito
della
medaglia
d’oro.
Una
medaglia
d’oro
per
aver
ferito
Garibaldi!
A
tanto
eravamo
arrivati.
E
lui,
invece,
Corrao,
aveva
dovuto
accettare
l’umiliazione
della
retrocessione
a
colonnello
pur
di
entrare
nell’esercito
sabaudo,
dopo
l’impresa
delle
imprese:
la
consegna
del
Mezzogiorno
a
Vittorio
Emanuele
II.
Ma
era
durato
poco
con
quella
divisa
azzurra
che
gli
ingessava
anche
i
pensieri
in
testa
e la
speranza
nel
cuore:
si
era
dimesso.
Tante
grazie
e
arrivederci,
io
torno
a
fare
il
mio
mestiere
di
utopista,
illuso
e
integerrimo,
torno
alla
mia
missione
di
repubblicano
idealista.
Senza
compromessi.
Senza
nostalgie.
Dopo i fatti d’Aspromonte,
durante
l’inverno
del
1862
e la
primavera
e
l’estate
seguenti,
l’agitazione
politica
contro
il
governo
aveva
assunto
aspetti
nuovi
e
sempre
più
ambigui,
oscuri.
In
quella
fase,
attorno
all’ex
generale
garibaldino,
esponente
–
possiamo
dire
–
della
sinistra
repubblicana
garibaldina,
si
erano
venuti
a
raccogliere
quanti
erano
stati
maggiormente
colpiti
dall’azione
del
governo
e
tutti
coloro
che,
nel
riacceso
antagonismo
con
i
‘Piemontesi’,
mal
sopportavano
l’infamia,
come
si
diceva
in
giro,
di
cui
si
era
voluta
macchiare
la
Sicilia.
Una
Sicilia,
una
Palermo
– lo
vedeva
tutte
le
mattine,
il
generale,
recandosi
in
calesse
in
campagna
–
che
appariva
abbandonata
a se
stessa,
senza
prospettive,
senza
futuro.
I
bambini
scalzi,
a
torso
nudo
che
correvano
tra
i
vicoli,
saltellando
tra
sterpaglie
e
rifiuti,
le
famiglie
costrette
a
vivere
come
animali,
assieme
alle
bestie,
in
casupole
basse,
scure,
luride,
dove
il
sole
aveva
persino
vergogna
ad
entrare.
Cosa era cambiato per
loro,
per
questi
poveracci,
si
chiedeva
Corrao.
Cosa
aveva
portato
l’Unità
alla
Sicilia
più
misera?
Dov’era
stato
il
vantaggio,
nel
cambiare
governo,
anzi
padrone?
Era
inquieto
il
generale,
si
passava
una
mano
tra
la
barba
luciferina,
scrutava
le
vie
pullulanti
di
vita
miserabile,
oscena.
Per
i
poveri,
nulla
era
cambiato.
E i
ricchi,
i
potenti,
i
cappeddi
erano
ancora
al
potere,
erano
ancora
loro
i
padroni.
E
l’uguaglianza
dove
stava?
Ciò
non
significava
tornare
in
dietro,
ai
Borboni,
ma,
al
contrario,
andare
oltre,
verso
la
giustizia
sociale,
verso
il
governo
di
tutti,
del
popolo
–
davvero
del
popolo.
Insomma,
verso
la
repubblica.
Intanto,
in
tutto
il
Sud
esplodeva
quello
che
veniva
chiamato
il
brigantaggio
e
anche
la
Sicilia
dava
segni
di
insofferenza.
Era
stato
lui,
insieme
a
Giuseppe
Badia
ed a
Carlo
Tresselli,
ad
aver
intensificare
l’attività
cospirativa.
Ma
era
difficile.
Tutto
difficile.
A
questo
si
aggiungevano
i
lavorii
sottotracia
del
governo
che
metteva
in
giro
voci
di
finte
congiure
per
poter
criminalizzare
la
sinistra
e
poterla
prima
isolare
e
quindi
attaccare
e
decapitare.
