N. 75 - Marzo 2014
(CVI)
L’OMBRA LUNGA DEL FASCISMO
DALLA SLOVENIA ALLA SICILIA
di Gaetano Cellura
Prima
d’essere
incaricato
della
sorveglianza
di
Mussolini
sul
Gran
Sasso,
l’ispettore
generale
Giuseppe Gueli
aveva
svolto
sin
dal
1942
attività
di
repressione
nella
Venezia
Giulia
contro
le
bande
slave.
Per
“infrenarne”
(scrisse)
l’attività
terroristica
e
difendere
l’italianità
della
regione.
Al
processo
a
suo
carico,
svoltosi
–
era
latitante
– in
contumacia
a
Trieste
nell’immediato
dopoguerra,
inviò
un
memoriale
datato
5
agosto
1946
con
tutte
le
richieste
inoltrate
ai
prefetti
di
Trieste,
Gorizia,
Pola
e
Fiume.
Gueli
chiedeva
disposizioni
restrittive
nei
confronti
della
popolazione
civile,
in
larga
parte
ritenuta
(con
prove
o
per
sospetti)
complice
dei
ribelli
slavi
che
si
erano
dati
alla
macchia.
Venne
accontentato.
E
così
furono
introdotti
la
confisca
dei
beni
per
i
fiancheggiatori,
il
fermo
dei
carri
agricoli
sospettati
di
trasportare
viveri
fuori
città,
il
divieto
di
affollare
le
corriere
in
viaggio
da
un
paese
all’altro
per
non
rendere
lungo
e
difficile
il
riconoscimento
di
falsi
viaggiatori
che
in
realtà
erano
informatori
segreti
dei
ribelli
e
persino
di
girare
in
bicicletta
e di
tenere
cani
nelle
case
di
campagna,
pronti
ad
abbaiare
al
minimo
rumore
e a
dare
così
l’allarme
ai
rifugiati
prima
che
i
rastrellamenti
di
polizia
e
carabinieri
avessero
effetto.
Quando
Gueli
venne
incaricato
della
sorveglianza
di
Mussolini,
a
Trieste
lo
sostituì
come
reggente
dell’Ispettorato
Generale
di
PS
il
dottor
Luciano
Palmisani
che
dirigeva
la
Polizia
di
Frontiera
nella
stessa
città
con
il
compito
di
combattere
i
ribelli.
La
sede
dell’Ispettorato
Generale
di
Polizia
era
in
una
villa
di
via
Bellosguardo,
chiamata
Villa
Triste,
requisita
durante
la
guerra,
e di
cui
non
resta
che
un
rudere.
A
Trieste
viveva
la
più
grande
comunità
ebraica
d’Italia.
E
non
fu
certamente
un
caso
dunque
se
Mussolini
scelse
questa
città
per
proclamare
le
leggi
razziali.
Tutto
ha
una
logica.
A
ordinare
le
più
feroci
torture
era
il
vicecommissario
Gaetano
Collotti.
“Un
tipo
distinto
–
scrive
Paolo
Rumiz
–
che
andava
a
messa
ogni
mattina
prima
di
iniziare
il
lavoro”.
E si
chiede
il
giornalista
di
Repubblica
nella
diciannovesima
tappa
del
suo
viaggio
nei
luoghi
d’Italia
dimenticati
e
abitati
dagli
spiriti
chi
aveva
fatto
abbattere
quella
villa,
chi
aveva
avuto
tanta
fretta
di
cancellare
la
memoria
degli
orrori
che
vi
erano
stati
commessi
senza
porvi
neppure
una
lapide.
Non
gli
è
stato
difficile
trovare
la
risposta.
“Con
Tito
alle
porte,
l’anticomunismo
patriottico
aveva
oscurato
l’antifascismo
e la
Resistenza...
gli
orrori
delle
foibe
avevano
finito
per
occultare
i
misfatti
di
gente
come
Collotti”.
In
questo
viaggio
Rumiz
incontra
la
“regina”
di
Villa
Triste:
Sonia
Amf
Kanziani,
ebrea
triestina
sopravvissuta
a
tre
mesi
di
torture.
E
riporta
il
suo
breve
straziante
racconto.
