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N. 145 - Gennaio 2020 (CLXXVI)

Le nitriere e la produzione di salnitro

Quando l’industria chimica non esisteva

di Angela Rosa Piergiovanni

 

Sin da tempi più remoti la decisione di muovere guerra scaturisce da una attenta comparazione delle proprie forze rispetto a quelle del nemico. La consistenza numerica del proprio esercito, il suo grado di addestramento e un adeguato armamento sono fattori essenziali da valutare per garantirsi sufficienti possibilità di vittoria. Nei secoli sia le modalità con cui le guerre sono combattute che le armi utilizzate sono profondamente mutate. Tuttavia disporre di armi all’avanguardia per il proprio tempo è da sempre un fattore cruciale.

 

La comparsa e progressiva diffusione delle armi da fuoco sui campi di battaglia ha rappresentato una svolta importante nelle tecniche militari. In realtà, miscugli di polveri esplosive erano noti secoli prima della comparsa delle armi da fuoco, ma il loro uso era limitato a esperienze pirotecniche in cui cinesi e arabi erano particolarmente abili. Armare un esercito era decisamente un’altra cosa.

 

Con l’affinamento tecnologico delle armi da fuoco e la necessità di fornirle in dotazione a un crescente numero di reparti (marina, artiglieria, fanteria), la certezza di un adeguato approvvigionamento di polvere nera divenne essenziale per tutti gli stati grandi o piccoli che fossero. Come è noto la polvere nera si ottiene mescolando salnitro (nitrato di potassio), carbone di legna e zolfo in rapporto 7:2:1, rapporto leggermente diverso nella polvere da mina. È subito evidente che il fattore limitante per la sua preparazione è il salnitro.

 

Dove trovarlo o come produrlo in quantità sufficiente per armare il proprio esercito? Questo l’interrogativo a cui ogni governo tra il Cinquecento e gli inizi dell’Ottocento ha dovuto dare risposta.

 

Inizialmente il salnitro era ricavato dalla raschiatura dei muri umidi e mal ventilati situati in ambienti pubblici o privati. Su queste superfici si forma spontaneamente una efflorescenza di cristalli bianchi, il salnitro appunto. I salnitrari erano gli unici a poterlo raccogliere in quanto possessori di una apposita licenza rilasciata dalle autorità, e non era consentito intralciarne in alcun modo l’attività. La raschiatura però poteva assicurare piccole quantità di salnitro, che già alla fine del XVI secolo risultarono insufficienti a soddisfare le crescenti richieste degli eserciti.

 

Essendo rari i giacimenti naturali a livello mondiale, si esplorarono varie soluzioni per consentire a ogni stato di rendersi autonomo producendo in proprie strutture il salnitro di cui necessitava. La creazione di reti di nitriere fu la soluzione adottata a livello transnazionale. Ovviamente le conoscenze chimiche del tempo erano del tutto inadeguate per sviluppare metodi di produzione efficienti. Il processo utilizzato, nonostante successivi miglioramenti apportati nel tempo, rimase per secoli lungo e laborioso continuando ad assorbire cospicue quantità di materie prime (soprattutto legname e acqua) a fronte di rese modeste.

 

Anche i vari stati in cui in passato era suddivisa l’Italia, si dotarono di nitriere date in gestione a privati ma tenute sotto stretto controllo delle autorità. Fu così che tra il Cinquecento e il Settecento il letame divenne una pregiata materia poiché era da lì che si partiva per la preparazione del salnitro.

 

In Sicilia le grotte naturali dell’area Iblea (SR) furono utilizzate per istallarvi una serie di nitriere. In queste grotte furono scavate delle grandi buche in cui venivano stratificati terra calcarea mescolata a letame, ceneri e calcinacci. Per favorire l’azione della flora batterica nitrificante questo materiale era periodicamente smosso per incrementare l’apporto di ossigeno e bagnato con urine umane e non, colatura di letame e liscivia. Dopo circa tre anni poteva iniziare il processo di recupero del salnitro. Il materiale residuale, trasferito in appositi tini, era ripetutamente lisciviato con acqua. Il liquido recuperato veniva sottoposto a cicli di bollitura, raffreddamento e cristallizzazione dei sali in esso presenti tra cui il salnitro, il cui grado di purezza aumentava dopo ogni ciclo.

