N. 29 - Maggio 2010
(LX)
obiezione di coscienza
spunti laici
di Cristiano Zepponi
“La
difesa
della
Patria
è
sacro
dovere
del
cittadino.
Il
servizio
militare
è
obbligatorio
nei
limiti
e
modi
stabiliti
dalla
legge.
Il
suo
adempimento
non
pregiudica
la
posizione
di
lavoro
del
cittadino,
né
l’esercizio
dei
diritti
politici.
L’ordinamento
delle
Forze
Armate
si
informa
allo
spirito
democratico
della
Repubblica”.
L’art.
52
della
Costituzione,
al
momento
della
formulazione,
prescriveva
l’obbligatorietà
del
servizio
militare
– si
consideri
che
la
leva
di
massa
era
storicamente
considerata
una
conquista
rivoluzionaria
–
nonostante
l’insistenza
delle
voci
che,
nel
corso
dei
lavori
preparatori,
avevano
proposto
la
creazione
di
un
esercito
di
mestiere.
Già
nel
corso
di
questi
lavori,
tuttavia,
emerse
il
problema
dell’obiezione
di
coscienza:
per
dirla
con
Capitini,
“l’opposizione
a
partecipare
alla
preparazione
e
all’esecuzione
della
guerra,
vista
particolarmente
come
uccisione
di
esseri
umani”
per
motivi
che
la
coscienza
“trae
da
sé
stessa”,
al
cui
interno
si
possono
distinguere
una
pluralità
di
posizioni:
“di
essa
vi
sono
diversi
gradi,
tra
i
quali
la
propria
coscienza
sceglie,
e
può
essere
quello
semplicemente
di
non
uccidere,
e di
accettare
ogni
altro
servizio,
ma
può
essere
anche
quello
di
rifiutare
ogni
altro
servizio
attinente
alla
guerra
e
alla
sua
esecuzione,
compreso
il
lavoro
di
fabbricazione
di
munizioni
[…]
talvolta
gli
obiettori
accettano
il
servizio
di
raccolta
e di
soccorso
ai
feriti,
anche
davanti
alle
linee
di
combattimento
e
sotto
il
fuoco,
ritenendo
che
aiutare
un
ferito
è
opera
umana
da
compiere
in
ogni
caso,
quale
che
sia
l’uso
che
poi
il
ferito
farà,
secondo
la
sua
coscienza,
delle
energie
riacquistate.
Vi
sono
obiettori
di
coscienza
che
intendono
tenersi
lontano
da
tutto
ciò
che
è
guerra,
e
compensano
la
collettività
dei
benefici
che
essa
dà
loro
con
altri
servizi”.
Qualcosa
di
ben
diverso,
dunque,
dal
capriccio,
dall’arbitrio,
da
un
ribellismo
sterile
e
aprioristico;
qualcosa
di
ben
diverso
sia
dal
rifiuto
di
sottoporsi
ad
un
“servizio
di
lavoro”
(dato
il
duro
prezzo
pagato)
sia
dall’avversione
psicologica
al
sangue
ed
alla
sofferenza
(basti
pensare
agli
obiettori
impegnati
a
raccogliere
brandelli
d’uomini
nella
terra
di
nessuno):
una
“severa
decisione”
formatasi
nel
corso
di
anni,
quindi,
indifferente
all’esercito
e al
popolo
contro
cui
si
combatte
(“L’obiettore
di
coscienza
non
trae
le
sue
ragioni
dal
fatto
che
l’esercito
e il
popolo
contro
cui
eserciterebbe
la
guerra
è
quello
e
non
un
altro,
contro
il
quale,
invece,
sarebbe
dispostissimo
ad
armarsi:
egli
pone
il
rifiuto
di
ogni
guerra,
non
accettandola
né
in
quel
caso
né
in
altri,
e
non
perché
si
tratti
di
un
popolo
per
il
quale
abbia
simpatia,
ma
perché
si
tratta
di
umanità,
di
‘prossimo’
in
senso
universale”),
secondo
molti
lecita
alla
luce
dell’
art.
2
della
Costituzione
in
virtù
del
quale
“la
Repubblica
garantisce
e
riconosce
i
diritti
inviolabili
dell’uomo,
sia
come
singolo
sia
nelle
formazioni
sociali
ove
si
svolge
la
sua
personalità”,
anche
come
“diritto
di
non
sopportare
coercizioni
intollerabili
della
coscienza”
(“Obiezione
vuol
dire
l’atto
di
gettare
qualche
cosa
contro;
e in
questo
caso
è la
coscienza”).
L’art.
52
sembrò,
a
quella
componente
laica
interessata
al
problema,
rivelarsi
scarsamente
rispettoso
delle
opinioni,
dei
sentimenti
morali,
delle
convinzioni
dei
cittadini,
mancando
il
riconoscimento
di
quel
“diritto
a
non
uccidere”
che
sarebbe
stato
insistentemente
richiesto
negli
anni
successivi.
Fu
così
che,
in
sede
Costituente,
l’on.
Caporali
propose
un
emendamento
che
assicurasse
“l’esenzione
dal
portare
le
armi
per
coloro
i
quali
vi
obiettino
ragioni
filosofiche
e
religiose
di
coscienza”),
richiamandosi
a
simili
disposizioni
in
vigore
all’estero
(Olanda
e
R.F.T.,
ad
esempio);
il
proponente
spiegò
infatti
che
“obiettare
vuol
dire
compiere
un
atto
meritorio,
condannando
quello
che
la
guerra
ha
di
più
crudele
e di
orribile;
e
vuol
dire
soprattutto
negare
la
guerra
[…]
gli
obiettori
di
coscienza
non
sono
degli
irregolari,
essi
non
devono
confondersi
con
i
disertori,
essi
chiedono
di
servire
la
Patria
in
umiltà
rivendicando
il
diritto
di
non
tradire
i
principi
spirituali
ai
quali
sono
legati,
alle
loro
convinzioni
umane
[…]
costituiscono
la
pattuglia
avanzata
della
nuova
umanità,
che
si
ostina
a
credere
nella
maestà
della
vita
contro
tutte
le
forze
che
tendono
a
degradarla”.
