N. 62 - Febbraio 2013
(XCIII)
Il pio Nicia
promotore della pace e protagonista della guerra
di Paola Scollo
Proveniente
da
una
ricca
famiglia
aristocratica
proprietaria
di
numerose
miniere
d’argento
nel
Laurion,
Nicia
è
uno
dei
protagonisti
della
scena
politica
ateniese
del
V
secolo.
Collega
di
Pericle,
riuscì
a
conseguire
importanti
vittorie
durante
la
Guerra
Archidamica.
Fu
il
principale
artefice
delle
trattative
di
pace
che
conclusero
la
prima
parte
della
guerra
del
Peloponneso.
Plutarco
gli
ha
dedicato
una
biografia
in
cui,
nel
solco
dei
giudizi
tucididei,
Nicia
viene
ritratto
come
un
personaggio
timoroso
e
superstizioso
vittima
di
una
sorte
tragica
e
impietosa.
Osserviamola
puntualmente.
Per
introdurre
il
personaggio
Plutarco
si
serve
delle
parole
che
su
Nicia
espresse
Aristotele
nella
Costituzione
degli
Ateniesi
(XXVIII):
«Tre
furono
i
migliori
cittadini
che
ebbero
benevolenza
paterna
e
amicizia
nei
confronti
del
popolo,
Nicia,
figlio
di
Nicerato,
Tucidide,
figlio
di
Melesia,
e
Teramene,
figlio
di
Agnone;
[…]
Nicia,
più
giovane,
ebbe
una
certa
rinomanza
già
quando
Pericle
era
vivo,
tanto
che
gli
fu
collega
come
stratego
e
spesso
ebbe
il
comando
da
solo.
Dopo
la
morte
di
Pericle
fu
promosso
a
posti
di
potere
soprattutto
da
ricchi
e
notabili,
che
se
ne
facevano
un
baluardo
contro
la
disgustosa
audacia
di
Cleone
e,
ciononostante,
ebbe
la
simpatia
e il
pieno
appoggio
del
popolo».
A
partire
da
tale
testimonianza
emerge
chiaramente
il
favore
di
cui
Nicia
godeva
presso
gli
Ateniesi.
Stando
a
Plutarco,
le
ragioni
del
successo
di
Nicia
andavano
ricercate
nella
dignità
né
austera
né
opprimente
che,
congiunta
a
timidezza,
incuteva
timore
e
soprattutto
nella
natura,
physis,
timorosa
e
pessimista
che
nell’attività
politica
appariva
un
atteggiamento
democratico:
«Per
la
massa
infatti
-spiega
il
biografo-
è
onore
grandissimo
non
essere
disprezzata
dai
potenti»
(Plut.,
Nic.
II
6).
A
differenza
di
Pericle,
che
si
serviva
delle
notevoli
capacità
oratorie
per
acquistare
il
favore
popolare,
Nicia
sfruttava
la
ricchezza
economica,
allestendo
spettacoli
teatrali
e
ginnici
in
modo
tale
da
superare
«per
sfarzo
e
buon
gusto
i
predecessori
e
tutti
i
contemporanei»
(Nic.
III
2).
Dietro
tale
atteggiamento
Plutarco
individua
una
forma
di
vanità
finalizzata
al
conseguimento
della
gloria
personale,
anche
se
non
esclude
la
prospettiva
che
tale
liberalità
fosse
pure
una
conseguenza
del
sentimento
religioso,
«giacché
era
davvero
uno
di
quelli
che
si
spaventano
di
fronte
al
divino
e
incline
alla
superstizione»
(Nic.
IV
1).
Una
conferma
in
tal
senso
giungerebbe
poi
dalle
pagine
delle
Storie
di
Tucidide
(VII
50).
Riferisce
a
tal
proposito
Plutarco
che
in
un
dialogo
di
Pasifonte,
seguace
di
Socrate,
si
trovava
scritto
che
Nicia
sacrificava
quotidianamente
agli
dèi
e
consultava
un
indovino,
che
risiedeva
nella
sua
stessa
casa,
sui
suoi
affari
economici.
Nicia
possedeva
numerose
miniere
d’argento
nella
zona
del
Laurion,
presso
Capo
Sunio
in
Attica,
e la
ricchezza
doveva
costituire
per
lui
perenne
fonte
di
preoccupazione.