 

La Serenissima creò nell’entroterra veneto una fitta rete di nitriere che, in questo stato, presero il nome di tezoni. Si trattava di grandi costruzioni con tetto spiovente inizialmente in legno e successivamente in muratura in cui, nelle ore notturne, erano ricoverate le greggi per consentire la raccolta delle deiezioni. Il terriccio che costituiva il pavimento dei tezoni era frequentemente sostituito e stoccato in cumuli di forma piramidale. Dopo circa sei mesi si aveva a disposizione sufficiente materia prima per avviare la fase di maturazione secondo un processo sostanzialmente simile a quello già descritto.

 

La presenza di una nitriera era spesso fonte di conflitti tra i salnitrari e le popolazioni locali, non tanto per motivi igienici, quanto per la competizione nello sfruttamento delle risorse locali. Vari documenti storici testimoniano come le autorità cercassero di gestire queste tensioni ma senza penalizzare eccessivamente la produzione del salnitro. Nella zona Iblea la disputa riguardava l’eccessivo utilizzo di legname da parte dei salnitrari, in Veneto i contadini lamentavano l’indiscriminato asporto di suolo fertile per la gestione dei tezoni, in Puglia il malcontento scaturiva dall’obbligo di conferire quote di letame alle locali nitriere sottraendo in tal modo una preziosa risorsa alla concimazione dei campi.

 

In questo panorama una inattesa scoperta avvenuta a Molfetta, un comune in provincia di Bari, sembrò poter rivoluzionare la produzione di salnitro. Nel 1783 l’abate Fortis, studioso padovano in visita in Puglia su invito del canonico molfettese Giuseppe M. Giovene, che stava conducendo una sistematica ricognizione scientifica del Pulo, una dolina carsica a pochi chilometri dalla città di Molfetta, annunciò la scoperta di salnitro nelle grotte naturali che costellano il Pulo.

 

Questa notizia rappresentava una svolta epocale poiché era possibile affrancarsi dalla lunga e laboriosa trasformazione del letame nelle nitriere. Il salnitro era già presente in natura andava solo estratto e purificato dalle scorie già in loco anche grazie alla presenza di una sorgente di acqua dolce. Questa prospettiva non solo non sfuggì a numerosi scienziati del tempo che si affrettarono a visitare il Pulo di Molfetta, ma soprattutto non lasciò indifferenti le autorità Borboniche. Infatti, già nel gennaio 1784 fu reso operativo in fondo alla dolina un opificio costituito da tre corpi di fabbrica e un corpo di guardia denominata “Reale Nitriera Borbonica”.

 

Questa decisione delle autorità fu fortemente osteggiata dai salnitrari della zona che vedevano intaccati i propri interessi economici e di potere sulla popolazione locale. A favorire l’ostilità dei salnitrari non furono tanto le loro iniziative quanto i limiti produttivi della nitriera che ben presto si palesarono. Infatti, la “Reale nitriera Borbonica” ebbe vita breve poiché, nonostante gli sforzi delle maestranze e vari miglioramenti tecnici, la produzione non raggiunse mai i livelli sperati. Dopo alcuni decenni di operatività, sulla base della relazione stilata dal chimico Pietro Pulli incaricato dalle autorità di condurre una ispezione in loco, la nitriera venne definitivamente chiusa nel primo decennio dell’Ottocento.

 

In realtà, questa decisione non rappresentò il ritorno al passato poiché nei decenni successivi fu sempre più evidente che l’epoca delle nitriere si avviava al definitivo tramonto. Gli sviluppi scientifici e tecnici del XIX secolo decretarono il rapido abbandono della polvere nera a favore della cosiddetta polvere senza fumo. Una nuova miscela esplosiva che i militari apprezzarono per gli indubbi vantaggi pratici che offriva. L’assenza del fumo in seguito alla detonazione aumentava la visibilità sui campi di battaglia e rendeva molto difficile individuare la localizzazione delle unità di fanteria quando queste non operavano allo scoperto.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Lombardo L., Il salnitro dalle grotte iblee alla polvere da sparo in “Dialoghi Mediterranei”, n. 10, novembre 2014.

Castiglioni M., Dalle “materie immonde” alla polvere da sparo in “L’Alambicco”, n. 7, novembre 2011.

Fortis A., Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti, tomo XI, parte III, Del nitro minerale, Milano 1788, pp. 145-169.

Girardi V., I “tezoni” e la produzione di salnitro nella Serenissima. Saggi di Oplologia, II semestre 1998.

Panciera W., Le nitriere veneziane dell’area euganea (sec XVI - XVIII), in “Terra d’Este”, rivista di storia e cultura, vol. XIII, n. 25, 2003, pp. 95-113.

Pulli P., Statistica nitraria del regno di Napoli, F.lli Chianese ed., vol. II Napoli 1817, pp. 217-226.



 

 

 

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