Cento
anni
dopo,
gli
italiani
avrebbero
scoperto
questo
modo
perverso
di
agire
delle
istituzioni
e
gli
avrebbero
dato
anche
un
nome:
strategia
della
tensione,
l’avrebbero
chiamata.
Un paio d’anni prima,
nel
1861,
un
moderato
come
il
conte
Diomede
Pantaleoni,
in
una
lettera
a
Bettino
Ricasoli
non
aveva
nascosto
il
possibile
ricorso
a
forze
borboniche
e
filo-borboniche
e
persino
agli
‘accoltellatori’
per
screditare
il
movimento
repubblicano.
Così
era.
E
che
dire
del
fatto
che
nel,
dicembre
del
’60,
il
luogotenente
in
Sicilia
del
governo
piemontese,
Massimo
Cordero
di
Montezemolo,
aveva
teorizzato
il
ricorso
ad
agenti
provocatori
per
spingere
verso
insurrezioni
che
sarebbero
state
l’occasione
per
repressioni
successive.
Così
era
nato
il
nuovo
stato,
un
bello
stato,
non
c’era
che
dire!
Quante
fatiche,
quanti
pericoli,
quanto
sangue,
a
cominciare
da
quello
di
Rosolino,
il
conte
di
Capaci,
colpito
alla
nuca
dal
piombo
borbonico.
E
poi
Milazzo,
Melito,
il
Volturno.
E
l’Aspromonte,
il
generale,
le
ferite,
il
fango,
le
fucilate
e le
baionette
savoiarde.
Le cose non si mettevano
bene,
lo
sapeva
il
gigante
garibaldino,
ma
bisognava
andare
avanti,
credere
ancora
alla
possibilità
di
uscire
dalla
miseria,
dalla
soggezione.
A
gennaio
il
ministro
dell’Interno
aveva
ricevuto
rapporti
che
parlavano
di
una
setta
repubblicana
di
Palermo
guidata
dal
sacerdote
Pantaleo,
che
aveva
stretto
rapporti
coi
borbonici
per
insidiare
il
governo.
E, a
giugno,
il
comandante
dei
regi
carabinieri
di
Misilmeri
aveva
scritto
che
il
segretario
comunale,
un
associato
della
setta
di
Pantaleo,
stava
tramando
contro
il
governo
assieme
al
colonnello
garibaldino
Carlo
Tresselli
e al
socialista
Saverio
Friscia.
Ma
lui,
Corrao,
la
pensava
diversamente.
Pensava
che
l’insurrezione
magari
ci
voleva,
ma
doveva
essere
popolare.
Popolare
e
repubblicana.
Per
scalzare
i
vecchi
interessi
e le
vecchie
classi,
i
vecchi
pescecani
che
avevano
cambiato
bandiere
e
divise,
ma
continuavano
a
vampirizzare
i
poveri
cristi.
Un
nuovo
Stato
ci
voleva:
democratico,
giusto,
solidale,
libero
e
civile.
Il 1° marzo Corrao e
Badia
avevano
partecipato
a
una
dimostrazione
repubblicana
nella
chiesa
di
San
Domenico
a
Palermo,
a
sostegno
della
recente
rivolta
polacca.
In
effetti,
il
governo
era
stato
messo
in
allarme
da
alcuni
discorsi
che
chiedevano
una
marcia
su
Roma.
Il
13
marzo
era
stato
così
ordinato
l’arresto
degli
esponenti
di
punta
dei
repubblicani.
Un
cugino
dello
stesso
Corrao
–
così
aveva
denunciato
un
informatore
della
polizia,
tal
Andrea
Di
Salvatore
-
aveva
tentato
di
formare
a
Monreale
delle
bande
armate
per
invadere
Palermo
con
l’aiuto
degli
inglesi.
E il
10
marzo
il
capo
della
polizia
di
Monreale
aveva
riferito
che
gli
abitanti
della
cittadina
stavano
raccogliendo
polvere
da
sparo
e
cartucce
in
vista
di
un’insurrezione.
