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N. 75 - Marzo 2014 (CVI)

L’OMBRA LUNGA DEL FASCISMO
DALLA SLOVENIA ALLA SICILIA

di Gaetano Cellura

 

Prima d’essere incaricato della sorveglianza di Mussolini sul Gran Sasso, l’ispettore generale Giuseppe Gueli aveva svolto sin dal 1942 attività di repressione nella Venezia Giulia contro le bande slave. Per “infrenarne” (scrisse) l’attività terroristica e difendere l’italianità della regione.

 

Al processo a suo carico, svoltosi – era latitante – in contumacia a Trieste nell’immediato dopoguerra, inviò un memoriale datato 5 agosto 1946 con tutte le richieste inoltrate ai prefetti di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Gueli chiedeva disposizioni restrittive nei confronti della popolazione civile, in larga parte ritenuta (con prove o per sospetti) complice dei ribelli slavi che si erano dati alla macchia.

 

Venne accontentato. E così furono introdotti la confisca dei beni per i fiancheggiatori, il fermo dei carri agricoli sospettati di trasportare viveri fuori città, il divieto di affollare le corriere in viaggio da un paese all’altro per non rendere lungo e difficile il riconoscimento di falsi viaggiatori che in realtà erano informatori segreti dei ribelli e persino di girare in bicicletta e di tenere cani nelle case di campagna, pronti ad abbaiare al minimo rumore e a dare così l’allarme ai rifugiati prima che i rastrellamenti di polizia e carabinieri avessero effetto.

 

Quando Gueli venne incaricato della sorveglianza di Mussolini, a Trieste lo sostituì come reggente dell’Ispettorato Generale di PS il dottor Luciano Palmisani che dirigeva la Polizia di Frontiera nella stessa città con il compito di combattere i ribelli.

 

La sede dell’Ispettorato Generale di Polizia era in una villa di via Bellosguardo, chiamata Villa Triste, requisita durante la guerra, e di cui non resta che un rudere. A Trieste viveva la più grande comunità ebraica d’Italia. E non fu certamente un caso dunque se Mussolini scelse questa città per proclamare le leggi razziali.

 

Tutto ha una logica. A ordinare le più feroci torture era il vicecommissario Gaetano Collotti. “Un tipo distinto – scrive Paolo Rumiz – che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro”. E si chiede il giornalista di Repubblica nella diciannovesima tappa del suo viaggio nei luoghi d’Italia dimenticati e abitati dagli spiriti chi aveva fatto abbattere quella villa, chi aveva avuto tanta fretta di cancellare la memoria degli orrori che vi erano stati commessi senza porvi neppure una lapide. Non gli è stato difficile trovare la risposta.

 

“Con Tito alle porte, l’anticomunismo patriottico aveva oscurato l’antifascismo e la Resistenza... gli orrori delle foibe avevano finito per occultare i misfatti di gente come Collotti”. In questo viaggio Rumiz incontra la “regina” di Villa Triste: Sonia Amf Kanziani, ebrea triestina sopravvissuta a tre mesi di torture. E riporta il suo breve straziante racconto. Unghie cavate, piedi rotti, “mani chiuse nelle porte”, vertebre lesionate, cicatrici nei polmoni, capezzoli ustionati con le sigarette, la tortura della panca. E Collotti che guardava impassibile: “Se parli, ti aiuteremo” diceva. Sonia Amf Kanziani si salvò con il “ribaltone del 25 luglio” quando un carceriere le disse: “Vai, ora o mai più”. A prendersi cura di lei, nascondendola, fu un contadino che aveva già cinque figli cui badare.

 

Ciò che colpisce Rumiz è il regale portamento di questa donna sola che aveva avuto uccisi il padre dai fascisti (l’avevano costretto a bere nafta), la madre dai partigiani e un fratello morto nella Resistenza. E per il portamento regale, le cure riservate alla propria persona, la casa perfettamente in ordine, la chiama Regina. La Regina di Villa Triste. Ma lei l’avverte: “Non si fidi dell’apparenza. Per darle la mano, devo sollevare il braccio destro con la mano sinistra”.