Al
termine
del
dibattimento
prevalse
comunque
il
comma
(proposto
da
Gasparotto,
Laconi,
Targetti,
Merlin)
che
sarebbe
divenuto
definitivo,
e
che
prescrive:
“il
servizio
militare
è
obbligatorio
nei
limiti
e
nei
modi
stabiliti
dalla
legge”.
Questi
“modi
e
limiti”
sarebbero
stati
presto
introdotti,
e la
legislazione
avrebbe
previsto
numerosi
casi
di
inidoneità
e
indisponibilità
al
servizio
militare,
dispensandone
donne,
inabili
e
ministri
di
culto,
prevedendo
la
possibilità
di
appellarsi
a
ragioni
di
salute
o di
famiglia:
si
sarebbe
trascinato
a
lungo,
invece,
il
problema
dell’obiezione.
L’OBIEZIONE
DI
COSCIENZA
IN
ITALIA:
ALCUNI
ESEMPI
Dall’unità
d’Italia
alla
Seconda
Guerra
Mondiale,
i
casi
di
vera
e
propria
obiezione
di
coscienza
appaiono
molto
rari,
e si
riducono,
in
effetti,
a
una
manciata
di
episodi
relativi
alla
Grande
Guerra.
Negli
stessi
anni
in
cui
il
mondo
anglosassone
cominciava
a
fare
i
conti
con
la
questione,
sorgevano
le
prime
associazioni
internazionali
(Fellowship
of
Reconciliation,
The
War
Resisters
International,
Peace
News)
e
centinaia
di
giovani
mostravano
di
preferire
prigione
o
servizio
civile
all’arruolamento
si
registrarono
i
primi
casi
in
Italia.
Obiettore
fu
Luigi
Luè
di
S.
Colombano
al
Lambro
(Milano),
di
professione
zoccolaio,
scopertosi
ostile
all’esercito
nel
corso
del
1901
(quando
una
pattuglia,
di
cui
faceva
parte,
minacciò
di
fucilare
un
gruppo
di
contadini
in
sciopero)
e
rapidamente
influenzato
dal
pensiero
tolstoiano:
nel
1917
si
rifiutò
di
combattere
e fu
condannato
a
sette
anni
di
reclusione,
nonostante
la
personale
simpatia
del
giudice
capitano
incaricato
del
processo.
Come
lui
Giovanni
Gagliardi
di
Castelvetro
Piacentino
(Piacenza),
inizialmente
ateo
e
poi
votatosi
al
cristianesimo
evangelico
indipendente,
che
oltre
alla
prigione
subì
un
internamento
in
manicomio,
e
poi
Remigio
Cuminetti,
testimone
di
Geova,
che
si
rifiutò
di
portare
le
stellette
sulla
divisa
e di
andare
al
fronte,
e
seguì
lo
stesso
destino
di
Gagliardi
(galera,
manicomio,
angherie
fasciste
nel
dopoguerra).
Dopo
la
Seconda
Guerra
Mondiale
fu
la
volta
di
altri
due
casi:
quello
di
Rodrigo
Castiello
di
Cuneo,
membro
dei
pentecostali,
giudicato
nel
’47
e
poi
prosciolto
per
amnistia,
e
quello
-
l’anno
successivo
- di
Enrico
Ceroni,
testimone
di
Geova,
il
quale
–
dopo
aver
svolto
regolarmente
diversi
compiti
al
Centro
di
Addestramento
di
Casale
Monferrato
– si
rifiutò
di
scrivere
“la
bandiera
è
sacra”,
sostituendo
la
frase
con
“secondo
la
Sacra
Scrittura
nessuna
bandiera
è
sacra”,
e
rifiutò
allo
stesso
modo
le
stellette,
prima
di
vedersi
comminati
cinque
mesi
e
venti
giorni
di
reclusione.
Proprio
in
quei
mesi,
però,
qualcosa
si
mosse:
nell’ottobre
e
nel
novembre
del
1947
Aldo
Capitini,
in
alcune
lettere
agli
amici,
cominciò
a
parlare
della
compilazione
di
un
volantino
sull’obiezione
di
coscienza;
nell’estate
del
’48,
poi,
lo
stesso
Capitini
– in
un
articolo
dal
titolo
“Opposizione
alla
guerra”
–
propose,
tra
le
altre
cose,
di “sollecitare
una
legge
per
il
riconoscimento
dell’obiezione
di
coscienza”,
e di
“mettere
allo
studio
l’istituzione
di
un
servizio
civile
di
lavoro
a
fianco
del
servizio
militare
per
cui
i
giovani
chiamati
possano
scegliere”.
PIETRO
PINNA
Tuttavia,
nonostante
i
primi
vagiti
della
campagna
a
favore
dell’obiezione
di
coscienza,
fu
la
vicenda
di
Pietro
Pinna
a
guadagnarsi
l’attenzione
dell’opinione
pubblica
e ad
accelerare
il
processo
che
avrebbe
infine
portato
al
riconoscimento
legislativo
dell’obiezione
stessa.
Pinna,
ragioniere
di
Finale
Ligure
e
residente
a
Ferrara,
al
momento
della
chiamata
alle
armi
–
nel
maggio
del
1948
–
ottenne
un
rinvio
di
cinque
mesi
e
poi
entrò
alla
scuola
allievi
ufficiali
di
Lecce.
