N. 56 - Agosto 2012
(LXXXVII)
riflessioni sul New Deal
i primi 100 giorni
di Mira Susic
La
crisi
economico-finanziaria
nella
quale
si
dibatte
oggi
il
mondo
viene
paragonata
alla
Grande
Depressione
scaturita
dal
crollo
della
borsa
newyorkese
del
24
ottobre
1929.
Molti
analisti
evidenziano
le
similitudini
tra
la
crisi
odierna
e il
collasso
finanziario
ed
economico
della
prima
metà
del
XX
secolo.
Storicamente
parlando
entrambe
le
crisi
sono
figlie
di
una
particolare
visione
del
ruolo
dello
Stato
nell’economia
e
degli
squilibri
finanziari
dovuti
alla
cosiddetta
finanza
creativa
e
speculativa.
Il
concetto
del
libero
mercato
escludeva
a
priori
l’ingerenza
dello
Stato
o
del
governo
in
economia.
Laisser-faire
economics
o il
neoliberalismo
economico
odierno
diventò
ed è
ancora
la
base
del
sistema
della
politica
economica
mondiale
che
trova
nella
globalizzazione
la
sua
versione
moderna.
Secondo
questa
concezione
economica
il
mercato
poteva
e
può
autoregolarsi
disponendo
a
tale
scopo
al
suo
interno
di
tutti
i
mezzi
necessari
alla
stabilizzazione
in
caso
di
crisi.
La
competizione
avrebbe
dovuto,
secondo
i
fautori
del
liberalismo
sfrenato,
regolare
i
prezzi,
i
salari
e,
di
conseguenza,
la
domanda
e
l’offerta.
In
pratica
ogni
intervento
esterno
(in
sostanza
dello
stato)
nel
mercato
avrebbe
leso
la
sua
dinamica
interna
regolatrice.
Dopo
la
prima
guerra
mondiale
gli
Stati
Uniti
d’America
erano
diventati
la
prima
potenza
economica
del
mondo
raggiungendo
livelli
di
ricchezza
superiori
di
quelli
dell’Europa,
dove
i
paesi
coinvolti
nel
sanguinoso
conflitto
dovevano
affrontare
i
costi
della
ricostruzione,
il
pagamento
dei
debiti
contratti
con
i
creditori
americani
e
ampi
problemi
sociali.
Fra
il
1922
e il
1928
la
produzione
industriale
americana
era
cresciuta
del
64%
rispetto
al
magro
12%
del
decennio
precedente.
Lo
scoppio
del
primo
conflitto
mondiale
in
Europa
diventò
un
ulteriore
volano
di
espansione
dei
prodotti
agricoli
e
industriali
americani
che
trovarono
la
via
per
l’Europa
in
conflitto.
La
diffusione
della
seconda
rivoluzione
industriale,
in
particolare
l’introduzione
nei
stabilimenti
della
Ford
della
produzione
dei
veicoli
su
catena
di
montaggio,
implicò
la
nascita
della
produzione
di
massa
in
tutti
i
settori
produttivi.
Inoltre
la
nascita
di
nuove
forme
di
distribuzione,
di
nuove
tecniche
pubblicitarie
e
della
possibilità
di
acquistare
i
prodotti
a
rate,
favorì
il
consumo
di
massa
sancendo
di
fatto
l’avvio
del
consumismo
di
massa.
Di
fronte
a
questa
imponente
crescita
economica
i
presidenti
repubblicani
Warren
G.
Harding,
Calvin
Coolidge
e
Herbert
Hoover
agirono
sulla
base
di
un
dogma
classicamente
liberista:
lo
Stato
doveva
fare
un
passo
indietro
di
fronte
agli
interessi
privati.
