N. 117 - Settembre 2017
(CXLVIII)
L'OBLIO DELLA BELLEZZA
INDAGINE SU UNA "FORMA DEL GENIO"
di Guglielmo Montuori
“La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna”.
Così
Oscar
Wilde,
corifeo
del
movimento
estetico
inglese
dell’Età
dell’Imperialismo,
sulle
orme
di
Walter
Pater,
si
esprimeva
a
proposito
di
una
delle
esperienze
più
forti
che
un
essere
umano
possa
vivere
nella
propria
esistenza,
vale
a
dire
la
Bellezza.
A
distanza
di
un
secolo
circa
possiamo
dire
con
sicurezza
che
la
nostra
epoca
è
caratterizzata
dall’oblio
della
bellezza,
non
solo
e
non
tanto
nel
senso
di
non
riuscire
più
ad
apprezzarla
nelle
sue
forme
e
rappresentazioni,
ma
prima
di
tutto
nel
suo
stesso
idearla
e
concepirla,
nel
suo
stesso
farne
una
rappresentazione
del
soggetto
prima
che
un
oggetto.
Nella
società
liquida
di
baumaniana
memoria
tutto
è
finalizzato
all’utilizzo
e
alla
funzionalità
e
questo
anche
a
scapito
dell’ideazione
e
della
fruizione
del
bello.
Sembra
trattarsi
di
un
percorso
irreversibile,
frutto
non
soltanto
dell’edonismo
volgare
ormai
diffuso
capillarmente
anche
in
termini
di
gusto
e
modo
comune
di
sentire,
ma
anche
per
la
ridefinizione
e la
messa
in
crisi
della
stessa
idea
di
bellezza
e
quindi
per
la
ricorrente
banalizzazione
di
tale
esperienza,
interpretata
come
uno
dei
tanti
fenomeni
che
contraddistingue
l’interazione
tra
l’uomo
e
gli
oggetti,
tra
il
soggetto
e la
rappresentazione
dello
spazio.
Insomma
la
diffusione
di
un
pensiero
che
riesce
soltanto
a
descrivere
la
realtà
senza
interpretarla
e
permearla
in
modo
da
renderla
autenticamente
significativa;
forse
proprio
per
questa
ragione
sarebbe
più
corretto
parlare
di
“assenza
diffusa
del
pensiero”.
Il
mondo
occidentale
ha
una
lunga
tradizione
in
fatto
di
bellezza
ed
una
delle
sue
più
alte
espressioni
è
rinvenibile
nel
mondo
ellenico.
Nella
Grecia
antica
l’idea
della
kalokagatìa
unifica
per
la
prima
volta
estetica
ed
etica:
la
bellezza
diventa
una
realtà
nella
quale
la
verità
e il
bene
prendono
corpo
ed
esistono
nella
loro
concretezza
sensibile
come
riflesso
di
una
realtà
valoriale
superiore
che
caratterizza
l’intera
società
greca.
Il
bello
è
armonia,
equilibrio,
misura,
ricerca
della
perfezione
declinata
non
solo
in
senso
estetico
ma
anche
etico-morale,
il
visibile
che
diventa
ethos,
comportamento,
scelta
di
vita.
L’Atene
di
Pericle
simboleggia
in
maniera
impareggiabile
questa
concezione
della
bellezza,
finalizzata
alla
realizzazione
di
una
visione
che
è
strutturalmente
orientata
in
senso
etico.
Non
a
caso
la
prospettiva
di
un
assolutismo
valoriale
sotteso
al
bello
trova
in
Platone
ampia
espressione,
una
bellezza
intesa
come
immagine
riflessa
di
un
bello
ideale,
puro,
privo
di
contaminazioni
con
la
materia
e
quindi
eticamente
perfetto.
Il
bello
nella
prospettiva
platonica
assume
nettamente
una
funzione
politica
e
morale
e
questo
dovrebbe
essere
un’indicazione
per
noi
moderni;
esso
diventa
per
l’uomo
una
sorta
di
salto
qualitativo
verso
una
dimensione
superiore,
l’idea,
e
l’amore
platonico
è la
rappresentazione
mitico-simbolica
di
questo
percorso.