Era
già
molto
dubbioso:
e
l’incontro
con
Capitini
–
nel
corso
di
un
convegno
del
Movimento
di
religione
–
contribuì
a
rafforzare
la
convinzione
che
“nel
servizio
militare
si
tradisce
continuamente
la
propria
coscienza
e si
comprime
la
propria
personalità”.
Il
giorno
del
giuramento,
dunque,
l’allievo
decise
di
obiettare,
e
presentò
un’esposizione
scritta
al
Ministero
della
Difesa
–
prima
di
essere
escluso
dal
corso
ed
inviato,
per
adempiere
ai
suoi
obblighi,
al I
C.A.R.
di
Casale
Monferrato,
dove
non
vollero
ascoltarne
le “chiacchiere”
e
fu
posto
agli
arresti
per
“rifiuto
di
obbedienza”:
un
reato,
questo,
che
–
una
volta
scontata
la
pena
–
prevedeva
l’obbligo
di
ricominciare
il
servizio
militare
dal
punto
in
cui
era
stato
interrotto,
fino
all’obiezione
successiva
(aggravata
dalla
recidiva),
potendo
continuare
così
questa
situazione
“paradossale
e
tragica”
fino
ai
quarantacinque
anni,
ovvero
l’età
di
esonero
dalla
leva.
Senza
contare,
infine,
che
le
condizioni
e il
trattamento
dei
detenuti
nelle
carceri
militari
restavano
decisamente
peggiori
rispetto
alle
comuni,
patrie
galere.
Fu
Capitini
–
che
sulle
prime
aveva
scelto
di
non
rispondere
alle
lettere
del
giovane,
per
non
condizionarne
la
decisione
- a
prodigarsi
perché
il
caso
Pinna
acquisisse
notorietà,
contattando
politici,
pacifisti,
giornalisti
(gli
scrisse
ad
esempio
il
13
febbraio
1949:
“di
ciò
che
Le
accade
ho
informato
molti,
anche
un
parlamentare”,
ovvero
Umberto
Calosso)
e
prendendo
le
sue
parti
di
fronte
al
Tribunale
Militare
di
Torino.
Capitini,
infatti,
spiegò
poi
che
“se
forse
senza
di
lui
il
problema
avrebbe
toccato
un
po’
di
opinione
pubblica,
certamente,
senza
quel
suo
apporto,
il
tema
dell’obiezione
di
coscienza
non
avrebbe
fatto
quegli
immediati
e
sicuri
progressi,
acquistato
quel
rilievo
e
quel
credito
da
imporsi
come
problema
davanti
alla
nazione”;
e da
quel
momento
prese
ad
interessarsi
del
problema,
stimolando
un
cambiamento
che
fosse
insieme
giuridico
e
culturale
(“I
due
aspetti
dell’obiezione
di
coscienza
sono:
quello
legale
[arrivare
ad
una
legge
che
riconosca
l’obiezione
di
coscienza];
quello
più
propriamente
morale
e
religioso
[iniziare
coerentemente
un
atteggiamento
dell’animo
diverso
da
quello
di
fare
la
guerra,
dell’armarsi,
dell’uccidere]).
Pinna,
trasferito
al
carcere
militare
di
Torino,
sottoposto
ad
interrogatori,
test
vari,
perizie
psichiatriche
(che
lo
trovarono
sano
di
mente
ma
giudicarono
le
sue
idee
frutto
de “l’alzata
d’ingegno
di
una
mediocre
mente
giovanile,
tendente
al
dogmatismo”),
non
fu
spinto
da
motivazioni
di
fede:
non
era,
cioè,
inquadrabile
nelle
religioni
istituzionalizzate
(criticava
anzi
la
Chiesa,
ridottasi
“in
definitiva,
ad
un
vuoto
formalismo
esteriore
e
non
a
quel
concetto
vivificatore
che
costituisce
l’essenza
della
religione”,
per
il
tradimento
degli
“interessi
spirituali
in
essa
riposti”
e
per
il
suo
atteggiamento
politico
“di
preminente
appoggio
alle
forze
conservatrici”),
ma
solo
in
una
religiosità
spontanea,
intima,
filosofica,
nell’identificazione
completa
di
morale,
vita
fattiva
e
fedeltà
agli
ideali
professati.
Proprio
per
questo,
a
differenza
dei
due
predecessori
post-bellici
–
appartenenti
a
gruppi
religiosi
che
non
avevano
interesse
a
creare
un
“caso”
ed a
scontrarsi
con
lo
Stato,
e
che
concepivano
la
loro
scelta
come
esclusivamente
individuale
–
divenne
l’icona
del
movimento
che
cominciava
a
premere
per
la
“legalizzazione”
dell’obiezione.
Perché,
in
definitiva,
lo
voleva.
Fu
lo
stesso
scherno
degli
avversari,
poi,
a
far
sì
che
la
sua
vicenda
dilagasse
presto
oltre
i
confini
nazionali
(la
vedova
del
presidente
Wilson
gli
inviò
un
telegramma
di
sostegno,
mentre
Tatiana
Tolstoj
Suhotin,
figlia
di
Leone,
scrisse
di
aver
“pianto
di
gioia
leggendo
ciò
che
fanno
questi
coraggiosi
giovani”,
e si
chiese:
“chissà
se
essi
non
avranno
aperto
la
via
per
facilitare
il
cammino
degli
altri?”),
nonostante
l’ostilità
della
Chiesa
Cattolica
e la
sostanziale
indifferenza
di
PCI
e
PSI,
che
–
pur
rispettando
il
gesto
–
non
appoggiarono
la
battaglia
di
Pinna.
