N. 48 - Dicembre 2011
(LXXIX)
Un nuovo panarabismo
Viaggio tra i fattori delle rivolte arabe
di Federico Donelli
In seguito agli avvenimenti che hanno colpito e colpiscono tuttora i Paesi del Medio Oriente, diversi analisti ed osservatori del mondo arabo si stanno domandando quali potrebbero essere gli scenari futuri tra le possibili aperture democratiche e il rischio di derive islamiche.
Altri
analisti
invece
si
soffermano
sui
fattori
che
in
così
breve
tempo
hanno
alimentato
le
rivolte
focalizzando
la
propria
attenzione,
nella
maggior
parte
dei
casi,
sull’aspetto
che
fino
a
gennaio
aveva
caratterizzato
il
mondo
politico
arabo
ovvero
il
persistere
di
regimi
non
democratici.
Il
drastico
calo
di
popolarità
e
consensi
dei
regimi
aveva
toccato
ormai
da
anni
il
minimo
storico
a
causa
dell’immobilismo
e
della
palese
incapacità
dei
governanti
di
affrontare
le
nuove
e
molteplici
sfide
in
campo
economico,
sociale
e
politico.
Regimi
che
in
passato
avevano
superato
indenni
decenni
caratterizzati
da
diverse
“ondate”
democratiche
che,
a
più
riprese,
avevano
attraversato
l’America
Latina,
l’Asia,
l’Europa
dell’Est
e
persino
lo
stesso
Medio
Oriente.
In
quei
frangenti
i
Paesi
arabi
risposero
alle
richieste
democratiche
delle
popolazioni
in
modi
diversi;
coloro
che
godevano
di
enormi
rendite
petrolifere
(Arabia
Saudita,
Libia)
superarono
le
crisi
attraverso
l’aumento
dei
salari
pubblici
e
dei
sussidi,
altri
Paesi
(Tunisia,
Egitto)
furono
costretti
a
concessioni
costituzionali
ed a
riforme
in
campo
economico,
altri
ancora
(Siria,
Yemen)
portarono
avanti
sanguinose
repressioni.
Anche
per
questi
motivi,
le
rivolte
mediorientali
hanno
colto
di
sorpresa
la
maggior
parte
degli
analisti
convinti
che
eventuali
nuove
proteste
sarebbero
state
placate
sul
nascere
dai
regimi
attraverso
l’utilizzo
di
uguali
contromisure
e,
nei
casi
più
estremi,
attraverso
ulteriori
restringimenti
delle
libertà
individuali.
Questo
aspetto
denota
come
gli
osservatori
occidentali
abbiano
commesso
una
diversi
errori
di
valutazione
non
cogliendo
una
serie
di
elementi
risultati
decisivi
per
il
buon
esito
delle
rivolte.
Tra
gli
elementi
sottovalutati
alcuni
appaiono
maggiormente
rilevanti
come:
la
reale
ed
ampia
portata
del
malessere
covato
da
tempo
dalle
popolazioni,
la
debolezza
strutturale
di
regimi
ormai
logori
e,
elemento
molto
importante,
il
livello
di
maturità
raggiunto
dai
diversi
attori
della
futura
“primavera
araba”
in
particolare
delle
giovani
generazioni.
Il
ruolo
cruciale
avuto
dai
giovani
in
questa
nuova
stagione
di
rivolte,
in
particolare
in
Tunisia
ed
Egitto
senza
dimenticare
il
Movimento
Verde
in
Iran
(2009),
non
rappresenta
una
novità
nel
contesto
arabo.
Storicamente,
rimanendo
nell’area
del
Maghreb,
si
potrebbe
ricordare
l’Algeria
nel
1988
quando
esplose
la
protesta
contro
il
carovita
nota
come
“la
rivolta
del
cuscus”.
Protagonisti
anche
allora
furono
i
giovani
studenti
a
cui
lo
Stato
garantiva
l’istruzione
ma
che
condannava
ad
una
sicura
disoccupazione
e ad
un
ruolo
marginale
nella
società.
Una
ulteriore
lacuna
degli
specialisti
mediorientali
viene
evidenziata
dal
Professor
Gause
III
il
quale
pone
al
centro
della
propria
analisi
un
aspetto
culturale
che
sembrava
essere
venuto
meno
negli
ultimi
anni:
l’identità
pan-araba.
In
questo
2011
di
rivolte
l’idea
di
un’identità
araba
comune,
figlia
della
storica
e a
volte
conflittuale
dialettica
islamismo-arabismo,
pare
essersi
risvegliata
da
un
lungo
letargo
iniziato
nel
1967
all’indomani
della
dura
sconfitta
dei
Paesi
arabi
nella
Guerra
dei
sei
giorni.
Il
1967
per
il
mondo
arabo
fu
una
sorta
di
anno
zero;
la
sconfitta
dell’ideale
di
Nasser,
del
socialismo
arabo,
portò
con
sé
oltre
ad
inevitabili
ripercussioni
politiche
anche
una
profonda
crisi
d’identità
e
culturale
che
suggellò,
apparentemente,
la
fine
di
quella
solidarietà
araba
che
aveva
caratterizzato
gli
anni
precedenti.
