N. 126 - Giugno 2018
(CLVII)
su norberto bobbio
il
filosofo
torinese
e i
suoi
pensatori
di
riferimento
di
Gaetano
Cellura
Max
Weber
e
Gramsci.
Machiavelli
e
Tommaso
Hobbes.
Platone
e
Aristotele.
Sono
i
grandi
pensatori
della
politica
di
cui
Bobbio
si è
sempre
occupato:
diceva
infatti
che
nella
Politica
di
Aristotele
c’era
già
tutto
quello
che
si
deve
sapere
dei
suoi
meccanismi.
Su
Machiavelli
“si
può
dire
tutto
e il
contrario
di
tutto”.
Esaltava
ora
le
virtù
repubblicane
ora
il
Principe
dei
“torbidi
consigli”.
A
cominciare
dalla
“famosa
asserzione
che
il
fine
giustifica
i
mezzi”
e
che
si
legge
nel
capitolo
XVIII
dell’opera:
«Facci
dunque
uno
principe
di
vincere
e
mantenere
lo
stato;
i
mezzi
saranno
sempre
iudicati
onorevoli
e da
ciascuno
laudati».
Di
Hobbes
apprezzava
la
ricerca
della
pace
come
soluzione
dei
conflitti:
pax
est
quaerenda.
Perché
la
politica
è in
ultima
istanza
“l’arte
della
convivenza
fra
gli
uomini”.
Ma
mettere
in
dubbio
che
sia
anche
lotta
destinata
a
sfociare
nella
violenza
significa,
per
Bobbio,
“chiudere
gli
occhi
di
fronte
alla
realtà”.
Per
fortuna
esiste
il
dialogo
fra
le
parti
avverse,
che
può
portarle
a un
“pacifico
compromesso”,
a
contenere
i
conflitti.
E in
questo
risiede
la
“superiorità
della
democrazia
su
ogni
altra
forma
di
governo”.
La
democrazia
ha
meccanismi
e
regole
del
gioco
tali
da
“risolvere
i
conflitti
sociali
senza
che
vi
sia
bisogno
di
ricorrere
alla
violenza”.
Il
filosofo
torinese
vedeva
nell’aumento
sproporzionato
della
popolazione
mondiale
una
delle
cause
che
ne
avrebbe
accresciuto
i
conflitti.
E
anche
per
parlare
di
questo
problema
del
futuro
ricorreva
alla
massima
hobbesiana
homo
homini
lupus.
Hegel
dava
conforto
al
suo
pessimismo
esistenziale
e
storico.
E
per
questo
Bobbio
amava
ripetere
quello
che
l’autore
della
Fenomenologia
dello
spirto
ha
detto
sul
senso
della
storia:
un
enorme
mattatoio.
Gregorio
Peces
Barba
Martinez,
presidente
del
parlamento
spagnolo,
ha
definito
“biologico”
questo
pessimismo
di
Bobbio.
E
può
essere.
Ma
per
il
suo
allievo
Michelangelo
Bovero
si
trattava
anche
di
un
atteggiamento
liberamente
assunto,
di
preoccupante
diffidenza
verso
il
futuro.
Citando
Hegel,
Bobbio
diceva
che
il
filosofo
non
s’intende
di
profezie
e
citando
Max
Weber
diceva
che
la
cattedra
non
è né
per
i
demagoghi
né
per
i
profeti.
Benché
nel
1977
abbia
scritto
un
articolo
sul
dovere
di
essere
pessimisti;
benché
abbia
affermato
che
non
tutti
gli
ottimisti
sono
fatui,
ma
che
“certamente
tutti
i
fatui
sono
ottimisti”,
Bovero
ci
ammonisce
a
non
fare
del
pessimismo
di
Bobbio
uno
stereotipo:
perché
metterebbe
in
secondo
piano
la
tensione
ideale
della
sua
opera
“verso
un
mondo
più
civile
e
più
umano”.
Quando
il
discorso
finiva
sul
liberalismo,
Bobbio
partiva
sempre
dalla
“famosa
distinzione
di
Benjamin
Constant
tra
la
libertà
degli
antichi
e
quella
dei
moderni”.
Il
liberalismo
moderno
è
quello
che
si
identifica
con
“la
libertà
dello
stato”.
Ciò
che
lo
fa
considerare
di
destra,
“contrapposto
a
una
sinistra
che
privilegiava
lo
stato
rispetto
all’individuo,
il
pubblico
rispetto
al
privato”.
