N. 132 - Dicembre 2018
(CLXIII)
Roma, Amor e Maia
Il
nome
segreto
di
Roma
di
Alfredo
Incollingo
Per
secoli
gli
storici
antichi
e
moderni
hanno
tentato
di
ricostruire
il
significato
e
l’origine
del
nome
Roma.
La
tradizione
più
accreditata
vuole
che
esso
derivi
da
Romolo,
il
mitico
fondatore
della
città
nell’aprile
del
753
a.C,
che
ribattezzò
in
suo
onore
l’insediamento
originario
sul
colle
Palatino.
Il
toponimo
potrebbe
derivare
dall’etrusco
Ruma,
ovvero
mammella,
in
riferimento
alla
leggenda
dei
gemelli
Romolo
e
Remo
allattati
da
una
lupa,
prima
di
essere
trovati
dal
pastore
Faustolo
e da
sua
moglie
Acca
Larenzia.
Il
grammatico
latino
Servio
Mario
Onorato,
invece,
sosteneva
la
sua
discendenza
dall’antico
nome
del
Tevere,
Rumen
o
Rumon,
richiamando
l’importanza
del
fiume
per
la
nascita
e la
prosperità
della
città.
L’enigma
che
più
di
tutti
affascinò
gli
storici
latini
e
moderni
riguardò
il
suo
nome
segreto.
Si
racconta,
infatti,
che
Roma
non
fosse
il
vero
toponimo
che,
al
contrario
di
quello
notorio,
aveva
un’importante
valenza
magica.
Chi
l’avesse
conosciuto,
avrebbe
potuto
dominare
la
Città
Eterna
e il
suo
impero.
La
rivelazione
del
nome
segreto
era
un
reato
gravissimo,
come
lo
spegnimento
del
fuoco
di
Vesta,
che
avrebbe
causato
gravi
sventure
all’Urbe
e ai
suoi
abitanti.
Il
tribuno
della
plebe
Quinto
Valerio
Sorano
venne
condannato
a
morte
per
averlo
rivelato
nella
sua
opera
I
misteri
svelati.
Ogni
città
aveva
il
suo
dio
protettore,
che
veniva
invocato
dagli
assedianti
davanti
le
mura
cittadine
durante
l’assedio
per
ingraziarsi
il
favore
della
divinità.
Se
la
guerra
si
fosse
conclusa
a
loro
favore,
i
romani
erano
soliti
innalzare
un
tempio
in
onore
del
dio
o
della
dea
per
ringraziarli
del
loro
sostegno.
Per
questo
motivo
i
romani
erano
molto
attenti
a
non
diffondere
il
nome
segreto
di
Roma
e la
segretezza
che
lo
circondava
spinse
molti
intellettuali
latini
a
interrogarsi
sulla
sua
reale
esistenza.
Si
proposero
diversi
nomi
divini
con
cui
identificare
il
nume
tutelare
dell’Urbe:
Angerona,
la
dea
del
silenzio,
Giove,
Opi,
dea
dell’abbondanza,
ma
anche
Cerere,
Flora
o
Pomona.
Giovanni
Pascoli,
nel
suo
Inno
a
Roma
(1911),
scritto
per
celebrare
il
Natale
di
Roma
di
quell’anno
e il
cinquantenario
del
Regno
d’Italia,
affermava
addirittura
che
gli
appellativi
della
Città
Eterna
fossero
tre,
ovvero
Roma,
quello
pubblico,
Flora,
quello
sacro,
e
Amor,
il
nome
segreto.
«Il
nome
arcano
è
tempo/che
si
riveli,
poi
ch’è
il
tempo
sacro./Risuoni
il
nome
che
nessun
profano/sapea
qual
fosse,
e
solo
nei
misteri/segretamente
s’inalzò
tra
gl’inni:/mentre
sull’ombra
attonita
una
strana/alba
appariva,
un
miro
sole,
e i
cavi/cembali
intorno
si
scotean
bombendo
-/Amor!
oh!
l’invincibile
in
battaglia!»
(vv.
2 –
10).
Accogliendo
le
tesi
dello
scrittore
bizantino
Giovanni
Lorenzo
Lido
nel
De
mensibus,
il
poeta
italiano
citava
il
palindromo
di
Roma
quale
numen
cittadino,
in
riferimento
anche
alla
mitica
progenitrice
dei
romani,
la
dea
Venere.
Enea,
antenato
di
Romolo
e
Remo,
era
figlio
del
troiano
Anchise
e
della
dea
dell’amore
(amor,
in
latino).
Il
triste
esilio
di
Publio
Ovidio
Nasone,
inaspettatamente,
potrebbe
fornirci
una
prova
certa
su
quale
fosse
il
vero
nome
di
Roma.
Il
poeta
latino
venne
esiliato
a
Tomi,
l’odierna
Costanza,
in
Romania,
nell’8
d.C.
per
crimini
gravissimi,
a
noi
del
tutto
ignoti.
Probabilmente,
i
suoi
versi
licenziosi,
che
contraddicevano
la
politica
conservatrice
dell’imperatore
Augusto,
o la
connivenza
piuttosto
ambigua
con
la
principessa
Livia
potrebbero
aver
spinto
Ottaviano
a
esiliare
il
poeta
sulmonese.
Una
risposta
fondata
a
questo
enigma
storico
potrebbe
trovarsi
tra
i
versi
dei
Fasti,
in
riferimento
al
nome
segreto
di
Roma.
L’opera,
che
racconta
le
feste
e i
miti
legati
all’anno
civile
e
religioso
romano,
è
rimasta
incompiuta
e si
conclude
precocemente
al
mese
di
giugno.
Nel
raccontare
l’etimologia
dei
mesi,
arrivando
a
maggio,
il
poeta
si
sofferma
sulla
fondazione
dell’Urbe
e,
in
riferimento
ad
essa,
dà
grande
importanza
alla
costellazione
delle
Pleiadi
e
alla
stella
più
luminosa,
Maia.
Secondo
Felice
Vinci
e
Arduino
Maiuri,
che
per
primi
hanno
esposto
queste
osservazioni,
ci
sarebbe
un
legame
diretto
tra
Maia
e la
fondazione
romana.
È
probabile
quindi
che
la
disposizione
degli
insediamenti
sui
Sette
Colli
rispecchi
la
disposizione
delle
Pleiadi,
con
al
centro
Maia
in
corrispondenza
del
Palatino.
Il
solco
primigenio,
al
cui
interno
sorse
la
Città
Quadrata,
poteva
rispecchiare,
ove
possibile,
la
fisionomia
della
costellazione.
Romolo
avrebbe
poi
dedicato
la
città
a
Maia,
la
Bona
Dea
di
cui
si
parla
molto
nei
Fasti
ovidiani.
Riferimenti
bibliografici:
A.
Cattabiani,
Simboli,
miti
e
misteri
di
Roma,
Newton
Compton,
Roma
2016;
F.
Vinci,
A.
Maiuri,
Mai
dire
Maia.
Un’ipotesi
sulla
causa
dell’esilio
di
Ovidio
e
sul
nome
segreto
di
Roma
(nel
bimillenario
della
morte
del
poeta),
in
“Appunti
Romani
di
Filologia:
studi
e
comunicazioni
di
filologia,
linguistica
e
letteratura
greca
e
latina”,
XIX,
2017,
Fabrizio
Serra
Editore,
Pisa-Roma
2017.