Unghie
cavate,
piedi
rotti,
“mani
chiuse
nelle
porte”,
vertebre
lesionate,
cicatrici
nei
polmoni,
capezzoli
ustionati
con
le
sigarette,
la
tortura
della
panca.
E
Collotti
che
guardava
impassibile:
“Se
parli,
ti
aiuteremo”
diceva.
Sonia
Amf
Kanziani
si
salvò
con
il
“ribaltone
del
25
luglio”
quando
un
carceriere
le
disse:
“Vai,
ora
o
mai
più”.
A
prendersi
cura
di
lei,
nascondendola,
fu
un
contadino
che
aveva
già
cinque
figli
cui
badare.
Ciò
che
colpisce
Rumiz
è il
regale
portamento
di
questa
donna
sola
che
aveva
avuto
uccisi
il
padre
dai
fascisti
(l’avevano
costretto
a
bere
nafta),
la
madre
dai
partigiani
e un
fratello
morto
nella
Resistenza.
E
per
il
portamento
regale,
le
cure
riservate
alla
propria
persona,
la
casa
perfettamente
in
ordine,
la
chiama
Regina.
La
Regina
di
Villa
Triste.
Ma
lei
l’avverte:
“Non
si
fidi
dell’apparenza.
Per
darle
la
mano,
devo
sollevare
il
braccio
destro
con
la
mano
sinistra”.
Gaetano
Collotti
è
nato
a
Palermo
nel
1920
ed è
morto
a
Treviso
nel
1945.
Ucciso
dai
partigiani
dopo
essere
stato
catturato
a un
posto
di
blocco
mentre
fuggiva
insieme
all’amante
con
un
carico
d’oro.
E
pare
che
a
impossessarsi
dell’oro
siano
stati
poi
gli
stessi
partigiani.
Da
lui
prende
nome
la
“Banda
Collotti”,
gli
uomini
ai
suoi
ordini
che
eseguivano
le
torture.
La
Repubblica
Italiana
nel
1954
lo
ha
insignito
della
medaglia
di
bronzo
per
il
comportamento
avuto
in
un’azione
contro
i
partigiani
sloveni.
Diversi
componenti
dell’Ispettorato
Generale
per
la
Venezia
Giulia
caduti
durante
la
guerra
o
nel
successivo
regolamento
dei
conti
tra
fascisti
e
antifascisti
sono
ricordati
con
una
lapide
all’ingresso
della
Questura
di
Trieste
come
poliziotti
morti
nell’espletamento
del
dovere.
Del
processo
all’ispettore
Gueli
riportiamo
passi
delle
testimonianze
del
dottor
Paul
Messiner,
nel
1944
capo
della
sezione
giudiziaria
del
Supremo
Commissariato
di
Operazioni
del
Litorale
Adriatico,
del
giudice
di
Corte
d’Appello
Anasipoli,
del
giovane
Pietro
Prodan
e
del
questore
di
Roma
Ciro
Verdiani,
persona
come
vedremo
informata
dei
fatti.
Messiner:
“Ho
saputo
da
diverse
persone
(...)
che
la
polizia
italiana
usava
metodi
barbari
e
sadici
contro
i
detenuti”.
Anasipoli:
“Ricordo
che
un
giorno
il
dottor
Messiner
ebbe
casualmente
a
comunicarmi
di
essere
stato
costretto
a
far
arrestare
due
funzionari
di
P.S.
dei
quali
ricordo
il
nome
di
Mazzuccato
Sigfrido
...
in
seguito
a
numerose
lagnanze
presentategli
relativamente
a
maltrattamenti,
violenze,
percosse
usate
da
detti
agenti
contro
persone
arrestate”.
Mazzuccato
era
stato
nominato
dal
prefetto
di
Trieste
Tamburini
maresciallo
della
polizia
politica
dell’Ispettorato,
meglio
conosciuta
come
“squadra
Olivares”.
Pare
abbia
commesso
tante
nefandezze
da
far
inorridire
persino
i
nazisti.
Pietro
Prodan,
da
lui
arrestato
e
poi
deportato
in
Germania,
racconta
al
processo
d’averlo
incontrato
nel
novembre
del
1944
nel
campo
di
Buchenwald
e
d’averlo
visto
gettare
nel
forno
crematoio
la
notte
di
Natale.