Il
primato
dell’idea
è
proprio
del
mondo
greco
ma
per
i
Greci,
e
per
Platone
in
particolare,
l’idea
non
è
ciò
che
è
per
noi
contemporanei,
soprattutto
a
partire
da
Cartesio.
Per
Platone
l’idea
è
viva,
agisce,
è
armonia
che
opera
sulla
materia.
Il
divario
tra
idea/armonia/eternità
e
realtà
si
ricompone
nell’arte
che
“idealizza”
il
mondo,
ovvero
lo
interpreta
secondo
l’idea.
Non
a
caso
nel
greco
antico
la
parola
idea
è
legata
anche
al
significato
di
sapere,
di
conoscere:
oida
è il
tempo
perfetto
del
verbo
orao
che
significa
“vedo”.
Il
tempo
perfetto
nel
presente
esprime
il
risultato
di
un’azione
avvenuta
nel
passato:
io
so
perché
ho
visto.
La
bellezza
costitutiva
dell’esperienza
artistica
nasce
proprio
da
questo
processo,
anche
se
per
Platone
la
categoria
incaricata
della
vera
conoscenza
è
quella
dei
filosofi
e
non
quella
degli
artisti.
Anche
le
altre
dimensioni
della
bellezza
proprie
del
mondo
ellenico
non
insistono
mai
sul
mero
lato
estetico.
In
Saffo
è
bello
ciò
che
è
integro,
pieno;
in
Eraclito
è
assimilato
all’armonia;
in
Omero
è la
forza
del
corpo
dell’eroe
e la
sua
audacia
in
guerra.
Attualmente,
nella
definizione
dei
processi
che
stanno
alla
base
di
ciò
che
Kant
chiamò
il
“giudizio
di
gusto”,
si
rischia
di
confondere
l’esperienza
del
bello
con
la
piacevolezza
che
trasformerebbe
la
bellezza
in
ciò
che
gli
studiosi
di
neuroscienze
definiscono
eye
candy,
ovvero
una
“caramella
per
l’occhio”.
Questa
è la
concreta
prospettiva
verso
cui
tendono
le
attuali
pratiche
dell’abbellimento
contemporaneo
e
riesce
inimmaginabile
qualcosa
che
si
muova
nella
direzione
di
una
misura
ed
una
forma
in
grado
di
compenetrarsi.
La
bellezza
nella
contemporaneità
sembra
richiedere
una
sorta
di
processo
ermeneutico
e
Paul
Klee
sottolineava
che
il
valore
dell’esperienza
artistica
non
consiste
nel
riprodurre
il
visibile,
bensì
nel
rendere
visibile
ciò
che
è
“altro”.
Fusis
kruptestai
filei,
la
“Natura
ama
nascondersi”
scrive
Eraclito;
e
proprio
per
questa
motivazione
richiede
un
processo
che
la
sveli
e la
definisca
in
un
percorso
verso
la
scoperta
dell’autenticità.
L’abbellimento
si è
invece
trasformato
oggi
in
una
sorta
di
corsa
verso
un’identità
collettiva
fondata
sull’uso
dissennato
del
cemento
e
sull’impronta
brutalmente
produttivistica
dell’edilizia
moderna
e
del
suo
modo
di
gestire
lo
spazio.
L’auspicio
è il
recupero
dell’idea
di
un’architettura
“colta”
in
grado
di
coniugare
tecnica
e
visione
filosofica
per
incidere
in
modo
significativo
sulla
realtà,
sulla
sua
interpretazione
e
sulla
sua
categorizzazione;
qualcosa
di
non
molto
diverso
da
quanto
proponeva
Vitruvio
in
fatto
di
formazione
necessaria
per
l’architetto
colto.
Il
nesso
tra
architettura
e
filosofia
è
evidente
ed
inscindibile
ed
il
monito
heideggeriano
sulla
questione
della
tecnica,
del
dominio
sul
mondo,
della
massificazione
e
dell’anomia
sociale
ripropone
ed
attualizza
la
necessità
di
una
visione
che
coniugando
architettura
e
filosofia,
significato
ed
interpretazione
dello
spazio,
tempo
fisico
e
tempo
interiore
possa
ricondurci
al
bello.