Pertanto
essi,
per
favorire
gli
investimenti:
rinunciarono
a
qualsiasi
forma
di
controllo
sulle
grandi
concentrazioni
finanziarie
emergenti;
diminuirono
la
spesa
pubblica;
ridussero
al
minimo
le
imposte
sui
redditi;
mantennero
basso
il
tasso
di
interesse,
in
modo
da
favorire
l’accesso
al
credito
da
parte
delle
imprese.
Questo
tipo
di
politica
economica
lasciò
ampio
spazio
a
forme
finanziarie
speculative.
Nel
corso
degli
anni
Venti
l’investimento
in
borsa
era
diventato
un
fenomeno
di
massa.
La
febbre
del
facile
guadagno
si
impadronì
di
ampie
fasce
del
paese.
La
gente
investiva
i
propri
risparmi
acquistando
azioni
per
poi
rivenderle
poco
dopo
incassando
la
differenza.
Nel
1925
nella
Borsa
di
New
York
si
trattavano
500.000
azioni
salite
a
1.100.000
nei
primi
mesi
del
1929.
Di
conseguenza,
fra
il
1927
e il
1929,
il
valore
delle
azioni
raddoppiò.
Mentre
una
parte
della
popolazione
investiva
fiduciosa
in
borsa,
milioni
di
americani
vivevano
in
condizioni
di
sofferenza:
i
salari
degli
operai
crescevano
a un
ritmo
molto
più
blando
della
produzione
e
gli
agricoltori
dell’est
assistevano
impotenti
ad
una
drastica
discesa
dei
prezzi
dei
prodotti
agricoli,
causata
dalla
forte
sovrapproduzione.
Era
chiaro
che
il
mercato
americano
da
solo
non
era
in
grado
di
assorbire
tutte
le
eccedenze
agricole
che
prima
erano
dirottate
in
Europa:
ma
ora
la
macchina
agricola
europea
si
era
rimessa
in
moto.
L’euforia
speculativa
di
Wall
Street
crollò
improvvisamente
il
24
ottobre
1929
(il
“giovedì
nero”)
quando
vennero
ceduti
milioni
di
azioni
con
un
ribasso
delle
quotazioni
apparentemente
inarrestabile.
L’amministrazione
Hoover,
insediatasi
da
appena
pochi
mesi,
non
seppe
affrontare
con
misure
adeguate
la
crisi:
la
disoccupazione
arrivò
a
toccare
punte
del
20%,
le
industrie
chiusero
e
licenziarono
mentre
migliaia
di
banche,
non
rimborsate
dei
prestiti
concessi,
fallirono,
scatenando
il
panico
fra
i
risparmiatori.
L’anomalia
della
società
americana
dell’epoca
ma
anche
odierna
era
l’iniqua
distribuzione
della
ricchezza,
concentrata
nelle
mani
dell’1%
della
popolazione,
quindi
i
maggiori
profitti
e
guadagni
del
boom
economico
erano
entrati
nelle
tasche
di
un
esiguo
numero
di
cittadini
americani.
Situazione
simile
che
riscontriamo
oggi
anche
in
Italia
dove
secondo
gli
esperti
del
settore
il
10%
popolazione
possiede
la
ricchezza
del
paese.
“Per
troppi
americani
la
vita
non
era
più
libera,
non
era
più
reale:
gli
uomini
non
potevano
più
inseguire
l’obiettivo
della
felicità”
proclamò
il
presidente
F.D.
Roosevelt
riferendosi
alle
conseguenze
della
Grande
Depressione.
In
sostanza
la
Grande
Depressione
aveva
messo
in
pericolo
le
libertà
individuali
tipiche
della
nazione
americana,
perciò
si
rese
necessario
agire
e
sopratutto
garantire
i
diritti
sociali
del
cittadino
e
proteggerli
dalle
vicissitudini
del
mercato.
In
altri
termini,
la
sicurezza
del
singolo
da
quella
economica
e
sociale.
La
liberà
individuale
e
quella
personale
erano
dunque
collegate
alla
sicurezza
sociale
e a
quella
economica.