In
molti
avanzavano
richieste
di
elargizioni.
E le
ottenevano.
Spiega
infatti
Plutarco
che
Nicia
offriva
denaro
sia
a
chi
era
in
grado
di
nuocergli
sia
a
quanti
erano
meritevoli
dei
suoi
benefici
poiché
«la
sua
pusillanimità,
deilía,
era
fonte
di
guadagno
per
i
disonesti,
come
la
sua
generosità
lo
era
per
gli
uomini
dabbene»
(Nic.
IV
3).
Nicia
non
pranzava
mai
con
i
suoi
concittadini
e
non
si
intratteneva
in
conversazioni
o
svaghi.
Inoltre,
quando
era
in
carica,
era
solito
sostare
all’interno
della
sede
degli
strateghi
fino
a
tarda
notte,
essendo
sempre
il
primo
a
giungere
e
l’ultimo
ad
andare
via.
Quando
non
si
trovava
ad
assolvere
incarichi
pubblici,
preferiva
rimanere
nella
propria
abitazione.
Ma
c’è
di
più.
Era
solito
evitare
i
comandi
militari
particolarmente
difficili
e di
lunga
durata
e,
qualora
gli
venissero
affidati,
non
attribuiva
mai
gli
eventuali
successi
alla
propria
saggezza,
sophía,
capacità,
dynamis,
o
valore,
areté,
ma
alla
sorte,
tyche.
In
altre
parole
ricorreva
alla
componente
divina,
to
theíon,
per
sottrarsi
alle
invidie
generate
dal
prestigio.
A
conferma
di
ciò
la
totale
estraneità
ai
principali
disastri
militari
che
si
verificarono
durante
la
prima
fase
della
guerra
del
Peloponneso.
Ricorda
infine
Plutarco
che
nella
realizzazione
di
tale
modus
vivendi
Nicia
era
sostenuto
da
Gerone,
che
«trattava
segretamente
con
gli
indovini
per
conto
di
Nicia
e
diffondeva
fra
la
gente
la
voce
della
vita
faticosa
e
travagliata
che
Nicia
conduceva
a
causa
degli
affari
cittadini;
diceva
perfino
che
anche
quando
faceva
il
bagno
o
mentre
pranzava,
gli
capitava
sempre
qualche
questione
pubblica»
(Nic.
V
4).
Nell’attività
politica
scopo
precipuo
di
Nicia
era
quello
di
garantire
alla
polis
di
Atene
pace
e
tranquillità.
A
conferma
di
ciò
il
suo
modus
agendi
in
seguito
alla
morte
ad
Anfipoli
dei
comandanti
Cleone
e
Brasida,
i
più
ostili
alla
stipulazione
della
pace
in
Grecia.
Nicia
si
adoperò
infatti
per
riconciliare
Sparta
e
Atene,
quindi
per
consolidare
la
propria
fama.
Risultato
delle
trattative
fu
la
pace
che
gli
valse
grande
fama
in
antitesi
a
Pericle.
Scrive
a
tal
proposito
Plutarco:
«La
maggioranza
giunse
a
ritenere
di
essersi
liberata
sicuramente
dai
mali
e
non
si
parlava
che
di
Nicia
come
di
un
uomo
amato
dagli
dèi,
a
cui
la
divinità
aveva
concesso,
per
la
sua
pietà,
eusebeia,
di
dare
il
proprio
nome
al
più
grande
e
più
bello
dei
beni.
Perché
davvero
tutti
ritenevano
la
pace
opera
di
Nicia,
come
la
guerra
opera
di
Pericle:
erano
infatti
convinti
che
questi
avesse
gettato
i
Greci
in
mezzo
a
gravi
sciagure
per
futili
motivi
e
che
quello
invece
li
avesse
persuasi
a
dimenticare
grandi
dolori
per
divenire
amici.
Ecco
la
ragione
per
cui
anche
oggi
quella
pace
è
detta
di
Nicia»
(Nic.
IX
8-9).
La
politica
di
distensione
promossa
da
Nicia
fu
seriamente
messa
in
difficoltà
dall’ingresso
sulla
scena
politica
ateniese
di
Alcibiade,
«che
si
oppose
immediatamente
alla
pace
e
cercò
di
ostacolarla»
(Nic.
