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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
IL NOBEL DELLA DISCORDIA
L’assegnazione più discussa nella storia del premio
di Laura Novak
Il 9
ottobre
del
2009
il
mondo
si
svegliava,
in
luoghi
e
orari
diversi,
con
una
sorprendente
notizia.
Il
presidente
in
carica
e
neo
eletto
degli
Stati
Uniti,
Barack
Obama,
era
stato
votato
all’unanimità
dalla
commissione
per
il
premio
Nobel,
come
promotore
della
Pace
mondiale
per
l’anno
2009.
Nelle
motivazioni
ufficiali,
rilasciate
dal
presidente
della
commissione
del
premio
norvegese,
Thorbjoern
Jagland,
Obama
avrebbe
portato
argomenti
essenziali,
come
la
pace
in
Medio
Oriente,
la
tutela
dell’ambiente
ed
il
disarmo
nucleare,
all’attenzione
delle
più
grandi
potenze
economiche
e
politiche
del
Mondo,
conducendo
tali
argomenti,
con
un’immensa
spinta
comunicativa
e
decisive
prese
di
posizioni,
fino
alla
massa.
Fin
dal
rimbalzo
della
notizia
sulle
maggiori
testate
giornalistiche
mondiali,
lo
sconcerto
ha
travolto
chiunque,
compreso
il
protagonista.
Sconcerto,
in
verità,
dovuto
a
svariate
opinioni.
L’interessato,
svegliato
nel
cuore
della
notte
per
esserne
informato,
si è
subito
detto
sorpreso,
ma
immensamente
onorato
per
una
tale
onorificenza,
con
molta
probabilità,
a
suo
stesso
dire,
non
completamente
meritata.
E
mentre
il
mondo
veniva
colto
di
sorpresa
per
questa
nuova
spinta
verso
l’Olimpo
dei
grandi
per
uno
uomo
fino
ad
un
anno
fa
osteggiato
e
discriminato
dal
suo
stesso
partito,
i
detrattori
più
rigidi
sollevano
quesiti
di
rilievo,
diversi
dalla
semplice
questione:
“Premio
prematuro
e
sulla
fiducia”.
Quesiti
complessi
cui
neppure
Obama
ha
saputo
ribattere.
Perché
consegnare
un
premio
tanto
eccelso,
in
precedenza
dato
a
personaggi
del
calibro
di
Madre
Teresa
di
Calcutta,
Nelson
Mandela,
Aung
San
Suu
Kyi,
ad
un
uomo
che
non
ha
ancora
fatto
nulla
di
davvero
rilevante
per
la
pace?
Perché
dare
il
premio
Nobel
per
la
Pace
al
presidente
di
un
paese
coinvolto
attivamente
in
due
sanguinosi
conflitti,
iniziati
da
aggressioni
statunitensi?
E’
proprio
questo
frangente
ad
aver
scatenato
la
maggioranza
delle
critiche
post
premio.
La
decisione
della
commissione
ha,
infatti,
fin
da
subito
mostrato
luci
e
ombre
di
una
politica
obamiana,
ancora
in
fase
di
transizione,
dalle
continue
contraddizioni
e
dall’elevata
dose
di
rischiosa
diplomazia.
L’analisi
annuale,
stilata
sulla
base
delle
decisioni
presidenziali
di
Obama,
è,
in
verità,
piuttosto
spiazzante.
Di
certo
il
Paese
che
gli
è
stato
affidato
nel
novembre
del
2008
era
in
una
condizione
complessa
e
traumatica:
due
guerre
all’attivo
(Iraq
e
Afghanistan),
due
nemici
dichiarati
(Iran
e
Pakistan),
il
crollo
economico
americano
e la
profonda
recessione
del
sistema
economico
globale.
A
tutto
ciò
vanno
aggiunti
i
rapporti
tesi
e
minacciosi
con
Russia
e
Cina
ed
ovviamente
l’intesa
necessità
di
radicali
riforme
sociali,
quali
per
esempio
la
regolamentazione
del
sistema
sanitario
americano,
che
annualmente
decima
più
vittime
della
guerra
in
Iraq.
Soffermandoci
quindi
sul
quadro
politico
nel
quale
gli
Stati
Uniti
erano
sprofondati
durante
l’era
Bush,
il
compito
di
Obama
di
ridare
lustro,
prestigio
e
coerenza
politica
ad
un
paese
sull’orlo
del
burrone,
sembrava
e
sembra
tuttora
un
duro
lavoro.