Il
31
marzo
del
1949
i
deputati
Calosso,
Bianchi,
Longhena
e
Benanni
interrogarono
il
Ministero
della
Difesa
e
chiesero
per
gli
obiettori
la
possibilità
di
essere
destinati
a “servizi
dove
non
si
uccide,
ma
si
può
essere
uccisi”;
il
30
agosto
dello
stesso
anno,
quindi,
si
aprì
il
processo
contro
Pinna,
nel
corso
del
quale
il
tribunale
militare
di
Torino
insistette
sul
reato
di
disobbedienza
(“volontà
cosciente
del
fatto
negativo,
in
contrasto
con
l’ordine
ricevuto
e
nella
conoscenza
del
contenuto
dell’ordine
stesso”)
e
sulla
necessità
di
conformarsi
ai
voleri
generali,
mentre
i
difensori
(avv.
Segre
e
Buda)
sostennero
l’incompetenza
dello
stesso
tribunale
riguardo
una
questione
che
aveva
caratteri
suoi
propri,
del
tutto
diversi
dalla
disobbedienza
e
dall’indisciplina.
Ad
ogni
modo,
nonostante
la
presenza
di
un
folto
pubblico,
il
sostegno
internazionale,
la
disponibilità
del
giovane
(“Mi
si
dice
che
il
dovere
di
ogni
cittadino
è
innanzitutto
quello
di
servire
la
patria.
Ma
io
non
mi
sogno
neppur
lontanamente
di
rifiutarmi
a
questo.
Chiedo
solo
che
la
patria
realizzi
un
servizio
in
cui
i
suoi
figli
non
siano
costretti
a
tradire
i
principi
della
loro
coscienza
di
uomini
ed
essi
allora
(ed
io
con
loro,
primo)
saranno
felici
ed
onorati
di
servirla
e di
donarlesi”)
,
Pinna
fu
condannato
per
disobbedienza
a
dieci
mesi
di
reclusione,
per
quanto
il
presidente
della
corte
esprimesse
la
necessità
di
colmare
la
lacuna
del
codice
militare
riguardo
l’obiezione.
Eppure,
l’odissea
non
si
concluse
nelle
aule
del
tribunale:
Pinna,
infatti,
doveva
ancora
completare
il
servizio
militare,
e
tornò
a
rifiutare
le
mansioni
di
scrivano
–
offertegli
come
compromesso
– al
comando
territoriale
di
Napoli.
Fu
così
imprigionato
di
nuovo
e di
nuovo
processato
per
direttissima
in
ottobre,
e la
notizia,
diffusa
dalla
radio,
di
nuovo
si
guadagnò
l’attenzione
dell’opinione
pubblica
e
della
politica,
anche
estera
(ventitré
parlamentari
inglesi,
presieduti
dal
laburista
reverendo
R.
W.
Sorensen,
firmarono
una
lettera
indirizzata
al
Presidente
del
Consiglio
De
Gasperi
per
intercedere
in
suo
favore,
scrivendo
di
voler
in
questo
modo
“vivamente
pregare
Vostra
Eccellenza
di
rivedere
il
caso
di
questo
giovane,
che
ha
già
dimostrato
la
sua
sincerità
con
la
fermezza
dei
suoi
principi
durante
la
lunga
prigionia”
e “rispettosamente
richiamare
la
favorevole
attenzione
di
Vostra
Eccellenza
sulla
proposta
dei
giudici
al
processo
Pinna,
di
introduzione
nella
legislazione
militare
italiana
di
una
clausola
per
il
riconoscimento
del
diritto
di
obiezione
di
coscienza
al
servizio
militare
e di
esenzione
completa
per
coloro
che
dimostrino
la
loro
assoluta
sincerità”,
ricordando
inoltre
che
“da
noi,
in
Gran
Bretagna,
come
negli
Stati
Uniti
d’America
e in
molte
altre
nazioni
d’Europa
e
del
Mondo,
tale
riconoscimento
è
ammesso”).
Stavolta,
però,
la
procedura
del
processo
sollevò
molti
dubbi
(e
spinse
l’on.
Calosso
a
presentare
un’interpellanza
alla
Camera),
specie
riguardo
il
comportamento
dell’avvocato
difensore
d’ufficio,
che
si
fece
accusatore
del
ragazzo,
e
l’eccessiva
presenza
di
militari
nell’aula
(quattro
colonnelli
nella
corte
e
due
fra
i
testimoni).
Alla
proclamazione
della
condanna
ad
altri
otto
mesi
di
reclusione,
una
voce
si
levò
dal
pubblico:
“Bravo
Pietro!
Oggi
sei
solo,
ma
domani
saremo
cento,
mille!”.
La
voce
–
ovvero
Giustiniano
Incarnati,
studente
d’ingegneria
– fu
immediatamente
arrestata
per
apologia
di
reato;
e
nel
corso
di
pochi
mesi
sarebbe
toccato
a
Francesco
Buraglio
(Alessandria),
Antonio
Pantoni
(Melfi),
Pietro
Ferrua
(anarchico
di
La
Spezia),
Mario
Barbani
(Ozzano
Emilia)
ed
Elevoine
Santi
(Sala
Bolognese),
tutti
e
cinque
obiettori
influenzati
dalla
vicenda
giudiziaria
di
Pinna.