X
3).
Quando
l’antagonismo
tra
i
due
raggiunse
il
culmine
si
venne
all’ostracismo,
«procedura
che
il
popolo
ateniese
era
solito
istruire
saltuariamente
per
condannare
a
dieci
anni
d’esilio
-con
un
voto
scritto
su
dei
cocci-
una
persona
che
fosse
sospettata
in
generale
per
la
sua
fama
o
invidiata
per
la
sua
ricchezza»
(Nic.
XI
1).
Molteplici
erano
i
motivi
di
invidia
nei
confronti
dell’uno
e
dell’altro.
Come
spiega
Plutarco,
Alcibiade
era
disprezzato
per
il
tenore
di
vita
ed
era
temuto
per
la
tracotanza;
di
contro
Nicia
era
invidiato
per
le
ricchezze,
per
il
contegno
riservato
e
aristocratico
e
per
essersi
opposto
in
svariate
occasioni
ai
desideri
del
popolo.
Tuttavia,
a
dispetto
di
ogni
previsione,
entrambi
riuscirono
a
sottrarsi
al
provvedimento
punitivo,
coalizzandosi
affinché
venisse
piuttosto
ostracizzato
Iperbolo
del
demo
di
Peritede,
«uomo
non
audace
perché
detenesse
qualche
potere,
ma
arrivato
al
potere
perché
audace
e
divenuto,
per
il
credito
di
cui
godeva
in
città,
motivo
di
discredito
per
la
città
stessa»
(Nic.
XI
3).
«La
fortuna
è
davvero
qualcosa
che
sfugge
al
giudizio
ed è
inafferrabile
dalla
ragione»:
è
questo
il
giudizio
conclusivo
di
Plutarco.
Nell’immagine
del
biografo
di
Cheronea,
sia
che
fosse
risultato
vincente
sia
che
fosse
risultato
perdente
dalla
contrapposizione
con
Alcibiade
Nicia
avrebbe
comunque
ottenuto
di
vivere
in
tranquillità,
conservando
la
fama
di
eccellente
generale,
áristos
strategós.
Altre
vicende
avrebbe
predisposto
la
tyche
per
lui.
Nonostante
la
tenace
opposizione,
chiara
manifestazione
di
onestà
e
saggezza,
Nicia
non
riuscì
a
impedire
la
partenza
della
spedizione
in
Sicilia
promossa
da
Alcibiade.
Anzi
venne
eletto
primo
generale
insieme
ad
Alcibiade
e a
Namaco,
in
quanto
considerato
il
più
adatto
all’impresa
sia
per
l’esperienza,
empeiría,
sia
per
la
prudenza,
asfaleia,
dote
fondamentale
per
contenere
l’audacia
di
Alcibiade
e la
focosità
di
Lamaco.
A
capo
della
spedizione,
Nicia
con
il
proprio
modus
operandi
all’insegna
dell’indecisione
e
della
prudenza
indebolì
il
morale
degli
uomini,
facendo
sin
da
subito
sprecare
occasioni
propizie
per
l’azione.
Scrive
a
tal
proposito
Plutarco:
«E
quando
poco
dopo
gli
Ateniesi
richiamarono
in
patria
Alcibiade
per
il
processo,
Nicia,
rimasto
al
comando,
in
teoria
insieme
con
Lamaco,
di
fatto
da
solo,
non
cessò
di
indugiare,
di
incrociare
le
navi
intorno
all’isola
o di
discutere,
finché
l’entusiasmo
dei
soldati
si
affievolì
e si
placarono
la
costernazione
e la
paura
che
avevano
invaso
i
nemici
al
primo
apparire
delle
forze
ateniesi»
(Nic.
XIV
4).
L’esclusiva
eccellente
azione
strategica
venne
compiuta
da
Nicia
nel
corso
dell’estate,
quando
riuscì
a
far
uscire
i
nemici
dalla
città
di
Siracusa
e a
svuotarla
di
difensori
mentre
salpava
da
Catania
e
occupava
i
due
porti,
assicurandosi
una
posizione
da
cui
sperava
di
combattere
senza
ostacoli.