L’ideale
dell’unificazione
araba,
la
“nazione
araba”,
andò
definitivamente
in
frantumi
lasciando
spazio
ai
nazionalismi
locali
e a
forze
reazionarie
che
portarono
ad
una
profonda
riarticolazione
politica
dell’intero
universo
arabo.
La
totale
frammentazione
del
quadro
politico
risultò
evidente
nelle
diverse
strategie
portate
avanti
nei
confronti
del
nemico
storico,
Israele,
culminate
con
gli
accordi
di
Camp
David
conclusi
dall’Egitto
di
Sadat
(1978)
e la
pace,
con
annesso
riconoscimento
ufficiale
dello
Stato
ebraico,
siglata
dalla
Giordania
(1994).
L’identità
araba
però
è
sopravvissuta
all’eclissi
del
nasserismo
prima
e
del
panarabismo
del
Ba’th
poi
godendo
di
radici
molto
più
profonde
risalenti
al
vecchio
ideale
del
Califfato
e
all’originaria
idea
di
comunità
(Ummah).
In
questo
profondo
legame
emerge
in
tutta
la
sua
consistenza
la
radice
islamica
come
comune
denominatori
delle
diverse
popolazioni
arabe.
Si
deve
risalire
al
Profeta
Maometto
che
sostituì
il
vincolo
di
sangue,
fondamento
delle
tribù
pre-islamiche,
con
il
vincolo
della
comune
fede
nell’Islam
dando
vita
ad
una
comunità
che
il
Corano
stesso
considera
superiore
alle
altre
comunità
umane.
Tratto
rilevante
è
che
l’unità
spirituale
assoluta
della
ummah
non
esclude
affatto
una
molteplicità
di
strutture
sociali
e
istituzioni
che
oggi
definiremmo
politiche
(Stati);
le
diversità
vengono
viste
come
un
valore,
riconosciuto
e
accettato
dal
Corano
stesso.
Da
questo
contesto
nel
secolo
scorso
è
emerso
il
concetto
di
al-umma
al-‘arabiya,
presente
anche
in
diverse
costituzioni
(Egitto,
Algeria),
ovvero
la
comunità
araba
nel
senso
di
nazione
araba.
Un
qualcosa
di
superiore
alle
singole
entità
statali,
un
legame
definibile
come
sopranazionale.
Passata
in
secondo
piano
l’idea
di
nazione
araba,
l’identità
araba
comune
non
svanì,
ma
continuò
a
vivere
sottotraccia
per
poi
riemergere
quest’anno
sotto
nuova
forma.
Non
più
attraverso
il
carisma
di
un
leader
con
le
sue
aspirazioni
e i
suoi
progetti
politici
(Nasser),
ma
direttamente
dalla
popolazione,
dalla
gente
comune.
Tunisini
così
come
egiziani
e
siriani
hanno
riscoperto
il
loro
profondo
legame
nella
comune
lotta
contro
i
regimi
autoritari
e
corrotti
dei
propri
Paesi.
Questo
carattere
comune
ha
facilitato
il
diffondersi
del
germe
rivoluzionario
tanto
che
in
meno
di
un
mese
dai
gelsomini
tunisini,
le
proteste
avevano
toccato
le
piazze
dell’intero
mondo
arabo.
Il
fatto
stesso
che
le
rivolte
fossero
in
atto
in
un
Paese
avente
comune
matrice
storica
e
culturale
ha
dato
la
speranza
alle
popolazioni
degli
altri
Paesi
di
poterne
seguire
l’esempio.
Ancora
una
volta
la
comunità
araba
si è
trovata
unita
nel
combattere
un
nemico
comune;
non
più
il
colonialismo,
non
l’imperialismo
occidentale
identificato
nello
Stato
di
Israele,
ma i
loro
stessi
governanti
arabi.
Non
vi è
alcun
progetto
politico
alle
spalle,
la
nuova
forma
di
pan-arabismo
non
mira
ad
unire
i
confini
nazionali;
l’agenda
e i
programmi
dei
movimenti
sono
esclusivamente
nazionali.
La
grande
novità,
di
cui
si
dovrà
tener
conto,
è
proprio
la
consapevolezza
che
ciò
che
accade
in
un
Paese
arabo
influenzi
anche
tutti
gli
altri
Paesi
in
modo
imprevedibile
come
in
un’unica
grande
comunità.
La
nuova
comune
identità
araba
comporterà
inevitabili
ripercussioni
anche
sui
futuri
assetti
geopolitici
del
Medio
Oriente.
Un
mondo
arabo
coeso
e
solidale
potrebbe
diventare
attore
protagonista
degli
equilibri
regionali,
molto
più
di
quanto
non
sia
mai
stata
la
Lega
Araba,
mettendo
in
primo
piano
delicate
questioni
ancora
irrisolte
come
il
complesso
rapporto
con
l’Occidente
e il
conflitto
israelo-palestinese.