Insomma,
c’era
fermento
tra
la
popolazione.
Proprio
in
quei
giorni
c’era
stato
il
caso
dei
pugnalatori:
13
persone
pugnalate
contemporaneamente.
Un
progetto
eversivo,
che,
secondo
gli
investigatori,
aveva
nel
senatore
del
Regno
Vito
Reggio
D’Ondes
la
mente
e
l’eminenza
grigia.
Poi
l’attività
del
generale
si
era
svolta
a
Misilmeri
e
Bagheria
per
organizzare
l’esercito
di
renitenti
alla
leva
militare.
Erano tanti, tantissimi.
E
tutti
delusi
e
inferociti,
traditi
da
uno
Stato
che
aveva
promesso
pane
e
libertà
e
regalava
miseria
e
schiavitù.
Il 4
aprile
queste
bande
avrebbero
invaso
Palermo,
ma
poi
non
se
ne
fece
nulla:
erano
stati
scoperti.
Ma
quelli
non
erano
i
soli
movimenti
sediziosi
presenti
in
zona.
Analoghe
attività
si
registravano
a
Borgetto,
a
Toretta,
a
Cinisi,
a
Carini.
Tutti
centri
situati
in
posizione
strategica
rispetto
alla
Capitale.
Si
diceva
che
il
generale
stesse
tentando
di
prendere
contatti
con
borbonici
e
inglesi
per
provocare
insurrezioni
a
Partinico.
Sospirava Corrao, pensando
a
tutto
questo
e,
probabilmente,
a
molto
altro.
Ormai
aveva
smesso
la
camicia
rossa.
Almeno
formalmente,
visto
che
per
tutti
lui
restava
il
generale
di
Garibaldi,
l’amico
di
Pilo,
l’eroe
impavido
esule
a
Marsiglia,
Genova,
Malta
(dove,
per
inciso,
aveva
conosciuto
Rosolino).
La
camicia
adesso
la
portava
bianca,
candida.
Ma
non
è
l’abito
che
fa
il
monaco.
La
rivoluzione
gli
bolliva
in
petto,
negli
occhi,
nelle
poche
parole
che
ancora
pronunciava.
Sapeva,
Corrao,
che
la
sua
attività
era
seguita,
monitorata,
dalle
spie
del
governo
italiano.
E le
sue
iniziative,
i
suoi
contatti
preoccupavano,
in
alto
loco.
Si
dicevano
tante
cose
sul
suo
conto:
che
stesse
convincendo
gli
inglesi,
che
avesse
preso
contatto
con
i
notabili
ex
filo
borbonici,
che
stesse
organizzando
le
bande
dei
renitenti
alla
leva.
Addirittura
c’era
stato
il
Procuratore
generale
di
Palermo
che
aveva
scritto
che
lui
andava
in
giro
“parlando
ai
Borbonici
il
linguaggio
borbonico,
ai
Mazziniani
quello
mazziniano,
ai
briganti
quello
dei
malfattori,
e
dando
per
incoraggiarli,
speranze
a
tutti
di
disordini,
di
arrivo
di
Garibaldi,
di
vascelli
inglesi
ecc.
ecc.”.
Il
29
aprile
era
stato
anche
arrestato
in
relazione
ai
famosi
casi
dei
‘pugnalatori’.
Ma lui che c’entrava?
Nulla.
E
infatti
era
stato
rilasciato
poco
dopo.
Intanto,
le
cose
si
stavano
mettendo
male.
Complice
anche
il
fenomeno
del
brigantaggio,
il
governo
aveva
rotto
gli
indugi
e
nel
maggio
di
quello
stesso
1863
il
ministero
dell’Interno
aveva
affidato
al
generale
Giuseppe
Govone
l’incarico
non
solo
di
catturare
i
renitenti,
ma
anche
di
arrestare
molti
altri
autori
di
reati,
perfino
quelli
per
i
quali
non
esisteva
un
mandato
ufficiale
di
arresto.