In
tal
modo
generò
timori
tra
i
Siracusani,
che
per
questa
ragione
elessero
altri
tre
generali
con
pieni
poteri
da
sostegno
ai
quindici
già
in
carica.
Ma
anche
in
questa
circostanza
Nicia
non
fu
in
grado
di
sfruttare
a
suo
vantaggio
la
vittoria
conseguita.
Si
ritirò
infatti
a
Nasso,
dove
trascorse
l’inverno
con
ingenti
spese
per
un
esercito
così
numeroso
e
con
pochi
risultati
sul
fronte
di
qualche
città
sicula
che
passava
dalla
sua
parte.
I
Siracusani,
riacquistato
coraggio,
si
spinsero
fino
a
Catania,
devastarono
la
regione
e
incendiarono
il
campo
ateniese.
Scrive
a
tal
proposito
Plutarco
che
«di
ciò
tutti
diedero
la
colpa
a
Nicia,
che
con
il
suo
disquisire
e
indugiare
e
cautelarsi
si
era
lasciato
sfuggire
il
momento
adatto
per
l’azione».
D’altra
parte
però
-prosegue
Plutarco-
nessuno
avrebbe
potuto
biasimare
il
suo
modus
agendi
perché
«una
volta
mossosi
era
energico
ed
efficiente,
ma
era
esitante
e
irresoluto
a
muoversi»
(Nic.
XV
8).
Morto
Lamaco,
Nicia
fu
l’unico
generale
a
guidare
la
spedizione.
Stremato
dagli
eventi,
dovette
ora
contrastare
Gilippo,
che
fece
deporre
le
armi
e
inviò
un
ambasciatore
agli
Ateniesi
annunciando
che
se
avessero
lasciato
la
Sicilia
sarebbero
rimasti
immuni.
Assediato
sia
per
terra
sia
per
mare,
Nicia
pregò
gli
Ateniesi
di
inviargli
un
altro
esercito
oppure
di
richiamare
quello
dalla
Sicilia.
In
ogni
caso
chiedeva
per
sé
l’esonero
dal
comando
della
spedizione
a
causa
della
sua
malattia,
la
nefrosi,
che
da
tempo
lo
tormentava.
Nel
frattempo
Gilippo,
con
un’incursione
improvvisa,
occupò
il
Plemmirio,
il
promontorio
che
chiudeva
il
Porto
Grande
di
Siracusa,
precludendo
a
Nicia
ogni
possibile
rifornimento.
Gli
Ateniesi
subirono
in
questa
circostanza
una
pesante
sconfitta
e
non
è
difficile
immaginare
quale
dovesse
essere
lo
stato
d’animo
del
comandante:
«Un
profondo
scoramento
dominava
Nicia,
che
aveva
avuto
grossi
insuccessi
quando
era
solo
al
comando
e
ancora
una
volta
falliva
a
causa
dei
suoi
colleghi»
(Nic.
XX
8).
Nell’ottobre
del
414
Nicia
dovette
chiedere
rinforzi.
Consapevole
della
situazione,
voleva
evitare
a
tutti
i
costi
una
battaglia
navale.
Tuttavia,
utilizzando
come
pretesto
il
prestigio
di
Atene,
Menandro
ed
Eutidemo,
al
comando
della
spedizione,
imposero
la
decisione
della
battaglia
navale.
Lo
scontro
navale,
narrato
da
Tucidide
(Storie
VII
39-41),
si
rivelò
una
vera
e
propria
disfatta
per
gli
Ateniesi.
I
Siracusani
riuscirono
a
prevalere
grazie
allo
stratagemma
di
Aristone.
Riunirono
sulla
spiaggia
numerosi
venditori
di
cibarie
e
vettovaglie
in
modo
tale
che
i
marinai
potessero
mangiare
vicino
alle
navi.
In
seguito
indietreggiarono,
facendo
intendere
agli
Ateniesi
di
aver
rinviato
il
conflitto.
Infine
tornarono
improvvisamente
indietro
cogliendo
gli
Ateniesi
di
sorpresa
e
costringendoli
ad
accettare
lo
scontro.
Nel
luglio
del
413
giunsero
in
Sicilia
i
rinforzi
guidati
da
Demostene:
settantatré
navi
da
guerra
con
cinquemila
opliti
e
almeno
tremila
lanciatori
di
giavellotto,
arcieri
e
frombolieri.