Di
conseguenza
tra
i
diritti
civili
e la
stabilizzazione
e
tranquillità
finanziaria
vi
era
un
nesso
profondo.
Questo
principio
in
sostanza
diventò
la
base
della
politica
delle
riforme
attuate
da
Roosevelt
negli
anni
Trenta
del
XX
secolo.
Il
New
Deal
comprendeva
diversi
provvedimenti
economici
e di
intervento
sociale,
ma
il
punto
di
forza
di
questa
azione
politica
fu
la
sua
rapidità
di
attuazione
nei
momenti
più
critici
per
la
nazione
americana,
cosa
che
non
si
può
notare
nell’Europa
odierna
dove
i
leader
europei
non
riescono
a
mettersi
d’accordo
rapidamente,
anzi
al
contrario,
si
perdono
volutamente
in
discussioni
logoranti
a
difesa
dei
particolarismi
nazionali
e
degli
egoismi
di
parte
che
a
lungo
andare
non
fanno
che
aggravare
la
situazione
finanziaria
ed
economica
dei
singoli
e di
tutto
il
continente
europeo.
Ma
come
agì
Roosevelt
nei
momenti
cruciali
della
crisi?
Nel
suo
discorso
del
4
marzo
1933
il
presidente
Roosevelt
pronunciò
queste
significative
parole:
“Sono
convinto
se
c’è
qualcosa
da
temere
è la
paura
stessa,
il
terrore
sconosciuto,
immotivato
e
ingiustificato
che
paralizza.
Dobbiamo
sforzarci
di
trasformare
una
ritirata
in
una
avanzata
[...]
Chiederò
al
Congresso
l’unico
strumento
per
affrontare
la
crisi.
Il
potere
di
agire
ad
ampio
raggio,
per
dichiarare
guerra
all’emergenza.
Un
potere
grande
come
quello
che
mi
verrebbe
dato
se
venissimo
invasi
da
un
esercito
straniero”.
In
breve
il
presidente
Roosevelt
chiese
al
Congresso
poterei
straordinari
per
la
situazione
d’emergenza
nella
quale
versava
l’economia
americana.
Un
fatto
risultò
chiaro
al
presidente
democratico
Roosevelt:
la
crisi
economica
e
finanziaria
poteva
mettere
in
serio
pericolo
le
fondamenta
della
democrazia
americana,
dunque
non
si
poteva
escludere
il
pericolo
di
una
deriva
autoritaria
se i
problemi
economici
non
fossero
stati
risolti
con
misure
drastiche
e
draconiane.
In
sostanza
bisognava
rimettere
ordine
nelle
faccende
economiche
e
ripensare
al
ruolo
dello
stato
in
economia.
Nei
primi
cento
giorni
della
Presidenza
Roosevelt
vennero
emanati
importanti
provvedimenti:
l’Emergency
Banking
Act
che
istituì
una
vacanza
bancaria
di
alcuni
giorni
al
fine
di
sondare
la
liquidità
e la
solidità
degli
istituti
Di
credito
e
che
assoggettò
le
banche
al
controllo
dell’amministrazione
federale;
l’istituzione
della
Federal
Deposit
Insurance
Corporation
che
assicurava
tutti
i
depositi
bancari
sino
a
2.500
dollari;
la
sospensione
del
gold
standard,
che
comportò
la
svalutazione
del
dollaro
e
rese
possibile
il
ricorso
all’esportazione
delle
merci
come
sbocco
per
la
sovrapproduzione
statunitense;
l’Economy
Act
che
introdusse
il
bilancio
federale
di
emergenza;
l’Agricultural
Adjustment
Act
che
attribuiva
contributi
in
denaro
a
quegli
agricoltori
che
avessero
limitato
la
produzione
agricola
in
modo
da
mettere
un
freno
alla
caduta
dei
prezzi
che
aveva
costretto
sul
lastrico
milioni
di
agricoltori
dell’est.
