N. 12 - Maggio 2006
NETSUKE, IL
MONDO IN MINIATURA
La sublimazione di un
oggetto quotidiano del Giappone antico
di
Irene
Simonelli
Secondo un’antica leggenda, ambientata in Cina durante la
dinastia Tang (618-907), il fantasma del generale
cinese Chun Xuei (in giapponese: Shoki) per sdebitarsi
degli onori e del magnifico funerale di stato
tributatigli dall’Imperatore Huang Tsung (in
giapponese: Genso), tornò a liberare il Palazzo
Imperiale dai demoni che lo circondavano.
Il generale (fig.1) morì suicida dopo aver fallito
gli esami imperiali di calligrafia, reo di essere
indegno delle belle lettere e quindi della brillante
carriera militare che lo avrebbe atteso; ma sotto la
protezione del suo spirito, l’Impero di Huang Tsung
raggiunse il massimo splendore e la massima estensione
che solo gli Arabi riuscirono a fermare a
Talas nel 751.
(fig.1
)
“Shoki, il domatore di dèmoni che
scaccia diavoli”,
disegno
preparatorio, inchiostro nero su carta,
scuola di Hokusai, XIX sec.
Il guardiano-fantasma divenne così popolare che la sua
immagine ricomparve in Giappone, come simbolo di buon
auspicio, in un accessorio del costume nazionale: il
netsuke.
In
effetti già cinque secoli prima della sua introduzione
ufficiale in Giappone, i cinesi usavano il
chiu-tzu,
lo accarezzavano durante la conversazione e
godevano dei suoi effetti benefici e taumaturgici. A
metà strada fra un amuleto ed un rimedio naturale, il
chiu-tzu era ricavato da radici scelte
appositamente in base alle loro proprietà curative e
rappresentava soggetti diversi ma tutti dal
significato benaugurale.
I
più antichi esemplari giapponesi di netsuke
risalgono al XIII sec.: sono timbri e sigilli
provenienti proprio dalla Cina, denominati to-bori
o “scultura straniera”, raffiguranti leoni ed eremiti
e riadattati ad una nuova funzione; tuttavia il loro
grosso sviluppo si ebbe dall’inizio del XVI sec. fino
alla rivoluzione Meiji cioè fino al declino del
sistema feudale, toccando il culmine tra il 1750 ed il
1850.
Il
fenomeno della miniaturizzazione dell’arte scultorea
comprese, nell’Era Tokugawa (1185-1866), non solo la
produzione profana , ma anche quella sacra; nel XVII
sec.,l’usanza di custodire nelle abitazioni piccoli
altari destinati al culto privato, portò
all’elaborazione da parte di scultori buddisti di veri
e propri altari in miniatura da appendere al collo o
alla cintura.
Da
qui si diffuse l’uso di appendere all’Obi, la
larga fascia usata come cintura, una serie di
accessori che dovevano supplire alla mancanza di
tasche del kimono, genericamente chiamati sagemono
(fig.2), e usati come porta-monete (kinchaku),
contenitori di inchiostro e pennelli (yatate),
custodie per le pipe e tabacco (tonkotsu), kit
da fumo (kinseru-zutsu), portachiavi (kagi)
e porta-sigilli (inro).
(fig.2
) schema illustrativo del costume giapponese:
il
sagemono, appeso ad un cordoncino passante per l’ojime,
viene appeso all’obi e fissato con il netsuke.
In
realtà questi ultimi furono usati soprattutto come
contenitori per la dose personale di erbe medicinali.
Indossati generalmente dagli uomini, che li
appendevano al fianco destro, erano accessibili a
quasi tutti gli strati sociali, ad eccezione dei più
bassi.
In una prima fase infatti, l'inro fu
un'oggetto d'uso pratico: una scatola di forma
ellissoidale lunga una decina di centimetri, la cui
decorazione superficiale rivestiva un’importanza
secondaria. Successivamente si trasformò in un
accessorio estetico e il suo valore venne associato
alla squisitezza della fattura e alla preziosità della
decorazione, proprio come fosse un gioiello. La
scatolina, solitamente di legno laccato, veniva
intarsiata in oro, argento o foglia di rame, oppure
scolpita o ancora decorata ad incrostazione con
conchiglie, avorio, corallo e tartaruga. Conteneva al
suo interno da due a sette vani ed era legata ad un
cordoncino di seta intrecciata che culminava con un
contrappeso, il netsuke; il cordoncino era
tenuto stretto da un ojime, una specie di
perlina lavorata. Un apparato completo prevedeva un
unico tema per la decorazione di tutte e tre le parti
(fig.3). Ojime e netsuke erano di
norma realizzati in legno, soprattutto di cipresso e
bosso, e in avorio, ma venivano impiegati anche
porcellana, metalli, corno e lacche.
