N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
l'odio per i
partigiani: come e
perché contrastarlo
Recensione
di Gianluca
Seramondi
L’esperienza partigiana è
una sorta di resto della divisione del passato
dell’Italia. Qualcosa che s’adopera per la visibilità,
perché la visibilità è la sua dimensione più propria fin
dal suo primo affacciarsi sul proscenio della Storia, ma
che l’attuale e comune narrazione della storia ha
lavorato perché fosse non già dimenticata, ma
sottaciuta, accennata en passant, citata a margine o
chiosata a piè di pagine, per ammorbidirne, o
ammorbarne, il valore più autentico.
Nel suo pamphlet accorato
e necessario L’odio per i partigiani Come e perché
contrastarlo Valerio Romitelli ce ne offre l’intima
articolazione affermando che « …in tempo di guerra [i
partigiani] sono riusciti a fare una loro guerra, per
bande armate, in cui ha preso corpo una grande passione
politica “non governativa”».
L’efficacia di questa interpretazione risiede nel
fornire una “definizione ben formata” dell’esperienza
partigiana capace di rivendicarne tutte le dimensioni e
di porgercela come una possibile esperienza politica
tuttora valida. Innanzitutto fu una guerra, anzi, per
essere più aderenti alla lettura di Romitelli « l’unica
[guerra] che dà un qualche senso effettivo alla
Resistenza». Non ci si deve spaventare per questa
ammissione ma nemmeno la si deve relegare nell’ovvietà
delle constatazioni di fatto circa il periodo
dell’occupazione nazifascista nell’Italia
settentrionale, cosa che implicherebbe conformarsi
acriticamente non tanto alla «ripulsa per qualsiasi
guerra», quanto alla «riluttanza [tutta italiana] a
riflettere sulle condizioni e sulle conseguenze delle
guerre».
Nell’Italia tra il 1943 e
il 1945, lacerata tra l’occupazione nazista da un lato e
gli «indiscriminati bombardamenti alleati», dettati da
una prospettiva politica di guerra mondiale che non
poteva non sacrificare le dimensioni locali, la
costituzione «dei partigiani in bande armate ha fatto sì
che l’Italia…potesse contare di suo, cioè non ridursi a
“un’espressione geografica” per strategie globali ed
esogene».
I partigiani portarono avanti questo progetto
organizzandosi, per l’appunto, in «bande armate,
sostanzialmente irregolari, senza alcuna legittimità
statale», cementate non da legami familiari, amicali o
sociali quali che siano, ma dalla «passione per un’idea
disponibile e condivisibile da chiunque, qualunque ne
fosse la famiglia, la classe o il partito di
riferimento. Un’idea pubblica … che reclutava per
l’avvenire che apriva, e non per la difesa di questo o
quel passato [corsivo mio]». Essa, infatti, non aveva –
apparentemente - un contenuto positivo.
Si concretava
nell’«intransigenza» con cui ci si ribellava
all’invasore e si rifiutava il fascismo insieme ai
governi e le politiche che lo avevano reso possibile ( e
dunque anche quei governi liberali che, nel 1915, con
Salandra, Sonnino e il re si gettarono senza remore
nella “no man’s land” della Prima Guerra Mondiale). Ma
proprio in questo radicale rifiuto l’idea partigiana si
rovescia immediatamente in una “proposta” positiva,
giacché « se era vero che c’era da rinnovare l’Italia
dopo il disfacimento dell’8 settembre, era pur vero che
c’era ben poco da difendere e molto o quasi tutto da
inventare; e che si doveva farlo in quel preciso momento
con le energie soggettive che si stavano formando con
l’organizzazione per bande. Il positivo di questa idea è
quindi da cercarsi in tutto quel che dicevano e facevano
i partigiani, e con essi i Cln e i partiti, almeno fino
a quando l’intransigenza non viene contrastata».