Successivamente
furono
introdotte
ulteriori
misure
per
tamponare
la
crisi
e
stimolare
al
crescita
facendo
leva
sulle
misure
sociali:
l’istituzione
della
Tennessee
Valley
Authority,
agenzia
che
impiegò
milioni
di
disoccupati
nella
costruzione
di
imponenti
dighe
al
fine
di
sfruttare
le
risorse
idroelettriche
del
bacino
del
Tennessee;
l’istituzione
della
Works
Progress
Administration,
altra
agenzia
governativa
che
gestiva
la
realizzazione
di
importanti
opere
pubbliche;
l’approvazione
del
Wagner
Act
che
sanciva
il
diritto
di
sciopero
e
della
contrattazione
collettiva;
l’approvazione
del
National
Industrial
Recovery
Act
che
imponeva
l’adozione
per
ogni
azienda
di
un
codice
di
disciplina
produttiva
limitando
la
sovrapproduzione,
rinunciando
al
lavoro
nero
e a
quello
minorile.
La
legge
prevedeva
inoltre
dei
minimi
salariali;
l’approvazione
del
Social
Security
Act
che
istituiva
un
moderno
welfare
state
di
cui
i
lavoratori
statunitensi
erano
stati
sino
ad
allora
sprovvisti.
Roosevelt
intraprese
anche
una
riforma
del
sistema
fiscale,
in
particolare
modo
delle
imposte
dirette.
Venne
quindi
così
modificata
l’imposizione
progressiva
aumentando
le
aliquote
per
i
contribuenti
più
ricchi
e
abbienti.
L’obiettivo
del
presidente
americano
era
quello
di
ridistribuire
l’onere
della
crisi
equamente
nel
paese,
ma
anche
di
creare
un
efficace
protezione
sociale
per
garantire
il
minimo
salario
che
avrebbe
assicurato
alle
fasce
meno
abbienti
quella
sicurezza
economica
necessaria
per
riavviare
la
ripresa
economica.
Con
l’intervento
pubblico
selettivo
e
mirato
nelle
infrastrutture
crea
una
domanda
aggiuntiva
o
aggregata
tesa
a
stimolare
la
ripresa
industriale
e
agricola
della
produzione.
Era
chiaro
che
nell’attuare
un
ampio
programma
di
investimenti
pubblici
si
poneva
il
problema
del
deficit
statale
che
però
poteva
essere
risolto
solo
dopo
aver
riavviato
l’economia
del
paese
assicurando
le
entrate
fiscali
necessarie
per
calibrare
nel
tempo
il
rientro
del
debito
pubblico.
Solo
un
economia
che
tira
può
assicurare
quelle
entrate
fiscali
necessarie
allo
stato
per
potere
non
solo
erogare
i
servizi
ai
propri
cittadini
ma
anche
un
rientro
graduale
del
debito
pubblico.
Dando
regole
al
sistema
bancario
e
creditizio
nonché
borsistico
di
fatto
rese
possibile
la
stabilizzazione
del
mercato
finaziario
ed
azionario
nonché
creditizio
e di
risparmio.
Il
New
Deal
rappresenta
ancora
oggi
un’alternativa
allo
sfrenato
liberalismo
e
alla
mania
dei
tagli
indiscriminati
messi
in
atto
dai
governi
di
oggi
e
propagandati
dalla
scuola
di
pensiero
liberalista
per
far
fronte
a
una
crisi
per
molti
aspetti
figlia
del
passato.
Vale
la
pena
di
riconsiderare
la
portata
storica
del
New
Deal
e
non
lasciarla
nel
dimenticatoio
del
passato
prendendo
spunto
dalla
visione
rooseveltiana
dello
stato,
dei
valori
morali
in
politica
e in
economia
adattandoli,
si
intende,
ai
giorni
nostri.
Una
politica
senza
valori
morali
e un
economia
senza
regole
possono
solo
portare,
alla
fine,
a un
esito:
una
svolta
autoritaria.