 

Gaetano Collotti è nato a Palermo nel 1920 ed è morto a Treviso nel 1945. Ucciso dai partigiani dopo essere stato catturato a un posto di blocco mentre fuggiva insieme all’amante con un carico d’oro. E pare che a impossessarsi dell’oro siano stati poi gli stessi partigiani. Da lui prende nome la “Banda Collotti”, gli uomini ai suoi ordini che eseguivano le torture. La Repubblica Italiana nel 1954 lo ha insignito della medaglia di bronzo per il comportamento avuto in un’azione contro i partigiani sloveni. Diversi componenti dell’Ispettorato Generale per la Venezia Giulia caduti durante la guerra o nel successivo regolamento dei conti tra fascisti e antifascisti sono ricordati con una lapide all’ingresso della Questura di Trieste come poliziotti morti nell’espletamento del dovere.

 

Del processo all’ispettore Gueli riportiamo passi delle testimonianze del dottor Paul Messiner, nel 1944 capo della sezione giudiziaria del Supremo Commissariato di Operazioni del Litorale Adriatico, del giudice di Corte d’Appello Anasipoli, del giovane Pietro Prodan e del questore di Roma Ciro Verdiani, persona come vedremo informata dei fatti.

 

Messiner: “Ho saputo da diverse persone (...) che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti”.

 

Anasipoli: “Ricordo che un giorno il dottor Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di P.S. dei quali ricordo il nome di Mazzuccato Sigfrido ... in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti, violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate”.

 

Mazzuccato era stato nominato dal prefetto di Trieste Tamburini maresciallo della polizia politica dell’Ispettorato, meglio conosciuta come “squadra Olivares”. Pare abbia commesso tante nefandezze da far inorridire persino i nazisti. Pietro Prodan, da lui arrestato e poi deportato in Germania, racconta al processo d’averlo incontrato nel novembre del 1944 nel campo di Buchenwald e d’averlo visto gettare nel forno crematoio la notte di Natale. Nella sua cartella i tedeschi hanno scritto: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”.

 

Tullio Tamburini sarà poi Capo della polizia della Repubblica Sociale Italiana dalla sua costituzione fino al 22 giugno del 1944. Accusato di fare il doppio gioco, fu arrestato dai nazisti e spedito a Dachau. E fu questo a salvarlo dalle persecuzioni degli antifascisti nel dopoguerra.

 

Verdiani, interrogato sulle torture e le sevizie commesse a Trieste dai sottoposti di Gueli ai danni dei prigionieri, riferisce “che si era trattato di esagerazioni che in ogni caso andavano attribuite al solo commissario Collotti”. Il quale, essendo morto, non poteva né discolparsi né accusare altri delle sue stesse responsabilità. Giuseppe Gueli, sebbene fosse a conoscenza di quanto avveniva nel suo Ispettorato, non ne fu ritenuto in giudizio responsabile penalmente ma solo moralmente. E quindi assolto.

 

A Giuseppe Gueli, l’uomo che sul Gran Sasso ordinò di non sparare contro i tedeschi atterrati per liberare Mussolini, si associano altri due siciliani impegnati nel cosiddetto Fronte Orientale: i questori Ettore Messana e Ciro Verdiani.

 

Il primo, colpevole di crimini di guerra, è questore di Lubiana durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia e poi, per un anno (dal 1942 al 14 giugno del 1943) questore di Trieste. Il secondo è Ispettore Generale della Slovenia e della Croazia. Non sono due che, dove sono stati, hanno lasciato buoni ricordi. Soprattutto Messana, inviso agli stessi poliziotti della questura di Trieste e agli ambienti fascisti della città.

 

Leggiamo quanto scrive di lui Feliciano Ricciardelli, della Divisione criminale di Polizia della Venezia Giulia: “Il Messana era preceduto da pessima fama per le sue malefatte quale questore di Lubiana contro i perseguitati politici. (Per costringerli a parlare, NdA).

 

Fra le insistenti voci che circolavano vi era anche quella che egli ordinava arresti di persone facoltose, contro cui venivano mossi addebiti infondati al solo scopo di conseguire profitti personali. Difatti si diceva che tali detenuti poi venivano avvicinati in carcere da un poliziotto sloveno, compare del Messana, che prometteva loro la liberazione mediante il pagamento di ingenti importi. Inoltre gli si faceva carico che a Lubiana si era dedicato al commercio in pellami, da cui aveva ricavato lauti profitti.