Quest’ultimo,
poi,
dopo
la
carcerazione
a
Sant’Elmo
oppose
un
altro
rifiuto
alla
leva
finchè
fu
visitato,
gli
fu
riscontrata
una
neurosi
cardiaca
–
opportunamente
predisposta,
nonostante
i
favorevoli
risultati
degli
esami
precedenti
- e
fu
riformato:
un
esito
comune
nelle
vicende
degli
obiettori,
molto
spesso
esonerati
per
motivi
medici
dal
servizio
–
adducendo
opportune
e
improbabili
patologie
-
dagli
stessi
militari,
preoccupati
dal
danno
d’immagine
causato
dal
ciclo
continuo
di
arresti
e
rilasci.
STRASCICHI
GIURIDICI
La
vicenda
di
Pietro
Pinna
ottenne
comunque
l’effetto
di
attirare
l’attenzione
sul
problema,
anche
a
livello
giurisprudenziale:
ci
si
accorse
infatti
come
nell’ordinamento
italiano
mancasse
una
regolamentazione
degli
organi
e
della
procedura
che
avrebbero
dovuto
accertare
la
“vera”
obiezione
di
coscienza.
Per
ovviare
a
questa
situazione
un
disegno
di
legge
fu
annunciato
il 3
ottobre
del
1949
e
presentato
il
23
novembre
dello
stesso
anno
ad
opera
del
socialista
Calosso
e
del
cattolico
Giordani,
che
unirono
le
loro
due
precedenti
proposte:
ma
la
proposta
di
legge,
inviata
all’esame
della
Commissione
legislativa
competente,
non
tornò
mai
in
Parlamento.
D’altronde,
come
aveva
risposto
De
Gasperi
ai
parlamentari
britannici,
si
trattava
di
un
istituto
giuridico
introducibile
“solo
con
estrema
cautela
nelle
Nazioni
che
hanno
esercito
permanente
e
servizio
militare
obbligatorio”.
Lo
stesso
Capitini,
comunque,
non
nascose
i
limiti
della
legge,
che
definì
“difettosissima”,
rimarcando
d’altronde
come
“con
una
simile
legge
si
arricchirebbe
il
regolamento
dell’esercito
di
un
articolo
che
dice
che
chi
fa
obiezione
di
coscienza
sarà
privato
del
soldo,
etc.,
eccettuati
due
o
tre
casi
che
sarebbero
riconosciuti,
proprio
per
poter
meglio
battere
gli
altri”.
E
tuttavia,
dopo
questa
proposta,
per
tutto
il
decennio
successivo
l’attenzione
dell’opinione
pubblica
andò
progressivamente
disinteressandosi
all’argomento,
mentre
continuavano
a
susseguirsi
le
voci
di
un
prossimo
intervento
del
legislatore
in
materia.
L’obiezione
di
coscienza
perse
dunque
di
visibilità:
nonostante
il
28
ed
il
29
ottobre
1950
si
svolgesse
il
primo
convegno
italiano
dedicato
all’esame
dei
problemi
dell’obiezione
di
coscienza,
con
la
presenza
–
ovviamente
– di
Capitini,
che
d’altra
parte
l’estate
precedente
aveva
partecipato
ai
lavori
del
Congresso
mondiale
delle
Religioni;
nonostante
nel
’56
si
tenesse
un
secondo
congresso
sul
tema,
arricchito
dalla
presenza
di
diversi
intellettuali;
nonostante
la
proposta
di
legge
dei
deputati
del
PSI
annunciata
il
20
luglio
1957;
e
nonostante,
per
ultima,
la
pubblicazione
de
“L’obiezione
di
coscienza
in
Italia”del
“solito”
Capitini.
Negli
anni
’60
il
tema
riemerse
in
seguito
allo
scalpore
suscitato
dalle
obiezioni
illustri,
e
collettivamente
sostenute
da
gruppi
decisi
a
pubblicizzarle,
di
nuovi
personaggi:
tra
questi
soprattutto
il
cattolico
Gozzini,
primo
obiettore
per
motivi
religiosi,
del
cui
caso
si
occupò
ancora
Aldo
Capitini
tentando
di
mobilitare
l’opinione
pubblica
per
strappare
una
legge
ormai
attesa
da
un
decennio
e
scrivendo
a
Pertini
di
una
“battaglia
decisiva”;
oppure,
fu
richiamato
da
alcuni
gesti
simbolici
(il
“processo
all’obiettore”
del
centro
valdese
Agape;
la
decisione
di
girare
in
Italia
il
film
“Non
uccidere”,
incentrato
proprio
sull’obiezione,
e il
successivo
diniego
delle
autorità),
capaci
d’attrarre
attenzioni
e
sostegno.
Nel
’61,
comunque,
nacque
a
Roma
un
Comitato
nazionale
destinato
a
promuovere
e
organizzare
gli
sforzi
miranti
al
riconoscimento
giuridico
dell’obiezione
di
coscienza,
ancora
arenato
–
come
nel
decennio
precedente
–
principalmente
sull’interpretazione
di
quell’art.
52
della
Costituzione
(e
da
quel
concetto,
“sacro
dovere
del
cittadino”…)
con
cui
abbiamo
cominciato
questa
trattazione,
e su
quel
pregiudizio
di
vecchia
data
secondo
il
quale
l’obiezione
di
coscienza,
se
garantita
all’ingegnoso
(eufemismo)
popolo
italiano,
sarebbe
sfociata
nell’abuso
sfrenato.
Tuttavia,
il
consenso
intorno
all’obiezione
di
coscienza
(sostenuta
dall’azione
dei
Gruppi
d’Azione
Nonviolenta,
o
G.A.N.,
fondati
nel
’63
e
diffusi
in
diverse
città
italiane)
ricominciò
allora
a
crescere,
come
testimoniato
dagli
attacchi
degli
avversari
–
sempre
più
caotici,
disordinati,
rabbiosi.