Ma,
com’era
prevedibile,
queste
misure
non
avrebbero
portato
a
nulla.
E
allora
–
com’era
altrettanto
prevedibile
– la
campagna
avrebbe
subito
una
recrudescenza
fino
ad
arrivare,
nel
dicembre
1863,
come
disse
il
generale
Della
Rovere,
a
stendere
un
cordone
militare
intorno
a
una
comunità,
per
entrare
quindi
nelle
case
dei
sospetti
renitenti
e,
nel
caso
non
si
presentassero,
porre
le
abitazioni
sotto
costante
sorveglianza.
Come
estrema
risorsa,
si
sarebbe
proceduto
ad
arrestare
i
famigliari
dei
renitenti.
Corrao pensava, soppesava,
rimuginava
inquieto.
Un
mese
prima,
a
luglio,
nel
cuore
dell’estate
siciliana,
le
operazioni
militari
avevano
preso
avvio
su
scala
ancora
maggiore.
Le
campagne
della
Sicilia
interna,
inzuppata
nel
giallo
arso
della
restuccia
era
intessuta
dell’azzurro
delle
giubbe
militari
piemontesi.
Lenti
uomini
zavorrati,
sudati,
sotto
il
sole
cocente,
si
muovevano
in
lunghe
file
scure
come
formiche
sofferenti
e
implacabili.
Da
Caltanissetta
e
Girgenti
arrivavano
notizie
di
assedi.
A un
certo
punto,
Caltanissetta
era
stata
bloccata
da
un
cordone
militare,
mentre
più
di
duemila
soldati
ravanavano
alla
ricerca
di
renitenti.
E
sarebbe
stato
sempre
peggio:
il
15
agosto
la
Legge
Pica,
pensata
per
combattere
il
brigantaggio,
sarebbe
stata
estesa
alla
Sicilia
e
negli
stessi
giorni
le
operazioni
sarebbero
state
spostate
a
Trapani
e
Palermo,
anche
se
quattro
colonne
mobili
sarebbero
state
lasciate
a
pattugliare
le
campagne
di
Girgenti.
Trapani,
Menfi,
Salemi,
Castelvetrano
sarebbero
state
circondate
dalle
truppe
sabaude,
mentre
una
diga
di
divise
azzurre
lunga
una
quarantina
chilometri
avrebbe
isolato
Alcamo
e
Castellammare…
Era
chiaro
che,
nel
corso
di
quelle
operazioni
del
’62
e
’63,
si
stava
manifestando
una
prassi
che
si
sarebbe
ripresentata
nelle
campagne
successive:
la
mancanza
di
consenso
per
il
governo,
lo
costringeva
a
continuare
ad
accrescere
i
propri
poteri,
sia
sulle
amministrazioni
locali
che
sulle
autorità
giudiziarie.
E
più
aumentava
la
repressione
più
cresceva
l’odio
per
il
governo,
per
lo
Stato,
per
i
Savoia.
Un cane che si mordeva
la
coda
e
che
produceva,
come
unico
risultato,
l’isolamento
dell’Isola
e la
sua
regressione
ad
uno
stato
di
barbarie.
Tentare
di
risolvere
i
problemi
sociali,
politici,
economici
solo
ed
esclusivamente
con
misure
di
ordine
pubblico
non
sembrava
una
mossa
lungimirante.
E si
sarebbe
rivelata
a
dir
poco
catastrofica.
Sapeva
tutto
questo
il
generale
Corrao.
Lo
sapeva
e ci
pensava
spesso.
E ci
stava
pensando
su,
probabilmente,
anche
in
quel
3
agosto
1863,
quando,
al
calare
del
sole,
sul
solito
calesse
accanto
a
Gasparino,
stava
ritornando
a
casa
dal
podere
di
San
Ciro.
Non
si
accorse,
infatti,
delle
due
canne
di
lupara
che
sbucavano
dai
rami
di
un
albero
o,
forse,
da
dietro
una
siepe.