Ma
sono
per
Norberto
Bobbio
distinzioni
sul
punto
di
dissolversi.
«Oggi
non
ripubblicherei
–
dice,
discutendone
con
Rutelli
su
La
Stampa
nel
2001
– il
mio
libro
su
Destra
e
Sinistra».
Perché
non
si
può
dire,
di
fronte
alla
globalizzazione,
di
fronte
alle
trasformazioni
dell’economia
e
della
politica,
che
l’uguaglianza
è di
sinistra
e la
libertà
di
destra,
che
la
sinistra
è
più
stato
e
meno
mercato
e la
destra
più
mercato
e
meno
stato.
Per
l’autore
di
Destra
e
Sinistra
con
la
globalizzazione
lo
Stato,
assorbito
“nel
grande
mercato”,
ha
perso
la
sua
auctoritas;
e la
politica
è
diventata
dipendente
dalla
finanza
e
dall’economia,
dal
loro
intrecciato
rapporto.
Solo
un’autorità
super
statale
può
restituire
sovranità
agli
Stati.
Weber
è
stato
l’ultimo
dei
grandi
pensatori
della
politica
(e
in
Italia
Gramsci),
è
l’autore
dell’Etica
protestante
e lo
spirito
del
capitalismo
e
della
Politica
e la
scienza
come
professioni
a
dirci
che
il
Rinascimento,
con
il
suo
“grande
moto
di
rinnovamento
culturale”,
dà
inizio
all’età
del
disincanto.
«Da
questo
punto
di
vista
–
dice
Bobbio
– il
Rinascimento
precede
l’Illuminismo,
la
philosophie
des
lumières».
E
cioè,
come
diceva
Kant,
l’uscita
dell’uomo
dalla
minore
età.
Per
Weber
il
carisma
di
un
personaggio
storico
era
una
delle
principali
fonti
di
legittimazione
del
potere.
Bobbio
ritiene
invece
il
capo
carismatico
come
“la
negazione
della
democrazia
in
quanto
rappresenta
una
forma
tipica
ed
estrema
di
potere
autocratico,
che
scende
dall’alto
in
basso,
in
contrapposizione
al
potere
dal
basso
in
alto,
in
cui
consiste
la
democrazia”.
Nella
dimensione
della
teologia
politica
corrisponde
al
monoteismo;
e
nella
nascita
dei
moderni
stati
totalitari
all’uomo
del
destino.
La
cui
apparizione
è
favorita
dalle
situazioni
straordinarie
che
sono
conseguenza
o di
una
guerra
civile
(la
Spagna
di
Franco),
o di
una
rivoluzione
(la
Russia
di
Lenin),
o
“da
una
crisi
mortale
di
uno
stato
democratico”
(il
fascismo
in
Italia,
il
nazismo
in
Germania).
Anche
se
Marx
non
era
tra
i
suoi
autori
prediletti,
Bobbio
rimase
affascinato
dal
suo
pensiero
politico
e
filosofico.
Frutto
di
questo
fascino
sono
Politica
e
cultura
(1955),
dialogo
su
marxismo
e
comunismo
in
piena
guerra
fredda,
Il
futuro
della
democrazia
(1984)
e
gli
Scritti
su
Marx.
Quest’ultima
opera,
inedita
fino
al
2014,
ci
offre
una
lettura
liberalsocialista
del
filosofo
nato
a
Treviri.
«Centrata
–
scrive
Nadia
Urbinati
–
sul
primato
del
potere
economico,
la
diagnosi
critica
della
riduzione
del
lavoro
a
merce
e la
ricerca
di
una
società
nella
quale
l’individuo
dovrebbe
godere
della
libertà
che
il
liberalismo
ha
promesso
senza
riuscire
a
garantire».
Ma
il
vero
fascino
Bobbio
lo
provava
per
l’analisi
del
potere
e
dell’azione
politica.
Andava
alla
ricerca
di
un’opera
sulla
tecnica
del
potere
segreto
e
scriveva
che
dove
c’è
il
tiranno,
lì
c’è
il
complotto:
e se
non
c’è
lo
si
crea.
Vedeva
connaturate
nell’azione
politica
due
tecniche
specifiche:
«Sottrarsi
alla
vista
del
pubblico
nel
momento
in
cui
si
prendono
deliberazioni
d’interesse
politico,
e
mettersi
la
maschera
quando
si è
costretti
a
presentarsi
in
pubblico».