 

Durante la permanenza a Trieste, per la creazione in questa città del famigerato e tristemente noto Ispettorato Speciale di polizia diretto dal comm. Giuseppe Gueli, amico del Messana, costui non riuscì ad effettuare operazioni di polizia politica degne di particolare rilievo. Ma anche qui come a Lubiana, egli si volle distinguere per la mancanza assoluta di ogni senso di umanità e di giustizia che dimostrò chiaramente nella trattazione di pratiche relative a perseguitati politici, responsabili di attività antifascista molto limitata”.

 

La misura era così colma che un telegramma del Capo della polizia Carmine Senise ne ordina il trasferimento mettendolo “at disposizione Ministero”. In un altro rapporto informativo del dopoguerra – questo del SIS, Servizio Informazioni e Sicurezza – leggiamo: “Alla questura di Lubiana si eseguivano Torture. Il tenente Scappafora dirigeva le operazioni di tortura, mentre il questore Messana esortava personalmente gli aguzzini ad infierire contro le vittime”.

 

La presenza di Ettore Messana in Slovenia rientrava in un disegno insieme politico, militare ed etnico del regime: sradicare l’identità e la nazionalità delle popolazioni assoggettate, italianizzare (e cioè: fascistizzare) l’intera regione. Compito che ben si addiceva a uomini come lui e come Verdiani.

 

Messana aveva dato già buona prova di sé, venticinque anni prima in Sicilia, ordinando di sparare contro i contadini di Riesi in rivolta per la terra. Venti morti, numerosi feriti. E proprio lui, siciliano del vicino paese di Racalmuto. Altra medaglia di cui Messana può gloriarsi in questa storia criminale di oppressione, repressione e nefandezze, emersa dall’oblio generale grazie alle ricerche di Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi, è di aver favorito la costruzione di campi di concentramento in Italia dove internare e sterminare sloveni e comunisti. Vero e proprio disegno di pulizia etnica: “trasformare gli sloveni in buoni fascisti o sterminarli”.

 

Quest’uomo nero del regime lo ritroviamo protagonista in Sicilia, poliziotto di fiducia del ministro Scelba: dal fascismo alla guerra fredda. Prima impegnato, anche qui non senza ombre e in modo assai discutibile, nella repressione del banditismo stragista e poi alle prese con l’omicidio di Accursio Miraglia a Sciacca. Proprio in questa indagine l’Ispettore generale di Pubblica Sicurezza Fausto Salvatore rileva scarso zelo da parte di Messana informandone con una relazione il Capo della polizia. Solo verbali di interrogatorio – scrive l’ispettore Salvatore – “tutti di irrilevante valore”. E ne affida la ripresa da capo al commissario Zingone e al vicecommissario Tandoy.

 

Messana, è stato in rapporti confidenziali con Salvatore Ferreri, detto Fra Diavolo, il bandito che aveva ricevuto l’ordine di sparare a Portella della Ginestra, come si legge nel recente libro di La Bella e Mecarolo. Ferreri, ergastolano latitante, chiamato anche Totò il palermitano, è stato poi – secondo la versione ufficiale – prima ferito in uno scontro a fuoco con i carabinieri e quindi ucciso nella caserma di Alcamo dal capitano Roberto Giallombardo “per legittima difesa”. Nella sentenza sulla strage di Portella delle Ginestre, si legge questa sua dichiarazione resa in dibattimento: “Ferito, il Ferreri stesso chiese di essere portato a Palermo, spiegando che era un agente segreto al servizio dell’Ispettorato e che doveva subito parlare col Messana”.

 

Gueli, Messana, Verdiani, Collotti. Poliziotti siciliani o di origine siciliana dei quali non possiamo certo essere orgogliosi. Rappresentano quasi tutti l’ombra nera del fascismo che, come ha scritto qualcuno, si allunga dalla Slovenia alla Sicilia. L’ex questore di Lubiana si fidava dei suoi collaboratori sul Fronte Orientale. Tanto che uno di questi – il tenente colonnello dei carabinieri Luigi Geronazzo – lo segue nell’avventura siciliana per combattere (o fingere di farlo) il bandito Giuliano.

