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N. 149 - Maggio 2020 (CLXXX)

Neuropedagogia ed emergenza educativa

pandemia e nuove sfide formative

di Guglielmo Montuori

 

Mentre ancora la pandemia domina la scena mondiale e i virologi, quasi nuovi sacerdoti del mondo globalizzato, dipingono i possibili scenari che vanno dal depotenziamento progressivo del virus al “worst-case scenario”, siamo tutti consapevoli del difficile passaggio epocale vissuto soprattutto dalle nuove generazioni.

 

Possibili risposte alle nuove sfide educative giungono dalla neuropedagogia, scienza che integra il socio-educativo della pedagogia e il biologico della neurologia. In quanto scienza emergente, la neuropedagogia opera su un duplice piano di ricerca, interdisciplinare e transdisciplinare, con l’obiettivo di incidere sui processi di insegnamento e di apprendimento, di modificarli e di implementarli; inoltre, in quanto fondata su un rapporto dialettico tra dimensione biologica e dimensione sociale dell’individuo, in questo frangente può aiutare a comprendere il malessere sottovalutato o non percepito dell’infanzia e degli adolescenti, partendo dal nesso tra struttura e funzionamento del cervello umano ed esperienze vissute dal soggetto.

 

I neuroscienziati confermano come la persona sia un’unità biopsichica, senza soluzioni di continuità; attraverso un costante intreccio di condizionamenti ambientali e di stimoli provenienti dall’interno del corpo si crea un rapporto di interdipendenza dinamica che struttura la mente. Già Maria Montessori, pedagogista e medico di fama internazionale, affermava che le esperienze e quanto di esse rimane non si limitano a permeare di sé la mente del bambino ma la formano; e ancora il filosofo, biologo ed etologo Laborit, nei suoi scritti sulla biologia comportamentale, sosteneva che “interessarsi” del cervello non significa osservare un organo, bensì considerarlo in relazione alla totalità-corpo e al contesto culturale all’interno del quale questa totalità esiste.

 

L’approccio neuropedagogico apre nuovi orizzonti attraverso strategie, strumenti, schemi di riferimento, protocolli in grado di migliorare sia l’apprendimento scolastico, sia le life skills che richiedono un surplus di informazioni capaci di aggiungersi a quelle già possedute. Se volessimo richiamarci alla teoresi filosofica, potremmo riferirci al superamento dell’innatismo cartesiano e dell’empirismo humeano con esiti simili a quelli kantiani, dal momento che la nostra mente non è una tabula plena, ma neanche una tabula rasa, e opera per funzioni dell’intelletto interconnesse con la realtà vissuta dal soggetto.

 

L’educazione ha, quindi, il compito di “dare forma” al cervello. Diventa ineludibile, quindi, tentare nuovi percorsi teoretici e applicativi; protocolli rivelatisi ormai disfunzionali vanno abbandonati per evitare che vecchie e nuove criticità portino a nuove marginalità e a conseguenti nuove devianze e ambito familiare e ambito educativo sono chiamati a rispondere a problemi pregressi e nuovi.

 

Ma vediamo quali di queste criticità possono acuirsi visto l’evolversi del presente, lo “stato d’eccezione” in cui viviamo, di schmittiana memoria. In primo luogo, una questione già denunciata dall’Invalsi, cioè la dispersione implicita; in altri termini da più parti si sottolinea che una parte non trascurabile di studenti che conseguono il diploma non raggiunge le competenze e le conoscenze richieste dopo 13 anni di scuola.

 

L’approccio pedagogico, integrato dalla neurologia, potrebbe consentire un’ identificazione precoce di questo problema e innescare a monte meccanismi virtuosi in grado di proiettare ogni singolo studente verso la propria autoaffermazione e autorealizzazione.

 

Altro aspetto, poi, da non sottovalutare, in termini di impatto psicologico ed esistenziale, è la nuova dimensione determinata dai mesi di lockdown e didattica a distanza: la fine dell’orizzontalità tra i pari e della verticalità nella dialettica insegnante-allievo. Un’autentica formazione non può attuarsi senza la relazionalità, dal momento che gli allievi hanno bisogno di interagire, di vivere quelle dinamiche irripetibili e uniche all’interno del gruppo-classe che non sono certamente rimpiazzabili dall’utilizzo di un tablet, o dall’assistere a una videolezione.

 

La Scuola, organo costituzionale come ebbe a definirla Piero Calamandrei, deve formare e non addestrare; ciò a cui si è assistito nel periodo appena trascorso è stato il rischio per infanzia e adolescenza di precipitare in una dimensione autistica , non solo del tempo ma anche del sociale, senza possibilità di relazioni autentiche, senza il confronto con l’altro, senza l’esplorazione del mondo.

 

Su versanti che già prima di questo periodo volgevano verso condizioni patologiche la situazione non è certamente migliorata; mi riferisco a quella che psicologi e pedagogisti definiscono “sindrome da autoreclusione”, dalla quale è affetta una parte della popolazione giovanile.

 

Penso principalmente ai Neet, acronimo per Not in Education, Employment or Training, che costituiscono un universo diversificato e tutt’altro che omogeneo. Siamo di fronte a un fenomeno sociale multidimensionale in cui rientrano individui sia con bassi profili professionali, sia medio-alti, soggetti con background di emarginazione sociale e altri con una dimensione sociale segnata da una normalità di fondo. Nel loro complesso i Neet hanno in comune la disoccupazione, la “indisponibilità” cioè il non cercare il lavoro, il disinteresse nei confronti del mondo.

 

L’Italia in questo ambito aveva già prima un triste primato, come ha evidenziato l’ultimo rapporto dell’OCSE “Education at a glance“ che dipinge senza mezzi termini un’Italia che dà ancora poche opportunità ai giovani. E con la situazione attuale questo fenomeno sarà inevitabilmente soggetto a un’escalation.

 

Accanto ai Neet, in Estremo Oriente, in Giappone per l’esattezza, troviamo già da anni il fenomeno degli Hikikomori. Hikikomori letteralmente significa “stare in disparte, isolarsi”; il termine è formato dalle parole hiku (tirare) e komoru (ritirarsi) ed è una parola giapponese usata per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso arrivando a livelli estremi di isolamento e confinamento, fino appunto a autorecludersi.

 

Il particolare contesto familiare giapponese, in cui la figura paterna è spesso assente e quella materna eccessivamente protettiva, unitamente alla grande pressione di una società competitiva, sono solo alcuni degli aspetti sociologici che hanno prodotto tale fenomeno, già presente in Giappone nella seconda metà degli anni Ottanta e poi diffusosi anche in Europa e negli Stati Uniti dal 2000 in avanti.

 

Che l’adolescente abbia spesso un atteggiamento oppositivo, provocatorio, di rifiuto può anche essere fisiologico; ma quando si arriva al rifiuto del mondo e alla autoesclusione dalla dimensione sociale, allora è evidente che qualcosa non ha funzionato nel processo evolutivo dell’individuo e nella sua formazione psico-affettiva.

 

Tenendo conto delle nuove conoscenze biochimiche sullo sviluppo cognitivo e delle intuizioni della psicologia clinica, l’approccio neuropedagogico può mettere in atto un processo educativo che riesca a essere efficace nello strutturare il cervello dell’individuo fin dai primi anni di vita.

 

Infatti, dall’holding alla socializzazione tutto si riverbera a livello cerebrale; e quindi chi educa dovrebbe esserne consapevole per evitare nel giovane la disregolazione emotiva e l’incapacità di autogestione del proprio sé.



 

 

 

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