Nella
sua
cartella
i
tedeschi
hanno
scritto:
“Mazzuccato,
deceduto
per
catarro
intestinale
il
24
dicembre
1944”.
Tullio
Tamburini
sarà
poi
Capo
della
polizia
della
Repubblica
Sociale
Italiana
dalla
sua
costituzione
fino
al
22
giugno
del
1944.
Accusato
di
fare
il
doppio
gioco,
fu
arrestato
dai
nazisti
e
spedito
a
Dachau.
E fu
questo
a
salvarlo
dalle
persecuzioni
degli
antifascisti
nel
dopoguerra.
Verdiani,
interrogato
sulle
torture
e le
sevizie
commesse
a
Trieste
dai
sottoposti
di
Gueli
ai
danni
dei
prigionieri,
riferisce
“che
si
era
trattato
di
esagerazioni
che
in
ogni
caso
andavano
attribuite
al
solo
commissario
Collotti”.
Il
quale,
essendo
morto,
non
poteva
né
discolparsi
né
accusare
altri
delle
sue
stesse
responsabilità.
Giuseppe
Gueli,
sebbene
fosse
a
conoscenza
di
quanto
avveniva
nel
suo
Ispettorato,
non
ne
fu
ritenuto
in
giudizio
responsabile
penalmente
ma
solo
moralmente.
E
quindi
assolto.
A
Giuseppe
Gueli,
l’uomo
che
sul
Gran
Sasso
ordinò
di
non
sparare
contro
i
tedeschi
atterrati
per
liberare
Mussolini,
si
associano
altri
due
siciliani
impegnati
nel
cosiddetto
Fronte
Orientale:
i
questori
Ettore
Messana
e
Ciro
Verdiani.
Il
primo,
colpevole
di
crimini
di
guerra,
è
questore
di
Lubiana
durante
l’occupazione
nazifascista
della
Jugoslavia
e
poi,
per
un
anno
(dal
1942
al
14
giugno
del
1943)
questore
di
Trieste.
Il
secondo
è
Ispettore
Generale
della
Slovenia
e
della
Croazia.
Non
sono
due
che,
dove
sono
stati,
hanno
lasciato
buoni
ricordi.
Soprattutto
Messana,
inviso
agli
stessi
poliziotti
della
questura
di
Trieste
e
agli
ambienti
fascisti
della
città.
Leggiamo
quanto
scrive
di
lui
Feliciano
Ricciardelli,
della
Divisione
criminale
di
Polizia
della
Venezia
Giulia:
“Il
Messana
era
preceduto
da
pessima
fama
per
le
sue
malefatte
quale
questore
di
Lubiana
contro
i
perseguitati
politici.
(Per
costringerli
a
parlare,
NdA).
Fra
le
insistenti
voci
che
circolavano
vi
era
anche
quella
che
egli
ordinava
arresti
di
persone
facoltose,
contro
cui
venivano
mossi
addebiti
infondati
al
solo
scopo
di
conseguire
profitti
personali.
Difatti
si
diceva
che
tali
detenuti
poi
venivano
avvicinati
in
carcere
da
un
poliziotto
sloveno,
compare
del
Messana,
che
prometteva
loro
la
liberazione
mediante
il
pagamento
di
ingenti
importi.
Inoltre
gli
si
faceva
carico
che
a
Lubiana
si
era
dedicato
al
commercio
in
pellami,
da
cui
aveva
ricavato
lauti
profitti.
Durante
la
permanenza
a
Trieste,
per
la
creazione
in
questa
città
del
famigerato
e
tristemente
noto
Ispettorato
Speciale
di
polizia
diretto
dal
comm.
Giuseppe
Gueli,
amico
del
Messana,
costui
non
riuscì
ad
effettuare
operazioni
di
polizia
politica
degne
di
particolare
rilievo.
Ma
anche
qui
come
a
Lubiana,
egli
si
volle
distinguere
per
la
mancanza
assoluta
di
ogni
senso
di
umanità
e di
giustizia
che
dimostrò
chiaramente
nella
trattazione
di
pratiche
relative
a
perseguitati
politici,
responsabili
di
attività
antifascista
molto
limitata”.