“Là
dove
c’è
il
pericolo,
cresce
anche
ciò
che
salva”
ripete
Heidegger
con
Holderlin.
L’attuale
epoca
storica,
dominata
dalla
bruttezza
declinata
in
tutte
le
sue
forme,
sembra
incarnare
le
parole
di
Heidegger
ed è
una
sfida
tentare
le
vie
del
bello
in
una
società
completamente
alienata
e
senza
interessi
superiori.
Il
problema
è
anche
educativo
ed è
una
responsabilità
di
chi
educa
e
dei
modelli
che
vengono
proposti.
La
bellezza
non
si
può
scindere
da
una
più
ampia
dimensione
politica,
culturale
ed
educativa
ed
oggi
la
bruttezza
contemporanea
propria
della
postmodernità,
dal
fast
food
all’abbigliamento,
domina
su
cose
e
coscienze.
La
tecnica,
in
quanto
esito
del
pensiero
calcolatore
e
dell’oggettività
misurabile
dimentico
dell’Umanesimo,
nasconde
l’essere
e
comporta
il
pericolo
che
anche
l’uomo
perda
se
stesso
e si
lasci
sfuggire
la
sua
essenza,
nel
suo
trasformarsi
solamente
in
colui
che
impiega
le
cose,
le
manipola
e le
controlla,
senza
alcuna
progettazione
valorialmente
fondata.
Spesso
nella
società
contemporanea
si
preferisce
parlare
di
una
generica
“bellezza
biologica”,
espressione
della
vita
e
frutto
di
un
processo
evolutivo,
non
fondata
su
significati
“altri”.
Essa
viene
spesso
identificata
con
il
flusso
vitale
e
con
tutte
le
sue
espressioni,
e
contributi
significativi
ai
fini
di
una
definizione
del
bello
sono
arrivati
anche
da
un
settore
della
ricerca
scientifica
rappresentato
dalle
neuroscienze
che
hanno
collegato
il
giudizio
di
bellezza
all’attivazione
della
corteccia
orbito-frontale,
trasformando
l’artista,
che
è
colui
che
dovrebbe
avere
un
rapporto
privilegiato
con
il
bello,
in
una
sorta
di
neuroscienziato,
dal
momento
che
agirebbe
in
relazione
a
precisi
stimoli
cui
seguono
specifiche
risposte.
Non
è un
caso
che,
a
partire
dagli
anni
Settanta
del
XX
secolo,
si
inizi
a
parlare
di
neuroestetica,
disciplina
che
esplora
le
modalità
attraverso
cui
la
mente
proietta
i
suoi
concetti
sul
reale,
sull’esistente
mediante
l’analisi
del
rapporto
tra
soggetto,
oggetto
e
rappresentazioni.
Per
quanto
le
tecniche
sempre
più
sofisticate
di
neuro-imaging
abbiano
permesso
di
accedere
a
nuovi
elementi
ed a
una
nuova
visione
della
complessità
della
rete
neurale
e
delle
sue
potenzialità,
rimane
sempre
da
definire,
in
una
società
di
alienazione
morale
e
spirituale
come
la
nostra,
il
tema
del
rapporto
tra
bello
e
senso
comune,
tra
bellezza
e
generico
abbellimento.
Dal
concetto
di
bello
inteso
in
senso
teologico
e
teleologico
come
realizzazione
di
armonia,
verità
e
bene,
ci
si è
quindi
spostati
verso
un
mondo
che
ha
smarrito
l’eidos
della
bellezza,
espressione
della
solidarietà
e
dell’armonia
universale.
Soltanto
la
bellezza
correttamente
intesa
può
rigenerare
una
dimensione
attiva
e
vitale,
rivelando
una
vera
estetica
dell’azione
e
dell’impegno.
E
forse,
potremmo
dire
parafrasando
Fëdor
Dostoevskij,
soltanto
la
bellezza
salverà
il
mondo.