E
mentre
le
proposte
di
legge,
per
la
maggior
parte
avanzate
dal
P.S.I.,
continuavano
a
naufragare
inesorabilmente
(quella,
molto
liberale,
del
deputato
democristiano
Pistelli
risale
al
1964),
e ci
si
contentava
ancora
delle
dichiarazioni
possibilistiche
delle
autorità,
si
registrò
la
presa
di
posizione
di
don
Milani
e la
continuazione
delle
condanne
esemplari:
per
citare
due
casi,
quella
del
cattolico
Fabrizio
Fabbrini
(poi
presidente
del
M.I.R.,
Movimento
Internazionale
della
Riconciliazione,
gruppo
guida
nella
lotta
per
l’obiezione),
che
per
aver
abbandonato
la
divisa
a
soli
dieci
giorni
dalla
fine
del
periodo
di
leva
fu
condannato
a un
anno
e
otto
mesi
di
carcere,
e
quella
di
Luigi
Pagliarino
(Asti),
che
nel
’66
si
guadagnò
la
quinta
condanna
(tanto
da
portare
ad
una
riflessione
emblematica:
“Se
la
legge
proseguisse
il
suo
corso
inarrestabile,
egli
sarà
condannato
a un
totale
di
ventiquattro
anni
di
carcere
per
non
aver
imparato
a
uccidere”).
VERSO
LA
LEGGE
Nel
corso
dello
stesso
’66,
comunque,
fu
approvata
una
legge
–
proposta
dal
democristiano
Pedini
–
che
introduceva
una
sorta
di
servizio
sostitutivo
rispetto
a
quello
militare
per
una
quota
estremamente
limitata
di
giovani
con
titolo
di
studio
e
contratto
di
lavoro
in
Paesi
extraeuropei.
Mentre
il
P.C.I.
cominciava
ad
appoggiare
le
battaglie
degli
obiettori,
che
numericamente
erano
andati
crescendo
per
tutti
gli
anni
’60
–
passando
dai
4
del
1961
ai
41
del
’66
-
anche
il
Partito
Radicale
si
aggiunse
alle
fila
delle
forze
favorevoli
a
legiferare
sull’obiezione
di
coscienza,
e
nel
’69
si
costituì
una
Lega
per
il
riconoscimento
dell’obiezione
di
coscienza
per
iniziativa
di
quei
parlamentari
che
avevano
depositato
disegni
di
legge
su
questo
tema:
tutto
questo
portò,
verso
la
fine
del
decennio,
ad
una
maggiore
apertura
e
disponibilità
delle
gerarchie
militari
nei
confronti
dell’obiezione
– a
dire
il
vero,
più
per
contrastare
la
diffusione
di
concezioni
antimilitariste
all’interno
di
caserme
che
sempre
più
spesso
conoscevano
fenomeni
di
contestazione
che
per
motivazioni
progressiste
–
senza
peraltro
che
si
incrinasse,
invece,
la
durezza
della
detenzione
degli
obiettori
e la
severità
della
repressione
nei
loro
confronti.
Anche
per
i
militari
cominciava
a
diventare
necessaria
una
legge:
la
strada,
in
pratica,
era
spianata.
Oltre
al
progetto
di
legge
di
iniziativa
popolare
elaborato
dal
Movimento
nonviolento
di
Mestre
due
nuovi
disegni
di
legge
furono
consegnati
al
Senato
(Anderlini-Marcora)
e
tre
alla
Camera
(Fracanzani-Servadei-Martini);
nel
febbraio
del
1971,
poi,
la
Commissione
difesa
del
Senato
cominciò
l’esame
in
sede
referente
del
testo
elaborato
da
una
commissione
ristretta,
ed
approvò
un
disegno
di
legge
che
sarebbe
stato
ferocemente
contestato
dagli
obiettori
(l’obiettore
doveva
aver
fatto
“manifesta
professione”
dei
suoi
motivi
di
coscienza,
una
commissione
li
avrebbe
indagati,
l’alternativa
proposta
era
quella
di
“servizio
militare
non
armato”
per
non
dare
adito
a
tendenze
antimilitariste,
il
servizio
civile
sarebbe
stato
più
lungo
di
quello
militare,
in
caso
di
guerra
gli
obiettori
sarebbero
stati
impiegati
in
incarichi
di
particolare
pericolosità),
prima
di
decadere
–
quasi
sulla
linea
del
traguardo
– a
causa
della
sospensione
dei
lavori
parlamentari
per
l’elezione
del
Presidente
della
Repubblica
prima
e
per
lo
scioglimento
delle
Camere
poi.
Fu
così
che
si
recuperò
il
progetto
di
legge
Marcora
dell’anno
precedente,
dopo
i
ritocchi
imposti
dal
direttivo
della
D.C.
divenuto
particolarmente
restrittivo
(i
motivi
giustificatori
dell’obiezione
avrebbero
dovuto
“essere
attinenti
a
una
concezione
generale
della
vita
basata
su
profondi
convincimenti
religiosi
o
filosofici
di
cui
sia
stata
fatta
in
precedenza
manifesta
professione”,
la
commissione
avrebbe
dovuto
vagliare
“il
fondamento
dei
motivi
addotti”,
il
servizio
militare
non
armato
sarebbe
durato
venticinque
mesi,
in
tempo
di
guerra
gli
obiettori
sarebbero
stati
impiegati
“anche
per
attività
pericolose”).
Fu
così
che
la
legge
sull’obiezione
di
coscienza
vide
infine
la
luce
il
15
dicembre
del
1972,
dopo
quindici
anni
di
travagli.
LEGGE
15-12-1972
N°
772
Norme
per
il
riconoscimento
dell’obiezione
di
coscienza
Art.1.