La
misura
era
così
colma
che
un
telegramma
del
Capo
della
polizia
Carmine
Senise
ne
ordina
il
trasferimento
mettendolo
“at
disposizione
Ministero”.
In
un
altro
rapporto
informativo
del
dopoguerra
–
questo
del
SIS,
Servizio
Informazioni
e
Sicurezza
–
leggiamo:
“Alla
questura
di
Lubiana
si
eseguivano
Torture.
Il
tenente
Scappafora
dirigeva
le
operazioni
di
tortura,
mentre
il
questore
Messana
esortava
personalmente
gli
aguzzini
ad
infierire
contro
le
vittime”.
La
presenza
di
Ettore
Messana
in
Slovenia
rientrava
in
un
disegno
insieme
politico,
militare
ed
etnico
del
regime:
sradicare
l’identità
e la
nazionalità
delle
popolazioni
assoggettate,
italianizzare
(e
cioè:
fascistizzare)
l’intera
regione.
Compito
che
ben
si
addiceva
a
uomini
come
lui
e
come
Verdiani.
Messana
aveva
dato
già
buona
prova
di
sé,
venticinque
anni
prima
in
Sicilia,
ordinando
di
sparare
contro
i
contadini
di
Riesi
in
rivolta
per
la
terra.
Venti
morti,
numerosi
feriti.
E
proprio
lui,
siciliano
del
vicino
paese
di
Racalmuto.
Altra
medaglia
di
cui
Messana
può
gloriarsi
in
questa
storia
criminale
di
oppressione,
repressione
e
nefandezze,
emersa
dall’oblio
generale
grazie
alle
ricerche
di
Alessandra
Kersevan
e
Claudia
Cernigoi,
è di
aver
favorito
la
costruzione
di
campi
di
concentramento
in
Italia
dove
internare
e
sterminare
sloveni
e
comunisti.
Vero
e
proprio
disegno
di
pulizia
etnica:
“trasformare
gli
sloveni
in
buoni
fascisti
o
sterminarli”.
Quest’uomo
nero
del
regime
lo
ritroviamo
protagonista
in
Sicilia,
poliziotto
di
fiducia
del
ministro
Scelba:
dal
fascismo
alla
guerra
fredda.
Prima
impegnato,
anche
qui
non
senza
ombre
e in
modo
assai
discutibile,
nella
repressione
del
banditismo
stragista
e
poi
alle
prese
con
l’omicidio
di
Accursio
Miraglia
a
Sciacca.
Proprio
in
questa
indagine
l’Ispettore
generale
di
Pubblica
Sicurezza
Fausto
Salvatore
rileva
scarso
zelo
da
parte
di
Messana
informandone
con
una
relazione
il
Capo
della
polizia.
Solo
verbali
di
interrogatorio
–
scrive
l’ispettore
Salvatore
–
“tutti
di
irrilevante
valore”.
E ne
affida
la
ripresa
da
capo
al
commissario
Zingone
e al
vicecommissario
Tandoy.
Messana,
è
stato
in
rapporti
confidenziali
con
Salvatore
Ferreri,
detto
Fra
Diavolo,
il
bandito
che
aveva
ricevuto
l’ordine
di
sparare
a
Portella
della
Ginestra,
come
si
legge
nel
recente
libro
di
La
Bella
e
Mecarolo.
Ferreri,
ergastolano
latitante,
chiamato
anche
Totò
il
palermitano,
è
stato
poi
–
secondo
la
versione
ufficiale
–
prima
ferito
in
uno
scontro
a
fuoco
con
i
carabinieri
e
quindi
ucciso
nella
caserma
di
Alcamo
dal
capitano
Roberto
Giallombardo
“per
legittima
difesa”.
Nella
sentenza
sulla
strage
di
Portella
delle
Ginestre,
si
legge
questa
sua
dichiarazione
resa
in
dibattimento:
“Ferito,
il
Ferreri
stesso
chiese
di
essere
portato
a
Palermo,
spiegando
che
era
un
agente
segreto
al
servizio
dell’Ispettorato
e
che
doveva
subito
parlare
col
Messana”.