I
Siracusani
furono
nuovamente
in
preda
alla
paura
perché
«i
loro
travagli
non
accennavano
a
finire
e
nemmeno
ad
allontanarsi
e
invano
spendevano
fatiche
e
vite
umane»
(Nic.
XXI
2).
Nel
campo
ateniese
il
sollievo
per
le
nuove
forze
non
durò
a
lungo.
Nicia
infatti
si
opponeva
alla
proposta
di
Demostene
di
attaccare
il
nemico
e di
affrontare
il
rischio
di
una
battaglia
decisiva
in
modo
tale
da
espugnare
Siracusa
o da
ritornare
in
patria.
Era
convinto
che
i
nemici
ben
presto
sarebbero
stati
logorati
dal
bisogno
per
cui
avrebbero
scelto
di
avviare
delle
trattative.
Ma
tale
invito
alla
prudenza
venne
interpretato
dai
colleghi
come
mancanza
di
audacia:
«E
così
dissero
che
ritornava
il
suo
atteggiamento
-le
incertezze,
i
ritardi,
le
analisi
pedantesche
per
cui
aveva
sprecato
l’occasione
favorevole
non
attaccando
subito
i
nemici,
ma
si
era
mostrato
lento
e
disprezzabile-
e si
schierarono
con
Demostene:
Nicia,
seppur
riluttante,
fu
costretto
a
cedere»
(Nic.
XXI
6).
Demostene
guidò
le
forze
di
terra
in
un
attacco
notturno
dell’Epipole.
In
questa
circostanza
la
scarsità
di
luce
condusse
gli
Ateniesi
al
disastro.
Vi
furono
duemila
morti.
Nicia,
che
attribuiva
la
responsabilità
della
disfatta
alla
dissennatezza
di
Demostene,
non
volle
rientrare
in
patria
perché
nutriva
profondi
timori
nei
confronti
dei
suoi
concittadini,
a
cui
avrebbe
dovuto
rendere
conto
del
proprio
operato.
Quando
però
sopraggiunse
un’altra
armata
in
soccorso
dei
Siracusani
e si
diffuse
tra
gli
Ateniesi
la
malattia,
fu
costretto
a
ordinare
ai
soldati
di
tenersi
pronti
a
salpare.
La
situazione
degenerò
a
causa
di
un’eclissi
di
luna
che,
stando
al
racconto
di
Tucidide
(Storie
VII
50),
si
verificò
il
27
agosto
del
413
e
che
suscitò
grande
terrore
sia
in
Nicia
sia
in
quanti
altri
per
ignoranza
o
per
superstizione
si
lasciavano
impressionare
da
tali
fenomeni.
In
tale
circostanza
il
comandante
ateniese
si
trovava
da
solo
e
non
poteva
disporre
dell’aiuto
del
suo
indovino
personale
Stilbide,
morto
qualche
tempo
prima.
Filocoro,
uno
dei
più
noti
attidografi
del
IV
secolo
a.C.,
ha
mostrato
che
per
i
fuggitivi
tale
presagio
è in
realtà
propizio
«poiché
le
azioni
che
si
compiono
con
paura
hanno
bisogno
di
essere
celate
e la
luce
è
loro
nemica»
(Nic.
XXIII
8).
Come
ricorda
Plutarco,
lo
scrittore
ateniese
Autoclide
negli
Esegetici
consigliava
di
osservare
tre
giorni
di
cautela
per
i
presagi
relativi
al
sole
e
alla
luna,
ma
Nicia
invitò
ad
attendere
un’intera
lunazione
«come
se
non
avesse
visto
la
luna
riprendere
subito
il
suo
splendore
appena
uscita
dalla
zona
d’ombra
determinata
dalla
terra»
(Nic.
XXIII
9).
Mentre
Nicia
era
intento
a
compiere
sacrifici
e a
consultare
indovini,
i
Siracusani
passarono
all’attacco:
con
la
fanteria
assediarono
l’accampamento
e il
muro
ateniese
mentre
con
le
navi
accerchiarono
il
porto.
Risultarono
ancora
una
volta
vincitori
nello
scontro
navale.