Gli
obbligati
alla
leva
che
dichiarino
di
essere
contrari
in
ogni
circostanza
all’uso
personale
delle
armi
per
imprescindibili
motivi
di
coscienza,
possono
essere
ammessi
a
soddisfare
l’obbligo
del
servizio
militare
nei
modi
previsti
dalla
presente
legge.
I
motivi
di
coscienza
addotti
debbono
essere
attinenti
a
una
concezione
generale
della
vita
basata
su
profondi
convincimenti
religiosi
o
filosofici
o
morali
professati
dal
soggetto.
Non
sono
comunque
ammessi
ad
avvalersi
della
presente
legge
coloro
che
al
momento
della
domanda
risulteranno
titolari
di
licenze
o
autorizzazioni
relative
alle
armi
indicate,
rispettivamente
negli
articoli
28 e
30
del
testo
unico
della
legge
di
pubblica
sicurezza
o
siano
stati
condannati
per
detenzione
o
porto
abusivo
di
armi.
Art.2.
I
giovani
indicati
nel
primo
comma
dell’articolo
1
devono
presentare
domanda
motivata
ai
competenti
organi
di
leva
entro
60
giorni
dall’arruolamento.
Gli
abili
ed
arruolati,
ammessi
al
ritardo
e al
rinvio
del
servizio
militare
per
i
motivi
previsti
dalla
legge,
che
non
avessero
presentato
domanda
nei
termini
stabiliti
dal
comma
precedente,
potranno
produrre
ai
predetti
organi
di
leva
entro
il
31
dicembre
dell’anno
precedente
alla
chiamata
alle
armi
.
Art.3.
Il
Ministro
per
la
difesa,
con
proprio
decreto,
decide
sulla
domanda
sentito
il
parere
di
una
commissione
circa
la
fondatezza
e la
sincerità
dei
motivi
addotti
dal
richiedente.
Il
Ministro
decide
entro
sei
mesi
dalla
presentazione
della
domanda.
La
presentazione
alle
armi
è
sospesa
sino
a
quando
il
Ministro
per
la
difesa
non
si
sia
pronunciato
sulla
domanda.
Art.4.
La
commissione
di
cui
all’articolo
precedente
è
nominata
con
decreto
del
Ministro
per
la
difesa
ed è
composta
come
segue:
* da
un
magistrato
di
cassazione
con
funzioni
direttive,
designato
dal
Consiglio
superiore
della
magistratura,
presidente;
* da
un
ufficiale
generale
o
ammiraglio
in
servizio
permanente,
nominato
dal
Ministro
per
la
difesa;
* da
un
Professore
universitario
di
ruolo
di
discipline
morali,
designato
dal
Ministro
per
la
Pubblica
istruzione;
* da
un
sostituto
avvocato
generale
dello
Stato,
designato
dal
Presidente
del
Consiglio
dei
Ministri,
sentito
l’avvocato
generale
dello
Stato;
* da
un
esperto
in
psicologia
designato
dal
Presidente
del
Consiglio
dei
Ministri.
Le
funzioni
di
segretario
sono
svolte
da
un
funzionario
della
carriera
direttiva
amministrativa
del
Ministero
della
difesa.
La
commissione
raccoglie
e
valuta
tutti
gli
elementi
utili
ad
accertare
la
validità
dei
motivi
addotti
dal
richiedente.
La
commissione
dura
in
carica
tre
anni
e i
suoi
componenti
possono
essere
riconfermati
non
su
di
una
volta.
Il
ministro
per
la
difesa
ha
facoltà
di
nominare
una
o
più
commissioni.
Art.5.
I
giovani
ammessi
ai
beneÞci
della
presente
legge
devono
prestare
servizio
militare
non
armato,
o
servizio
sostitutivo
civile,
per
un
tempo
superiore
di
otto
mesi
alla
durata
del
servizio
di
leva
cui
sarebbero
tenuti.
Il
Governo
della
Repubblica
è
autorizzato
ad
emanare
le
norme
regolamentari
relative
all’attuazione
della
presente
legge.
Qualora
l’interessato
opti
per
il
servizio
sostitutivo
civile,
il
Ministro
per
la
difesa,
nell’attesa
dell’istituzione
del
Servizio
civile
nazionale,
distacca
gli
ammessi
presso
enti,
organizzazioni
o
corpi
di
assistenza,
di
istruzione,
di
protezione
civile
e di
tutela
ed
incremento
del
patrimonio
forestale,
previa
stipulazione,
ove
occorra,
di
speciali
convenzioni
con
gli
enti,
organizzazioni
o
corpi
presso
i
quali
avviene
il
distacco.
Art.6.
Decade
dal
beneficio
dell’ammissione
al
servizio
civile
sostitutivo
chi:
a)
omette,
senza
giusto
motivo,
di
presentarsi
entro
quindici
giorni
da
quello
stabilito,
all’ente,
organizzazione
o
corpo
cui
è
stato
assegnato;
b)
commette
gravi
mancanze
disciplinari
o
tiene
condotta
incompatibile
con
le
finalità
dell’ente,
organizzazione
o
corpo
cui
appartiene.
Il
provvedimento
è
adottato
dal
Ministro,
sentito
il
parere
della
commissione
di
cui
all’articolo
4.
Art.7.
Colui
che
presta
servizio
sostitutivo
civile
nei
modi
previsti
dalla
presente
legge,
non
può
assumere
impieghi
o
uffici
pubblici
o
privati
o
iniziare
attività
professionali.
Il
trasgressore
sarà
punito
con
la
pena
della
reclusione
Þno
a un
anno.
Per
colui
che
già
si
trovasse
nell’esercizio
delle
attività
e
delle
funzioni
di
cui
al
primo
comma
si
applicano
le
disposizioni
valevoli
per
i
cittadini
chiamati
al
servizio
militare.