Gueli,
Messana,
Verdiani,
Collotti.
Poliziotti
siciliani
o di
origine
siciliana
dei
quali
non
possiamo
certo
essere
orgogliosi.
Rappresentano
quasi
tutti
l’ombra
nera
del
fascismo
che,
come
ha
scritto
qualcuno,
si
allunga
dalla
Slovenia
alla
Sicilia.
L’ex
questore
di
Lubiana
si
fidava
dei
suoi
collaboratori
sul
Fronte
Orientale.
Tanto
che
uno
di
questi
– il
tenente
colonnello
dei
carabinieri
Luigi
Geronazzo
– lo
segue
nell’avventura
siciliana
per
combattere
(o
fingere
di
farlo)
il
bandito
Giuliano.
Ma
Geronazzo
era
in
buona
fede
e
s’impegnò
seriamente,
“conseguendo
– si
legge
nelle
motivazioni
della
decorazione
–
proficui
risultati
e
contribuendo
a
disorientare
i
fuorilegge”.
Non
sapeva
del
ruolo
ambiguo
di
Messana
in
questa
vicenda
– di
trame
e
complicità
politiche
–
del
dopoguerra
italiano.
Cadde
vittima
di
un
agguato
mentre
rientrava
di
notte
nella
sede
del
comando.
Era
il
29
dicembre
del
1947.
Si
chiudeva
in
Sicilia
l’anno
di
sangue
iniziato
con
l’assassinio
di
Miraglia,
proseguito
con
la
strage
di
Portella
delle
Ginestre
e
finito
con
l’agguato
mortale
al
tenente
colonnello.
Girolamo
Li
Causi
disse
in
parlamento
che
Geronazzo
era
stato
“soldato
valoroso
fino
all’ingenuità:
credeva
che
i
banditi
si
affrontassero
come
si
affrontano
i
soldati”.
E
aggiunse
(con
chiaro
riferimento
al
doppio
gioco
di
Messana):
“Non
so
se
il
ministro
Scelba
sa
che
furono
individuate
le
persone
che
favorirono
l’uccisione
del
Geronazzo
e
che
vennero
arrestate;
era
un’intera
famiglia
il
cui
capo
divenne
confidente
dell’Ispettorato
di
pubblica
sicurezza”.
Per
Li
Causi
era
l’ispettore
Messana
il
“capo
del
banditismo
politico”
in
Sicilia.
Quanto
a
Verdiani,
la
sentenza
su
Portella
delle
Ginestre
riporta
“che
non
esitò
ad
avere
rapporti
con
il
capo
della
mafia
di
Morreale,
Ignazio
Miceli,
ed
anche
con
lo
stesso
Giuliano,
con
cui
si
incontrò
nella
casetta
campestre
di
un
sospetto
appartenente
alla
mafia,
Giuseppe
Marotta
in
territorio
di
Castelvetrano
ed
alla
presenza
di
Gaspare
Pisciotta”.
A
tutti
raccomandò
di
comportarsi
come
“bravi
figlioli”
mentre
lui
si
sarebbe
adoperato
presso
il
Procuratore
Generale
di
Palermo,
Emanuele
Pili,
per
far
rilasciare
con
libertà
provvisoria
alcuni
detenuti.
A
Giuliano
avrebbe
fatto
in
seguito
sapere,
tramite
Marotta,
con
una
lettera
che
non
si
sa
se
sia
mai
pervenuta
al
destinatario,
di
stare
in
guardia
da
Pisciotta
entrato
“nell’orbita
del
colonnello
Luca”
e
che
insieme
agivano
contro
di
lui.
L’occupazione
fascista
della
Slovenia,
secondo
quanto
riporta
la
Commissione
per
i
crimini
di
guerra
delle
Nazioni
Unite
in
seguito
alle
denunce
della
Jugoslavia,
ha
causato
la
fucilazione
di
1500
ostaggi
civili,
la
morte
di
500
persone
nel
corso
dei
rastrellamenti
e di
altre
950
sotto
tortura
o
perché
bruciate
o
massacrate.