 

Ma Geronazzo era in buona fede e s’impegnò seriamente, “conseguendo – si legge nelle motivazioni della decorazione – proficui risultati e contribuendo a disorientare i fuorilegge”. Non sapeva del ruolo ambiguo di Messana in questa vicenda – di trame e complicità politiche – del dopoguerra italiano. Cadde vittima di un agguato mentre rientrava di notte nella sede del comando. Era il 29 dicembre del 1947. Si chiudeva in Sicilia l’anno di sangue iniziato con l’assassinio di Miraglia, proseguito con la strage di Portella delle Ginestre e finito con l’agguato mortale al tenente colonnello.

 

Girolamo Li Causi disse in parlamento che Geronazzo era stato “soldato valoroso fino all’ingenuità: credeva che i banditi si affrontassero come si affrontano i soldati”. E aggiunse (con chiaro riferimento al doppio gioco di Messana): “Non so se il ministro Scelba sa che furono individuate le persone che favorirono l’uccisione del Geronazzo e che vennero arrestate; era un’intera famiglia il cui capo divenne confidente dell’Ispettorato di pubblica sicurezza”. Per Li Causi era l’ispettore Messana il “capo del banditismo politico” in Sicilia.

 

Quanto a Verdiani, la sentenza su Portella delle Ginestre riporta “che non esitò ad avere rapporti con il capo della mafia di Morreale, Ignazio Miceli, ed anche con lo stesso Giuliano, con cui si incontrò nella casetta campestre di un sospetto appartenente alla mafia, Giuseppe Marotta in territorio di Castelvetrano ed alla presenza di Gaspare Pisciotta”. A tutti raccomandò di comportarsi come “bravi figlioli” mentre lui si sarebbe adoperato presso il Procuratore Generale di Palermo, Emanuele Pili, per far rilasciare con libertà provvisoria alcuni detenuti. A Giuliano avrebbe fatto in seguito sapere, tramite Marotta, con una lettera che non si sa se sia mai pervenuta al destinatario, di stare in guardia da Pisciotta entrato “nell’orbita del colonnello Luca” e che insieme agivano contro di lui.

 

L’occupazione fascista della Slovenia, secondo quanto riporta la Commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite in seguito alle denunce della Jugoslavia, ha causato la fucilazione di 1500 ostaggi civili, la morte di 500 persone nel corso dei rastrellamenti e di altre 950 sotto tortura o perché bruciate o massacrate. Ettore Messana, ritenuto il principale responsabile di questo orrore, fu proposto da Benito Mussolini per il conferimento della Commenda dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro e per il Cavalierato dello stesso Ordine. Del suo operato, per spegnere sul nascere ogni focolaio di ribellione, Messana informava con rapporti quotidiani l’Alto Commissario Emilio Grazioli. Non gli mancarono mai dunque le coperture politiche. Altri responsabili furono il commissario Pellegrino e il giudice Macis per le sue procedure illegali.

 

Un legame di terrore, sangue e stragi vi fu dunque tra la Venezia Giulia, la Slovenia e la Sicilia negli anni della guerra e del dopoguerra. Ai morti ammazzati del Fronte Orientale vanno aggiunti quelli – agli atti della Commissione Antimafia e del Processo di Viterbo – dei sette anni in cui alla banda di Salvatore Giuliano soprattutto, ma anche ad altre bande veniva consentito di imperversare impunemente nell’Isola. Si tratta di 430 vittime. In maggioranza carabinieri, poliziotti e soldati. Ignari di essere stati mandati allo sbaraglio da chi intanto aveva rapporti (non tanto segreti) di complicità con la mafia e con gli stessi banditi. E bisogna pure aggiungervi sessanta persone scomparse e non più ritrovate, quelle scampate alla morte negli agguati e i numerosi feriti della strage di Portella. Questo per avere quel quadro, complessivamente stragista, cui furono legati uomini dello Stato monarchico e repubblicano che prima eseguivano senza pietà ordini di pulizia etnica nelle zone militari occupate e poi diventavano in Sicilia pedine degli interessi geopolitici della Cia e dell’Occidente in funzione anticomunista.