Art.8.
Chiunque
ammesso
ai
beneÞci
della
presente
legge,
rifiuti
il
servizio
militare
non
armato
o il
servizio
sostitutivo
civile
è
punito,
se
il
fatto
non
costituisca
più
grave
reato,
con
la
reclusione
da
due
a
quattro
anni.
Alla
stessa
pena
soggiace,
sempre
che
il
fatto
non
costituisca
più
grave
reato,
chiunque,
al
di
fuori
dei
casi
di
ammissione
ai
beneÞci
della
presente
legge,
rifiuta,
in
tempo
di
pace,
prima
di
assumerlo,
il
servizio
militare
di
leva,
adducendo
i
motivi
di
cui
all’articolo
1.
L’espiazione
della
pena
esonera
dalla
prestazione
del
servizio
militare
di
leva.
L’imputato
e il
condannato
possono
far
domanda
di
essere
nuovamente
assegnati,
nel
caso
di
cui
al
primo
comma,
o di
essere
ammessi,
nel
caso
di
cui
al
secondo
comma,
ad
un
servizio
militare
non
armato
o a
un
servizio
sostitutivo
civile.
L’imputato
e il
condannato
ai
sensi
del
secondo
comma
possono
far
domanda
di
essere
arruolati
nelle
forze
armate.
Sulle
domande
decide
il
Ministro
per
la
difesa,
sentita,
nei
casi
di
cui
al
quarto
comma,
la
commissione
prevista
dall’articolo
4.
L’accoglimento
delle
domande
estingue
il
reato
e,
se
vi è
stata
condanna,
fa
cessare
l’esecuzione
della
condanna,
le
pene
accessorie
ed
ogni
altro
effetto
penale.
Il
tempo
trascorso
in
stato
di
detenzione
è
computato
in
diminuzione
della
durata
prescritta
per
il
servizio
militare,
armato
o
non
armato,
o
per
il
servizio
sostitutivo
civile
.
Art.9.
A
coloro
che
siano
stati
ammessi
a
prestare
servizio
militare
non
armato
o
servizio
sostitutivo
civile
è
permanentemente
vietato
detenere
ed
usare
le
armi
e
munizioni,
indicate
rispettivamente
negli
articoli
28 e
30
del
testo
unico
della
legge
di
pubblica
sicurezza,
nonché
fabbricare
e
commerciare,
anche
a
mezzo
di
rappresentante,
le
armi
e le
munizioni
predette.
È
fatto
divieto
alle
autorità
di
pubblica
sicurezza
di
rilasciare
o
rinnovare
ai
medesimi
alcuna
autorizzazione
relativa
all’esercizio
delle
attività
di
cui
al
comma
precedente.
Chi
trasgredisce
ai
adesso
viti
di
cui
al
primo
comma
è
punito,
qualora
il
fatto
non
costituisca
reato
più
grave,
con
l’arresto
da
un
mese
a
tre
anni
e
con
l’ammenda
di
lire
40
mila
a
170
mila
e,
inoltre,
decade
dai
beneÞci
previsti
dalla
presente
legge.
Art.10.
In
tempo
di
guerra
gli
ammessi
a
prestare
servizio
militare
non
armato
o
servizio
civile
sostitutivo
possono
essere
assegnati
a
servizi
non
armati,
anche
se
si
tratti
di
attività
pericolose.
Art.11.
I
giovani
ammessi
ad
avvalersi
delle
disposizioni
della
presente
legge
sono
equiparati
ad
ogni
effetto
civile,
penale,
amministrativo,
disciplinare,
nonché
nel
trattamento
economico,
ai
cittadini
che
prestano
il
normale
servizio
militare.
Art.12.
Coloro
che,
anteriormente
alla
data
di
entrata
in
vigore
della
presente
legge,
siano
stati
imputati
o
condannati
per
i
reati
militari
determinati
da
obiezioni
di
coscienza,
possono,
entro
trenta
giorni
dalla
data
stessa,
presentare
la
domanda
di
cui
al
precedente
articolo
2 ,
dichiarando
di
assoggettarsi
alla
prestazione
del
servizio
militare
non
armato
o
del
servizio
sostitutivo
civile
ai
sensi
del
precedente
articolo
5.
Il
Ministro
per
la
difesa
deve
provvedere
alla
decisione
sulle
domande
nel
termine
abbreviato
di
trenta
giorni
dalla
presentazione
della
domanda.
L’inosservanza
del
termine
di
cui
al
comma
precedente
comporta
accoglimento
della
domanda.
La
competente
autorità
giudiziaria
sospende
l’azione
penale
Þno
alla
decisione
del
Ministro.
In
caso
di
accoglimento
della
domanda
cessano
gli
effetti
penali
delle
sentenze
di
condanna
già
pronunciata,
anche
se
divenute
irrevocabili.
Il
tempo
trascorso
in
stato
di
detenzione
sarà
computato
in
diminuzione
della
durata
prescritta
per
il
servizio
militare
non
armato
o
per
il
servizio
sostitutivo
civile.
In
ogni
caso,
se
il
tempo
trascorso
in
stato
di
detenzione
sarà
stato
superiore
a un
anno,
il
detenuto
sarà
inviato
in
congedo
illimitato.
Art.13.
Gli
arruolati
che
alla
data
di
entrata
in
vigore
della
presente
legge
siano
in
attesa
di
chiamata
alle
armi
possono
produrre
ai
componenti
organi
di
leva
la
domanda
di
ammissione
ai
beneÞci
della
presente
legge
entro
30
giorni
dalla
data
di
entrata
in
vigore
della
legge
stessa.