Ma,
nonostante
le
premesse
necessarie
al
caso,
il
concetto
di
Pace,
sembra
essere
di
ambigua
interpretazione
per
il
governo
di
Obama.
Se
l’obiettivo
americano
continua
ad
essere
una
rapida
uscita
dai
due
conflitti,
entro
o
non
oltre
il
2011,
il
concetto
di
ritiro
da
Iraq
e
Afghanistan
sembra
essere
piuttosto
ombroso:
nel
2009
il
suo
governo
ha
approvato
una
spedizione
extra
di
30
mila
soldati
americani
sul
fronte
afgano,
inviati,
come
si
legge
nelle
note
ufficiali,
a
sostegno
della
polizia
afgana,
ancora
impegnata
in
delicate
fasi
di
politica
interna
e/o
in
fase
d’addestramento.
Stesso
discorso
per
la
questione
Iraq,
dove
la
donazione
di
ingenti
armamenti
al
paese
irakeno
guidato
dalla
controversa
figura
di
Karzai,
renderebbe
ancora
vincolante
la
presenza
sul
suolo
delle
truppe
americane.
Le
condizioni
interne
di
Iraq
ed
Afghanistan,
fragili
e
mutevoli,
in
aggiunta
alle
incognite
Medio
Orientali
ed
alla
mina
vagante
Iraniana,
non
permetterebbero
in
sostanza
le
modalità
di
ritiro,
auspicate
durante
la
campagna
elettorale.
Esistono
quindi
notevoli
argomentazioni
a
sostegno
di
chi
rinnega
la
definizione
di
Obama
quale
“uomo
di
Pace”.
Il
premio,
assegnato
il
10
dicembre
del
2009
ad
Oslo
è
stato
accettato
dalla
mani
di
Obama
non
senza
ovviamente
un
lungo
ed
articolato
discorso
di
ringraziamento.
Un
discorso,
mi
permetto
di
dire,
per
molti
versi
scioccante:
"Il
male
esiste,
la
promozione
dei
diritti
umani
non
può
essere
solo
un'esortazione.
La
dura
verità
è
che
non
sradicheremo
i
conflitti
violenti
nel
corso
della
nostra
vita.
Ci
saranno
momenti
in
cui
le
nazioni,
da
sole
o di
concerto,
troveranno
l'uso
della
forza
non
solo
necessario
ma
moralmente
giustificato”…ed
ancora
“dovremo
pensare
in
modo
diverso
alle
nozioni
di
guerra
giusta
e
pace
giusta".
Leggendo
queste
parole,
sembra
essere
di
fronte
ad
un
revival
del
più
ruvido
Bush.
Non
sta
di
certo
a me
capire
quanto,
come
e
quando
Obama
e la
nazione
che
rappresenta,
saranno
realmente
degni
di
tale
premio.
Il
tempo
saprà
dirci
se
questa
assegnazione,
fatta
per
cosiddetta
previsione
realistica,
sarà
stata
il
simbolo
di
un
riscatto
nazionale
o
soltanto
una
chimera.
Di
certo
però
le
parole
di
Obama,
conducono
a
mio
avviso
ad
un'unica
riflessione
angosciante
e
terrificante:
Per
definizione
da
dizionario,
la
Pace
ha
come
1°
definizione
la
seguente
citazione:
“Assenza
dello
stato
di
guerra
nei
rapporti
fra
Stati
o
all'interno
di
uno
stesso
Stato,
assicurata
anche
dalla
mancanza
di
qualsiasi
tipo
di
violenza
e
garantita
dal
rispetto
dei
diritti
dei
popoli
e
dei
singoli
individui”.
Solamente
come
seconda
definizione
la
pace
è:
“buona
concordia”
e
per
terza:
“tranquillità
e
serenità
di
spirito”.
La
guerra,
invece,
esiste
per
definizione
assoluta,
senza
essere
negazione
di
nessun
altro
concetto.
Esiste,
persiste
ed è
definitiva
in
primo
termine
dal
dizionario:
“Situazione
giuridica
tra
Stati
in
cui
ciascuno
può
esercitare
violenza
contro
il
territorio,
persone
o
beni”
In
sostanza
la
pace
fra
gli
stati
è
primariamente
considerata
una
negazione
dello
stato
di
guerra.
Succede,
nel
suo
esserne
negazione,
solo
allo
stato
di
guerra.
Prima
la
guerra,
dopo
la
pace.
Ed è
questo
l’insegnamento
agghiacciante
che
ci
viene
fornito
da
grammatica,
logica,
politica
e
morale
del
ventesimo
secolo.
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