Ettore
Messana,
ritenuto
il
principale
responsabile
di
questo
orrore,
fu
proposto
da
Benito
Mussolini
per
il
conferimento
della
Commenda
dell’Ordine
dei
santi
Maurizio
e
Lazzaro
e
per
il
Cavalierato
dello
stesso
Ordine.
Del
suo
operato,
per
spegnere
sul
nascere
ogni
focolaio
di
ribellione,
Messana
informava
con
rapporti
quotidiani
l’Alto
Commissario
Emilio
Grazioli.
Non
gli
mancarono
mai
dunque
le
coperture
politiche.
Altri
responsabili
furono
il
commissario
Pellegrino
e il
giudice
Macis
per
le
sue
procedure
illegali.
Un
legame
di
terrore,
sangue
e
stragi
vi
fu
dunque
tra
la
Venezia
Giulia,
la
Slovenia
e la
Sicilia
negli
anni
della
guerra
e
del
dopoguerra.
Ai
morti
ammazzati
del
Fronte
Orientale
vanno
aggiunti
quelli
–
agli
atti
della
Commissione
Antimafia
e
del
Processo
di
Viterbo
–
dei
sette
anni
in
cui
alla
banda
di
Salvatore
Giuliano
soprattutto,
ma
anche
ad
altre
bande
veniva
consentito
di
imperversare
impunemente
nell’Isola.
Si
tratta
di
430
vittime.
In
maggioranza
carabinieri,
poliziotti
e
soldati.
Ignari
di
essere
stati
mandati
allo
sbaraglio
da
chi
intanto
aveva
rapporti
(non
tanto
segreti)
di
complicità
con
la
mafia
e
con
gli
stessi
banditi.
E
bisogna
pure
aggiungervi
sessanta
persone
scomparse
e
non
più
ritrovate,
quelle
scampate
alla
morte
negli
agguati
e i
numerosi
feriti
della
strage
di
Portella.
Questo
per
avere
quel
quadro,
complessivamente
stragista,
cui
furono
legati
uomini
dello
Stato
monarchico
e
repubblicano
che
prima
eseguivano
senza
pietà
ordini
di
pulizia
etnica
nelle
zone
militari
occupate
e
poi
diventavano
in
Sicilia
pedine
degli
interessi
geopolitici
della
Cia
e
dell’Occidente
in
funzione
anticomunista.
L’ispettore
Ciro
Verdiani
fu
lesto
a
salire
sul
carro
del
vincitore.
Prese
contatti
con
gli
antifascisti
e fu
per
questo
arrestato
dalla
polizia
di
Salò.
Poi
fece
girare
la
voce
di
essere
in
possesso
di
carte
dell’OVRA.
Il
che
gli
permise
di
condizionare
o
ricattare
uomini
di
spicco
dell’antifascismo
di
governo.
Ma
le
aveva
davvero
queste
carte?
Lui
diceva
di
averne
pieno
il
baule:
e
viene
facile
pensare
a
quanto
dovevano
essere
onerosi
i
suoi
traslochi.
Pietro
Nenni,
il
cui
nome
molto
probabilmente
figurava
tra
quei
documenti,
ne
accettò
l’iscrizione
al
Partito
Socialista.
Insomma,
da
una
più
che
scontata
e
giusta
epurazione,
Ciro
Verdiani
passò
alla
piena
riabilitazione
e fu
deciso
di
mettere
la
sua
esperienza
di
poliziotto
al
servizio
del
nuovo
Stato.
La
pubblicazione
di
Perché
uccisero
Mussolini
e
Claretta
arricchisce
di
particolari
inediti
la
figura
dell’Ispettore.
Il
sottotitolo
della
prima
edizione
è
Oro
e
sangue
a
Dongo.
Quello
della
seconda
è La
verità
negli
archivi
del
Pci.
Autori
del
libro
sono
l’ex
deputato
milanese
del
Msi
Franco
Servello
e lo
storico
Luciano
Garibaldi
che
hanno
svolto
minuziose
ricerche
presso
l’Archivio
di
Stato
e
presso
l’archivio
del
Supremo
Tribunale
di
Milano.