I
lampi
si
persero
nella
luce
accecante
dell’estate
palermitana,
i
colpi
ruppero
il
manto
compatto
del
frinire
dei
grilli.
Colpito
al
petto,
Corrao
cadde
dal
calesse,
bocconi.
Morì
quasi
subito,
nonostante
il
soccorso
di
Gasparino.
Morì
guardando
quel
cielo
azzurro
cobalto
che
lentamente
si
faceva
nero,
dentro
di
sé.
Chi lo uccise? Non si
seppe
mai.
Anche
se
parecchi
elementi
facevano
pensare
– e
negli
anni
i
sospetti
si
sono
rafforzati
–
che
ci
fosse
lo
zampino
del
governo
centrale,
impaurito
dalla
figura
di
Corrao,
possibile
capo
di
un’insurrezione
su
larga
scala.
Infatti,
solo
poco
meno
di
un
mese
avanti,
nel
luglio
del
’63,
qualche
informatore
affermava
che
“in
Sicilia
ancora
si
cospira,
ma
in
senso
autonomista.
Gli
uni
speculano
sugli
altri:
i
Siciliani
sul
moto
del
Continente,
i
Bertoniani
sul
moto
di
Sicilia.
Mi
assicurano
che
Corrao,
il
quale
trovasi
ora
a
Cefalù,
sarebbe
alla
testa
del
moto.
Il
comitato
siederebbe
a
Monreale
e i
soci
si
troverebbero
a
Gibilrossa,
a
tre
miglia
e
mezzo
da
Parlemo.
Parlano
di
500
associazioni
principali
a
Palermo
e
contorni;
Caltanissetta
si
offrirebbe
spontanea;
Messina
si
rifiuterebbe,
ma
Pancaldo
sarebbe
col
moto;
a
Catania
vi
sarebbe
del
marcio
nella
Guardia
Nazionale,
nella
quale
vi
sarebbero
una
cinquantina
de’
più
ardenti.”
Si
saprebbe
addirittura
la
data
dell’insurrezione
(“
Il
moto
sarebbe
dal
29
agosto
al 3
settembre.”)
e le
modalità
di
comunicazioni
tra
gli
insorti:
“Si
farebbero
i
segnali
-
aggiungeva
l’informatore
-
tre
giorni
prima
sulle
colline
che
da
Palermo
si
stendono
fin
verso
Catania.
Questi
segnali
formerebbero
un
telegrafo
numerico
a
tela,
composto
da
bandiere
colorate
scure,
il
numero
delle
quali
denoterebbe
le
comunicazioni
che
si
manderanno”.
Insomma,
faceva
paura
Corrao.
E
così
liquidarlo
poteva
essere
una
mossa
azzeccata
e
previdente
per
decapitare
l’insorgente
moto
rivoluzionario.
E
con
lui
sarebbero
morti
alleanze,
aiuti,
contatti,
illusioni.
Le indagini vennero avviate
e
chiuse
subito.
Negli
atti,
per
la
prima
volta
nella
storia
dell’Italia
unita,
venne
usato
il
termine
mafia
(per
rincontralo,
scritto
nero
su
bianco,
in
un
atto
pubblico,
bisognerà
aspettare
il
1973!).
I
sicari
mai
trovati.
Ma,
nel
corso
dell’inchiesta
fu
singolare
quanto
raccontò
una
signora
che
abitava
in
un
podere
che
dava
sulla
trazzera
in
cui
era
stato
ucciso
il
generale.
Raccontò
la
signora
un
fatto
strano:
nei
giorni
precedenti
aveva
visto
un
paio
di
uomini,
due
cacciatori,
con
tanto
di
fucile
in
spalla
e
tipico
abbigliamento
da
caccia,
aggirarsi
tra
quelle
campagne,
come
alla
ricerca
di
qualcosa,
se
di
selvaggina
o
d’altro,
la
donna
non
sapeva
dire.