Di
fronte
alla
drammatica
situazione,
i
soldati
ateniesi
iniziarono
a
chiedere
agli
strateghi
di
avviare
la
ritirata
via
terra,
dato
che
il
porto
era
stato
bloccato.
Ma
Nicia
non
si
lasciò
persuadere
e di
contro
fece
imbarcare
i
fanti
migliori
e i
più
robusti
lanciatori
di
giavellotti
su
centodieci
triremi,
dispose
i
restanti
soldati
lungo
il
mare,
abbandonando
l’accampamento
principale
e la
zona
di
muro
che
toccava
il
tempio
di
Eracle.
Nell’immagine
di
Plutarco
quella
che
ne
scaturì
fu
la
battaglia
navale
«più
grande
e
violenta
mai
combattuta»
(Nic.
XXV
2).
Uno
scontro
che
recò
vittime
in
entrambi
gli
schieramenti.
«Al
momento
della
rotta
e
della
rovina
totale
agli
Ateniesi
era
ormai
preclusa
la
fuga
per
mare
e
vedendo,
d’altra
parte,
che
anche
mettersi
in
salvo
via
terra
era
arduo,
non
opposero
più
resistenza
ai
nemici
che
si
accostavano
alle
loro
navi
per
rimorchiarle
e
non
chiesero
neppure
di
raccogliere
i
loro
morti
[…]»
(Nic.
XXV
5).
Nei
paragrafi
successivi
la
narrazione
di
Plutarco
si
focalizza
sulla
situazione
del
campo
ateniese
e
sulla
sorte
ingiusta
spettata
a
Nicia,
uomo
pio
e
devoto
agli
dèi.
Una
narrazione
intensa
volta
a
esaltare
il
dramma
interiore
di
un
comandante
che
assiste
alla
disfatta
del
proprio
esercito,
ma
soprattutto
di
un
uomo
ammalato
e
abbandonato
da
tutti:
«Fra
gli
spettacoli
terribili
che
offriva
il
campo
ateniese
nessuno
era
più
penoso
di
quello
di
Nicia,
distrutto
dalla
malattia,
ridotto,
nonostante
il
suo
grado,
alla
pura
sussistenza
e al
minimo
delle
risorse
di
cui
il
suo
corpo
malato
aveva
tanto
bisogno,
e
tuttavia
attivo
malgrado
la
debolezza
e
resistente
alle
fatiche
a
cui
molti
soldati
sani
a
stento
reggevano,
mentre
era
chiaro
a
tutti
che
sopportava
le
sofferenze
non
per
se
stesso
né
per
attaccamento
alla
vita,
ma
piuttosto
a
causa
delle
truppe
non
abbandonava
le
speranze»
(Nic.
XXVI
4).
Un
dramma
interiore
che
traeva
origine
dall’odioso
confronto
tra
la
vergogna
e il
disonore
della
spedizione
con
la
grandezza
e la
gloria
dei
successi
prospettati.
I
soldati
d’altra
parte
si
convincevano
che
tali
sofferenze
fossero
ingiuste
e
disperavano
dell’aiuto
divino,
«constatando
che
un
uomo
così
pio,
theophiles,
e
così
spesso
magnificamente
liberale
nel
culto
degli
dèi
non
subiva
una
sorte
migliore
di
quella
dei
peggiori
vigliacchi
del
suo
esercito»
(Nic.
XXVI
6).
Malgrado
la
situazione,
Nicia
si
sforzava
di
infondere
coraggio
e di
mostrare
attraverso
l’espressione
del
volto
e la
gentilezza
dei
modi
di
essere
superiore
alle
sventure.
Durante
gli
otto
giorni
di
marcia
riuscì
a
mantenere
inalterate
le
forze
fino
a
quando
però
Demostene
non
venne
catturato
dai
nemici
(Nic.
XXVII).
Decise
allora
di
chiedere
una
tregua.
Lo
spartano
Gilippo
si
oppose.
Nicia
riuscì
ad
avanzare
sotto
i
colpi
dei
nemici
fino
al
fiume
Asinaro:
«Là
gli
Ateniesi
in
parte
furono
scaraventati
nella
corrente
dall’aggressione
congiunta
del
nemico,
in
parte,
prevenendola,
si
gettarono
nel
fiume
per
la
sete.