Rintracciando
il
“rapporto
riservato”
di
Verdiani
e la
lettera
–
“riservatissima”
–
con
cui
il
generale
Leone
Zingales
veniva
rimosso
dall’incarico
affidatogli
dal
Procuratore
militare
per
far
luce
sul
“tesoro”
di
Dongo
e
sugli
omicidi
seguiti
al
suo
“ritrovamento”.
E
proprio
quando
il
Generale
era
giunto
a un
passo
dalla
verità.
Anche
dalla
verità
sulle
fucilazioni
di
Mussolini,
di
Claretta,
del
fratello
Marcello
e
degli
altri
della
“colonna”
–
spacciate
come
operazione
di
guerra
benché
tutti
si
fossero
arresi
senza
armi.
La
storia
scritta
dai
vinti.
Raccontata
da
chi
ne
ha
sempre
rifiutata
la
versione
ufficiale
nel
lungo
dopoguerra
italiano
di
odi,
ferite
mai
cicatrizzate,
tentati
golpe,
Servizi
deviati,
stragi
di
cui
ancora
si
sconoscono
i
mandanti
e di
continui
depistaggi.
La
storia
segreta.
La
storia
subito
nascosta.
Ma
esisteva
l’oro
di
Dongo?
Mussolini
e la
Petacci
ne
erano
in
possesso
quando
furono
catturati
e
fucilati?
Fu
per
nascondere
per
sempre
la
verità,
eliminare
i
testimoni
che
vennero
pure
uccisi
quanti
facevano
parte
della
colonna
Mussolini
e
poi
anche
i
partigiani
–
come
il
“capitano
Neri”
e la
“Gianna”
– al
corrente
della
grande
ruberia?
E se
l’oro
di
Dongo
– a
quanto
pare
di
ingente
valore
– fu
davvero
trafugato,
in
che
mani
finì?
La
risposta
all’ultima
domanda
è
non
nelle
mani
dello
Stato
italiano
a
cui
spettava.
I
due
autori
del
libro
ritengono
che
l’oro
non
servì
“a
far
fronte
alle
necessità
della
lotta
partigiana”,
come
si
volle
far
credere,
perché
era
ormai
finita.
Ciro
Verdiani
in
quel
suo
rapporto,
a
coronamento
delle
indagini
condotte
nel
1945,
scrive
che
l’oro
del
Duce
è
“sicuramente”
finito
nelle
mani
del
Pci
di
Como
e
poi
di
Milano,
che
lo
stesso
partito
ha
coperto
gli
uomini
che
l’avevano
prelevato
e
quelli
che
per
suo
incarico
avevano
eliminato
tutti
i
testimoni,
compresi
i
testimoni
partigiani.
Indicando
come
killer
Leopoldo
Cassinelli,
conosciuto
come
“Lince”,
e
Maurizio
Bernasconi
chiamato
“Maurizio”.
E
come
mandante
Luigi
Longo.
Atto
d’accusa
finora
inedito
contro
il
Pci
e la
Dc.
Contro
il
“compromesso”
da
cui
di
lì a
poco
sarebbe
nata
la
Repubblica.
Il
Pci
s’impegnava
a
bloccare
quelle
sue
frange
estreme
che
non
volevano
deporre
le
armi
e
alla
guerra
far
seguire
la
rivoluzione
comunista.
In
cambio
la
Dc
fingeva
di
non
vedere
i
reati
gravi
commessi
in
quegli
anni
da
comunisti
e
partigiani
e si
mostrava
disponibile
a
archiviare
le
riguardanti
istruttorie
avviate.
I
presunti
responsabili
della
catena
di
omicidi
seguiti
alle
fucilazioni
di
Dongo
e al
“trafugamento”del
tesoro,
arrestati
dal
generale
Zingales,
furono
scarcerati
dall’ufficiale
che
ne
prese
il
posto.
E
quanto
al
processo,
che
di
quelle
fucilazioni
avrebbe
dovuto
accertare
la
premeditazione,
dopo
“l’inverecondo
valzer
di
passaggi
di
competenza”
(scrivono
Servello
e
Garibaldi)
tra
Como,
Milano
e
Padova,
a
distanza
di
dieci
anni
venne
“rinviato
a
nuovo
ruolo”
e
mai
più
celebrato.