 

L’ispettore Ciro Verdiani fu lesto a salire sul carro del vincitore. Prese contatti con gli antifascisti e fu per questo arrestato dalla polizia di Salò. Poi fece girare la voce di essere in possesso di carte dell’OVRA. Il che gli permise di condizionare o ricattare uomini di spicco dell’antifascismo di governo. Ma le aveva davvero queste carte? Lui diceva di averne pieno il baule: e viene facile pensare a quanto dovevano essere onerosi i suoi traslochi.

 

Pietro Nenni, il cui nome molto probabilmente figurava tra quei documenti, ne accettò l’iscrizione al Partito Socialista. Insomma, da una più che scontata e giusta epurazione, Ciro Verdiani passò alla piena riabilitazione e fu deciso di mettere la sua esperienza di poliziotto al servizio del nuovo Stato.

 

La pubblicazione di Perché uccisero Mussolini e Claretta arricchisce di particolari inediti la figura dell’Ispettore. Il sottotitolo della prima edizione è Oro e sangue a Dongo. Quello della seconda è La verità negli archivi del Pci. Autori del libro sono l’ex deputato milanese del Msi Franco Servello e lo storico Luciano Garibaldi che hanno svolto minuziose ricerche presso l’Archivio di Stato e presso l’archivio del Supremo Tribunale di Milano. Rintracciando il “rapporto riservato” di Verdiani e la lettera – “riservatissima” – con cui il generale Leone Zingales veniva rimosso dall’incarico affidatogli dal Procuratore militare per far luce sul “tesoro” di Dongo e sugli omicidi seguiti al suo “ritrovamento”. E proprio quando il Generale era giunto a un passo dalla verità. Anche dalla verità sulle fucilazioni di Mussolini, di Claretta, del fratello Marcello e degli altri della “colonna” – spacciate come operazione di guerra benché tutti si fossero arresi senza armi.

 

La storia scritta dai vinti. Raccontata da chi ne ha sempre rifiutata la versione ufficiale nel lungo dopoguerra italiano di odi, ferite mai cicatrizzate, tentati golpe, Servizi deviati, stragi di cui ancora si sconoscono i mandanti e di continui depistaggi. La storia segreta. La storia subito nascosta. Ma esisteva l’oro di Dongo? Mussolini e la Petacci ne erano in possesso quando furono catturati e fucilati? Fu per nascondere per sempre la verità, eliminare i testimoni che vennero pure uccisi quanti facevano parte della colonna Mussolini e poi anche i partigiani – come il “capitano Neri” e la “Gianna” – al corrente della grande ruberia? E se l’oro di Dongo – a quanto pare di ingente valore – fu davvero trafugato, in che mani finì?

 

La risposta all’ultima domanda è non nelle mani dello Stato italiano a cui spettava. I due autori del libro ritengono che l’oro non servì “a far fronte alle necessità della lotta partigiana”, come si volle far credere, perché era ormai finita. Ciro Verdiani in quel suo rapporto, a coronamento delle indagini condotte nel 1945, scrive che l’oro del Duce è “sicuramente” finito nelle mani del Pci di Como e poi di Milano, che lo stesso partito ha coperto gli uomini che l’avevano prelevato e quelli che per suo incarico avevano eliminato tutti i testimoni, compresi i testimoni partigiani.

 

Indicando come killer Leopoldo Cassinelli, conosciuto come “Lince”, e Maurizio Bernasconi chiamato “Maurizio”. E come mandante Luigi Longo. Atto d’accusa finora inedito contro il Pci e la Dc. Contro il “compromesso” da cui di lì a poco sarebbe nata la Repubblica. Il Pci s’impegnava a bloccare quelle sue frange estreme che non volevano deporre le armi e alla guerra far seguire la rivoluzione comunista.

 

In cambio la Dc fingeva di non vedere i reati gravi commessi in quegli anni da comunisti e partigiani e si mostrava disponibile a archiviare le riguardanti istruttorie avviate. I presunti responsabili della catena di omicidi seguiti alle fucilazioni di Dongo e al “trafugamento”del tesoro, arrestati dal generale Zingales, furono scarcerati dall’ufficiale che ne prese il posto. E quanto al processo, che di quelle fucilazioni avrebbe dovuto accertare la premeditazione, dopo “l’inverecondo valzer di passaggi di competenza” (scrivono Servello e Garibaldi) tra Como, Milano e Padova, a distanza di dieci anni venne “rinviato a nuovo ruolo” e mai più celebrato.



 

 

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