E
qui
ebbe
luogo
un’enorme
e
selvaggia
strage
di
soldati,
che
venivano
massacrati
mentre
bevevano»
(Nic.
XXVII
5).
Pare
che
Nicia,
rivolgendosi
a
Gilippo,
abbia
detto:
«Dal
momento
che
avete
vinto,
abbiate
pietà
non
certo
di
me,
che
a
tanti
successi
devo
un
nome
famoso,
ma
degli
altri
Ateniesi,
ricordandovi
che
la
sorte
della
guerra
è
comune
e di
essa
gli
Ateniesi
hanno
usato
con
moderazione
e
mitezza,
quando
era
in
vantaggio
nei
vostri
confronti»
(Nic.
XXVII
5).
A
queste
parole
Gilippo
rialzò
Nicia,
lo
confortò
e
diede
ordine
di
catturare
vivi
gli
altri.
Successivamente,
nel
corso
di
un’assemblea
generale,
il
capo
democratico
siracusano
Euricle
propose
di
consacrare
la
data
dell’anniversario
della
cattura
di
Nicia
e di
chiamare
Asinaria,
dal
nome
del
fiume,
tale
celebrazione.
Ricorreva
il
ventiseiesimo
giorno
del
mese
Carneo,
chiamato
dagli
Ateniesi
Metagitnione,
corrispondente
a
luglio-agosto.
Infine
propose
di
vendere
come
schiavi
i
servi
e
tutti
gli
alleati
degli
Ateniesi,
di
gettare
gli
Ateniesi
e
gli
alleati
siciliani
nelle
Latomie,
cave
trasformate
in
prigione,
fatta
eccezione
per
i
generali
che
dovevano
essere
condannati
a
morte.
Infine
Plutarco
riporta
la
notizia
di
Timeo
secondo
cui
Demostene
e
Nicia
non
caddero
per
mano
dei
Siracusani:
prima
ancora
che
l’assemblea
indetta
da
Euricle
venisse
sciolta,
entrambi
si
uccisero
con
la
connivenza
di
una
delle
guardie.
I
loro
cadaveri
furono
gettati
alle
porte
della
città,
dove
giacquero
alla
vista
di
coloro
che
godevano
di
quel
macabro
spettacolo.
Ad
Atene
«a
stento
si
credette
che
Nicia
avesse
subito
quelle
sventure
che
aveva
tante
volte
predetto
agli
Ateniesi»
(Nic.
XXX
3).
Si
trattava
di
una
morte
disonorevole
nell’immagine
di
Plutarco,
perché
Nicia
per
una
vergognosa
e
ingloriosa
speranza
di
salvezza
si
era
gettato
ai
piedi
del
nemico.
Differente
è la
valutazione
di
Tucidide
che
scrive:
«Egli,
fra
i
Greci
del
mio
tempo,
fu
meno
di
ogni
altro
degno
di
tale
sciagura:
tutta
la
vita
di
lui
fu
un
virtuoso
esercizio
di
giustizia».
Questo
commento
ben
sintetizza
la
parabola
discendente
di
un
politico
giusto
e
onesto,
prudente
e
accorto,
di
un
personaggio
ispiratore
e
sostenitore
della
pace,
protagonista
suo
malgrado
della
Guerra
del
Peloponneso,
di
un
uomo
pio
e
devoto
degli
dèi
vittima
di
una
avversa
tyche
e
dell’invidia
dei
suoi
concittadini.
Riferimenti
bibliografici:
H.
Bengtson,
Einführung
in
die
alte
Geschichte,
München
1977,
trad.
it.
Bologna
1990.
H.
Bengtson,
Griechische
Geschichte:
von
den
Anfängen
bis
in
die
römische
Kaiserzeit,
München
1977,
trad.
it.
Bologna
1989.
T.
E.
Duff,
Plutarch’s
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Exploring
Virtue
and
Vice,
Oxford
1999.
D.
Manetti
(ed.),
Plutarco,
Vita
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e di
Crasso,
Milano
1987.
C.B.R.
Pelling,
Plutarch’s
Methods
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work
in
the
Roman
Lives,
«The
Journal
of
Hellenic
Studies»
XCIX
(1979),
pp.
74-96.