Norberto
Bobbio
ci
ricorda
che
la
figura
di
cui
gli
scrittori
politici
si
servivano
“per
raffigurare
una
delle
forme
del
potere
è
Proteo
o il
camaleonte
che
si
rende
irriconoscibile
mutando
continuamente
il
proprio
aspetto”.
Dietro
la
maschera
si
sospetta
e si
teme
l’ignoto,
diceva
Canetti.
Non
riesci
a
leggere
“su
di
lei
il
mutare
dell’animo
come
su
un
volto”.
E
nulla
può
confonderti
più
del
non
vedere
il
vero
volto
dell’avversario.
Il
tiranno
per
il
filosofo
torinese
ha
una
necessaria
controfigura:
il
congiurato.
Citava
uno
degli
ultimi
racconti
di
Calvino,
dove
il
re,
seduto
sul
trono,
sente
in
ogni
rumore
“l’indizio
di
chi
sa
quale
sovvertimento”.
Ovunque,
nella
propria
corte,
nei
suoi
stessi
servizi
segreti,
vede
congiure
e
spie.
Filosofo
del
diritto
e
della
storia,
scienziato
della
politica,
Bobbio
interpretava
lo
stalinismo
“come
la
scoperta
che
il
tiranno
fa,
e
solo
il
tiranno
è in
grado
di
fare,
dell’universo
come
un
immenso
complotto”.
Il
futuro
della
democrazia
raccoglie
molti
dei
temi
che
più
gli
stavano
a
cuore:
la
politica
e la
cultura,
la
pace
e la
guerra,
il
governo
dei
cittadini
e
quello
dei
tiranni,
la
critica
ai
socialismi
reali,
la
contrapposizione
tra
lo
stato
minimo
dei
liberali
e lo
stato
massimo
(o
stato-benessere)
dei
socialdemocratici,
la
democrazia
diretta
e
quella
rappresentativa
con
i
principali
pericoli
che
la
minacciano
–
clientelismo,
sottogoverno,
corruzione,
forze
politiche
eversive
e
occulte.
Nell’anno
in
cui
esce
la
prima
edizione
di
questo
suo
saggio,
letto
per
la
prima
volta
di
fronte
al
Parlamento
spagnolo
dopo
la
fine
del
franchismo,
Craxi
viene
eletto
per
acclamazione
segretario
del
Partito
socialista
al
congresso
di
Verona.
Bobbio
era
contrario
a
questo
tipo
di
elezione.
Non
la
riteneva
democratica,
perché
il
capo
eletto
in
questo
modo
non
è
responsabile
di
fronte
ai
suoi
elettori.
E lo
scrisse
sulla
Stampa
in
un
articolo
che
s’intitolava
La
democrazia
dell’applauso.
Quello
stesso
anno
Pertini
lo
nomina
Senatore
a
vita.
Nato
nel
1909,
morto
nel
2004,
Bobbio
(che
aveva
aderito
al
Psi
nel
1942,
dopo
lo
scioglimento
del
Partito
d’Azione)
ha
assistito
nella
sua
lunga
vita
a
tre
“grandi
rotture”:
alla
fine
dell’età
giolittiana
e
alla
nascita
del
fascismo,
ed
era
ancora
un
ragazzo;
poi,
diventato
adulto,
“alla
caduta
del
fascismo
e
alla
instaurazione
di
un
governo
democratico”;
infine,
entrato
nella
vecchiaia,
“alla
fine
ingloriosa
della
Prima
Repubblica”.
Del
nuovo
partito
di
Berlusconi
diede
nel
1994
la
definizione
di
partito
personale
di
massa.
E
chiedeva
al
suo
fondatore
cos’era
esattamente
questo
partito:
come
si
finanziava,
come
intendeva
rispettare
forme,
regole
e
procedure
elettorali
per
non
favorire
i
più
forti
e
ricchi.
Per
lui
i
problemi
erano
seri
ed
enormi
e
riteneva
inutile
e
imprudente
semplificarli.
Sin
dall’inizio
degli
anni
Cinquanta,
alla
“politica
culturale”
dei
comunisti
contrapponeva
una
“politica
della
cultura”,
intesa
come
difesa
della
libertà
e
dello
spirito
di
verità,
senza
cui
non
vi è
cultura.
Come
ha
scritto
Claudio
Magris,
della
nostra
società
Bobbio
incarnava
ciò
che
le
manca.
E
cioè
la
capacità
di
ragionare
e di
distinguere,
“premessa
fondamentale
dell’onestà
verso
gli
altri
e
verso
se
stessi”.