Fatto
sta,
però,
che
lei
aveva
riconosciuto
gli
stessi
cacciatori,
questa
volta
in
divisa
da
carabinieri,
sul
luogo
del
delitto
subito
dopo
l’assassinio.
La
signora
raccontò
tutto
agli
inquirenti,
ma
la
cosa
non
ebbe
seguito.
Sette giorni dopo, il 10
agosto,
giunse
una
lettera
a
Carlo
Tresselli.
La
lettera
proveniva
da
Caprera:
era
di
Garibaldi.
“Amara
giunse
al
mio
cuore
–
scriveva
il
Generale
–
la
morte
inaspettata
del
prode
mio
compagno
d’armi
Giovanni
Corrao.
Egli
meritava
una
fine
più
gloriosa,
e la
sua
vita
consacrata
al
bene
d’Italia
non
doveva
essere
spenta
dalle
mani
d’un
vile
assassino!
Il
popolo
di
Palermo
ricorderà
con
orgoglio
questo
prode
soldato
la
cui
esistenza
è
intimamente
legata
alla
gloriosa
epopea
delle
sue
ultime
rivoluzioni.”
Così
Garibaldi.
E i palermitani, due
giorni
appresso,
non
fecero
mancare
il
loro
affetto.
Migliaia
e
miglia
di
persone,
moltissimi
provenienti
dal
circondario
del
capoluogo,
accompagnarono
il
feretro
di
Corrao,
commossi.
Alcuni
avrebbero
voluto
esequie
solenni
nella
chiesa
di
San
Domenico,
il
pantheon
palermitano,
la
stessa
chiesa
in
cui,
giocoforza,
avrebbe
dovuto
trovare
posto
la
salma
del
generale,
magari
accanto
all’amico
Rosolino
Pilo.
Ma
così
non
fu.
Troppo
ingombrante
quell’uomo,
per
la
Chiesa,
troppo
garibaldino
e
mangiapreti.
Niente
esequie
religiose
per
lui,
niente
San
Domenico.
Venne
portata
al
Monastero
dei
Cappuccini,
invece,
nelle
cui
catacombe
venne
imbalsamata
e
successivamente
interrata,
come
disposto
da
una
delibera
municipale.
La
mummia
venne
scoperta
durante
dei
lavori
di
ristrutturazione
molti
anni
dopo
e
nella
catacomba
rimase
fino
al
21
maggio
1960,
quando,
in
occasione
delle
celebrazioni
ufficiali
del
Centenario
dell’unità
d’Italia,
furono
richiesti
ed
effettuati
solenni
funerali
celebrativi
prima
che
trovasse
finalmente
posto
nel
chiostro
di
quello
stesso
Pantheon
palermitano
negatogli
cent’anni
prima.
Invece, di chi sia stato
a
volere
la
sua
morte,
ancora
non
si
sa
nulla.
Anche
se,
sembra
non
azzardata
la
lettura
che
nel
corso
del
Novecento
illustri
storici
come
Pantano,
Alatri,
Brancato,
Riall,
Lupo,
Recupero
hanno
fornito:
fu
un
omicidio
pensato
e
pianificato
nelle
stanze
ministeriali.
Un omicidio eccellente,
praticamente.
Anzi,
il
primo
omicidio
eccellente.
Per
commettere
il
quale
si
erano
intrecciati
interessi
politici
inconfessabili,
repressione
delle
lotte
sociali,
protagonismo
mafioso,
insabbiamenti
giudiziari.
Come
dire?
Fatto
lo
Stato,
creato
l’anti-Stato.
E,
nei
successivi
150
anni,
gli
italiani
avrebbero
avuto
modo
di
conoscere
molto
bene
queste
pratiche,
dall’eliminazione
di
personaggi
scomodi
(giudici,
giornalisti,
politici,
sindacalisti)
alle
stragi
senza
colpevoli,
dalle
agende
rosse
scomparse,
alle
varie
logge
P2,
P3,
P4:
dalla
ragion
di
Stato
alla
ragion
corrotta…
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