La vaghezza di questa idea, il suo riempirsi della
contingenza, non ne pregiudica il valore politico. Essa
infatti non è retta da sapere o da cultura, ma
«dall’intelligenza della situazione in corso», e dal
fatto che «rende possibili molteplici conseguenze
logiche». Qui si gioca il valore per noi, oltreché in
sé, di quella esperienza. L’espressione “intelligenza
della situazione in corso” infatti vuole dire
«affrontare direttamente le pressanti e abissali
incognite del momento [ che nel caso dei partigiani si
condensavano nella domanda:] come non essere in balia
degli invasori e dei vecchi decomposti despoti, senza
lasciare decidere tutto ai liberatori?».
Vuole dire anche che
l’esistenza delle bande partigiane e la loro azione
«dipendeva di momento in momento da decisioni che
venivano prese essenzialmente solo in base a conoscenze
dirette delle popolazioni su cui avevano effetto, oltre
che ovviamente del territorio e del nemico, nonché delle
sporadiche informazioni circolanti sull’andamento della
guerra». Vuole dire, infine e soprattutto, che
l’esperienza partigiana rese «possibile, nei luoghi in
cui ha agito, nuove occasioni di unione tra gente senza
potere né governo sulla guerra mondiale in corso».
Strutturata, dunque, come esperienza necessariamente
collettiva, l’esperienza partigiana ci consegna
«l’idea…che sia possibile pensare e fare politica tra
gli emarginati senza promettere né favori né carriere,
ma neanche la conquista di potere o lo sterminio dei
governanti».
Condizione necessaria perché questa esperienza sia
(nuovamente) possibile è che l’idea pubblica che apre
l’avvenire e che raccoglie intorno a sé gli «emarginati
della storia» sia mossa e retta da quella passione che
Machiavelli poneva nel cuore dell’agire politico del
Principe. Il quale nel suo procedere «audace e
impetuoso…tenta di forzare la stessa fortuna puntando
tutto sulla propria virtù, ossia sulle proprie capacità»
e senza mirare alla conquista del potere e al suo
mantenimento. Per questo motivo l’esperienza partigiana
fu una esperienza politica non governativa. Essa era
permeata dalla consapevolezza della inevitabile
asimmetria tra governanti e governati, dalla
consapevolezza che non si sarebbero raggiunte le “leve
del potere” ma che, in ogni caso, la situazione presente
richiedeva una azione, un intervento, un pensiero.
Passione politica, idea, rifiuto della supremazia della
relazione familiare in senso lato (e, verrebbe da dire,
amorale nel senso di Edward C. Banfield) sulle altre
relazioni tra persone, consapevolezza dell’asimmetria
tra governanti e governati, progetto locale (Honoré De
Balzac non ammoniva gli aspiranti scrittori che: «Se
vuoi essere veramente universale, parla del tuo
villaggio»?), collettività. Queste sono, mi sembra, le
dimensioni politiche che Romitelli individua
nell’esperienza partigiana e che ancora oggi dovrebbe
forgiare una azione autenticamente politica (dal basso).
Certo, per noi, consumati
frequentatori del liberalismo individualista,
l’espressione «collettivo» suona oltremodo
anacronistica: il rigurgito di un passato che abbiamo
relegato nelle età che precedono quella della ragione.
Quasi che considerassimo “collettivo” e “massa”
sinonimi, ci ritraiamo con sufficienza da quei termini
che ci paiono soffocare ogni individualità, ogni gesto
irrituale (o non procedurale), ogni differenza. Forse
bisognerebbe iniziare a pensare che è attraverso
l’articolazione nel collettivo degli individui
atomizzati dalla massa che emerge infine l’individualità
( ma questo è un'altra storia).
In conclusione, nel volgere di un centinaio di pagine o
poco più Valerio Romitelli istruisce un processo nei
confronti della nostra (mancanza di) cultura storica e
del nostro assopimento politico, ricostruisce
storicamente seppure sommariamente una esperienza
cruciale per la nostra storia patria – senza con ciò
cadere nella spicciola agiografia o nella altrettanto
spicciola aneddotica sedicente “oggettiva” - e dipana
una serie di problematiche su cui gli storici, i
filosofi e, prima ancora, i (filosofi) politici
dovrebbero infine interrogarsi. In fondo, non è forse
quello dell’interrogazione il lavoro più autenticamente
filosofico?
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