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N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

LA NOTTE DI TARANTO
LA PEARL HARBOUR ITALIANA

di Cristiano Zepponi

 

Subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista, nel giugno del 1940, la pochezza dell’apparato bellico nostrano era apparsa chiara alla maggior parte degli addetti ai lavori; solo la Regia Marina, in quei giorni, sembrava potesse riscattare l’orgoglio militaresco del Paese.


Negli ammiragliati di tutta europa, prima del conflitto, la flotta italiana era considerata tra le primissime al mondo anche perchè superava numericamente la Mediterranean Fleet inglese, il principale sfidante. Nessuno, allora, sapeva valutarne pienamente le lacune: l’assenza di radar e portaerei, la carente coordinazione con l’aviazione e lo scadente addestramento nei combattimenti notturni.

Alcuni hanno proposto che già al tempo del conflitto italo-etiopico, quando gli ammiragli inglesi – per determinare, bluffando, la sospensione delle ostilità – rafforzarono la flotta mediterranea, fosse già circolata l’idea di ripianare in caso di guerra i rapporti di forza colpendo gli italiani nella loro tana, la base navale di Taranto.

La portaerei, autentica new entry nel campo delle battaglie navali, sembrava lo strumento adatto allo scopo; ma alla fine, il governo inglese ritirò i bellicosi propositi nel cassetto, e si limitò ad accodarsi alla blanda applicazione delle sanzioni stabilite dalla morente Società delle Nazioni.

Tuttavia, il progetto – l’impiego cioè di una forza economica, sostituibile e numericamente esigua di aerosiluranti imbarcati, per colpire una forza di per sé costosa, difficilmente sostituibile ed immobile – fu riproposto alla prima occasione valida, dopo lo scoppio del nuovo conflitto.

Churchill, che durante la Grande guerra aveva ricoperto la carica di primo Lord dell’Ammiragliato, sosteneva strenuamente le teorie d’impiego dell’aerosilurante; potè alfine veder realizzati i suoi desideri quando il 3 luglio del 1940 la Forza H dell’ammiraglio Somerville distrusse a Mers El Kebir quasi integralmente quella che una volta era stata la flotta francese alleata, colandone a picco le corazzate Dunkerque, Bretagne e Provence per evitare che andassero ad ingrossare le file della Kriegsmarine tedesca.

Le alte cariche della Marina italiana, inspiegabilmente, non trassero nessun insegnamento dal disastro di Mers El Kebir: sottovalutarono l’efficacia degli aerosiluranti, nonostante la prima dimostrazione di un lancio di siluri dall’aria andasse ascritta al capitano del genio navale Guidoni, nel lontano 1911, e scelsero di lasciare le navi in parata nei bacini, a fare da bersaglio.

Anche il servizio informazioni, nell’occasione, fornì una prova mediocre. Si lasciò sfuggire, infatti, che nel 1938 il capitano di vascello Lyster, comandante della portaerei Glorious, aveva preparato un piano per l’attacco di aerosiluranti su Taranto; e per questo, ignari di quanto si andava preparando, non si agitarono quando lo stesso capitano, a bordo della portaerei Illustrious, forzò il Canale di Sicilia, riunendosi alla flotta inglese di stanza ad Alessandria.

Gli alti gradi decisero di concentrare in una sola base - Taranto - la flotta italiana dopo l’inizio delle ostilità con la Grecia, il 28 ottobre 1940: si riteneva, infatti, che solo da quella posizione le navi avrebbero potuto operare indifferentemente lungo le rotte per la Grecia e per l’Africa.


Ma era, a tutti gli effetti, un errore fondamentale.

A questo, altri se ne aggiunsero: su 12.800 metri di reti antisiluro previste per la protezione del Mar Grande, solo 4.200 metri erano stati sistemati in acqua; la ricognizione aerea inglese, indisturbata, poté accatastare nei giorni precedenti l’attacco pile di fotografie raffiguranti proiettori, batterie contraeree, palloni aerostatici e punti di ancoraggio; e le informazioni fornite dai servizi segreti britannici, d’altro canto, permisero di regolare la profondità dei siluri a 10, 60 metri, sessanta centimetri più in basso delle reti di protezione.

L’attacco, che nei piani originari doveva scattare la sera del 21 ottobre 1940 (135° anniversario della vittoria di Nelson a Trafalgar) fu differito a causa di una serie di contrattempi capitati a bordo della Illustrious, comandata dal capitano Boyd.


Il 6 novembre, infine, la squadra navale inglese lasciò il porto di Alessandria e si riunì con quella di Gibilterra; attraccò a Malta il 9, prima di proseguire da sola, avventurandosi nel basso Ionio.


Al largo dell’isola di Zante (Peloponneso), alle 18 dell’11 novembre, la Illustrious si separò dalla formazione con una piccola scorta. Due ore e mezzo dopo, alle 20,35, decollò la prima ondata d’incursori; la seconda prese il volo alle 21,30 circa.

Non erano prodigi tecnologici, i biplani Fairey Swordfish (Pescespada) lanciati all’assalto della roccaforte italiana, tenuti insieme com’erano da un intricato ammasso di funi e tiranti. Ma gli antiquati “grovigli di fili”, com’erano soprannominati, pur sbuffando sotto i colpi di uno scoppiettante motorino di 690 HP, pur essendo meno rapidi di una locomotiva a vapore, colsero gli italiani di sorpresa.

Dopo aver lanciato bengala illuminanti, i commoventi trabiccoli dell’aria superarono i 101 cannoni antiaerei, le 68 mitragliere pesanti e le 109 leggere che proteggevano la rada e si lanciarono a capofitto contro le corazzate italiane, colpendone gravemente tre (Duilio, Littorio e Cavour), che per evitare l’affondamento furono portate ad incagliarsi su bassi fondali, e danneggiando in modo minore il Trento ed i caccia Libeccio e Pessagno.

Fu la nostra Pearl Harbour, ma senza avviare quel processo di reazione ed autocritica che avrebbe decretato in breve la fine dell’egemonia giapponese. Il “colpo paralizzante” dell’operazione Judgement decretò la fine dell’illusione che il Mediterraneo costituisse il “Mare Nostrum”, e condannò ad una semi-inattività permanente la flotta italiana, che non si sarebbe più ripresa da quel colpo mortale.

I giornali di tutto il modo, tranne quelli italo-tedeschi, osannarono l’inattesa vittoria, mentre i bollettini di guerra fascisti continuarono a mentire sull’entità dei danni subiti, millantando inesistenti abbattimenti. E Churchill ne approfittò per una stoccata sarcastica: “Questo avvenimento particolare”, riferì il giorno dopo ai Comuni, “assume il sapore di una beffa per il fatto che, nello stesso giorno […] l’aviazione italiana, per espresso desiderio del signor Mussolini, ha partecipato con propri aerei alle azioni di bombardamento dell’Inghilterra. Certo, gli aviatori italiani avrebbero fatto molto meglio se fossero rimasti a difendere la loro flotta nel porto di Taranto”.


Cinquantanove vite umane, in effetti, non sarebbero state sacrificate sull’altare di una guerra inutile.

 

 

 

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