(fig.3
) tonkotsu, contenitore per
tabacco ricamato con
kagamibuta in avorio, catene, ojime e chiusura in
argento.
Periodo Di Meiji.Tutte le parti rappresentano un
dragone alato
Il netsuke, che letteralmente significa “radice
che fissa”, era in origine un pezzo di legno scolpito
grossolanamente ma sempre ben levigato in modo da non
rovinare la seta dell’obi. Esso rappresentava
dei e demoni scintoisti o buddisti e veniva venduto
insieme agli articoli religiosi presso i templi del
paese.
Quando nel XVI sec. cominciò a svilupparsi una
committenza mercantile e borghese, i soggetti di tipo
religioso vennero soppiantati dalle figure del mondo
animale, reale e mitico (fig.4-5). Per i Giapponesi
non esistono specie animali da considerarsi vili; cosi
il topo apre la serie dei Dodici Rami Terreni (lo
zodiaco giapponese) e la piovra diviene addirittura
simbolo erotico per eccellenza.
.
(fig.4 )
Katabori in avorio,
firmato Masanao I, XVIII sec. |
(fig.5 ) topo arrotolato,
katabori in legno,
firmato Masakatsu, XVIII sec. |
Trattate con altrettanto realismo sono le bestie
mitiche come il kirin (fig.6), un dragone
derivato dal folklore cinese ed il shishi, una
creatura metà leone e metà cane che tiene in bocca o
tra le zampe una sfera. (fig.7)
(fig.6 ) Kirin, sashi
in avorio, firmato Tomotada, XVIII
sec.
|
(fig.7 )
Shishi,
katabori in avorio,.
firmato Mitsuharu, XVIII sec. |
Successivamente cominciarono ad apparire
rappresentazioni della vita quotidiana, scene di gioco, fatti storici e religiosi, sempre
estremamente realistici ma caratterizzati anche da un
inedito gusto per il grottesco, ed una grande varietà
di specie vegetali (fig.8 ).
(fig.8) Lottatori di Sumo
con tatuaggi nella posizione “kawazu”,
katabori in avorio, firmato Masaka, XVIII sec.
I netsuke
misuravano all’incirca 5 cm ed erano scolpiti in legno
(specialmente bosso, cipresso, sandalo, ebano e
ciliegio), in avorio di elefante, ma anche zanne di
ippopotamo, cinghiale, tricheco, denti di tigre e di
capodoglio e corno di cervo. Tra i materiali meno
usati sono citati la lacca applicata su bambù, un
corallo nero o umimatsu, un fossile vegetale o
umoregi, la giada e le pietre dure, ma queste
ultime furono adottate in epoca moderna.
La
funzionalità e le potenzialità taumaturgiche, qualità
per cui il Netsuke venne adottato almeno fin
dal XIII sec., cedettero il passo, intorno al XVIII
sec., al gusto per la complessità dell’incisione e per
la raffinatezza delle sculture miniaturizzate, che lo
trasformarono da amuleto a prezioso status-symbol,
attirando la committenza di signori feudali e
aristocratici.
Proprio nel XVIII e XIX sec. infatti, i Tokugawa
Shogun incaricarono i migliori artigiani laccatori di
eseguire a mano presso le proprie botteghe,
sofisticati Inro laccati ed intarsiati in oro e
argento, ovviamente corredati dai relativi Ojime
e Netsuke, per ostentare potere e ricchezza.
Da oggetto funzionale caratterizzato da una forma
arrotondata o sferica e da una lavorazione compatta e
levigatissima, il netsuke divenne ben presto
un pezzo da collezione come testimoniano le forme
spigolose, le lavorazioni a traforo, l’ingegnosità dei
disegni, la scelta di materiali pregiati ma meno
resistenti, e a volte la mobilità di certe sue parti.
Fra i diversi tipi di netsuke, il katabori
o “scultura a tutto tondo” è sicuramente il più
diffuso ed apprezzato nel mondo del collezionismo per
il realismo dettagliato e la qualità scultorea. Esso
presuppone due fori o himotoshi che servivano a
far scorrere il cordoncino ed erano posti nella parte
posteriore oppure sapientemente mascherati dalle
pieghe dei panneggi o dalle code degli animali. L’himitoshi
è quindi garanzia di autenticità: un netsuke
che ne è privo può essere un okimono cioè un
ornamento da alcova databile al periodo Meiji, oppure
un mediocre esemplare destinato al mercato d’
esportazione. E bisogna anche ricordare che furono
usati come netsuke gli oggetti più diversi, dai
pallottolieri agli orologi solari.
I katabori (fig.9), sono intagliati finemente
in ogni loro parte e sono per la grande maggioranza di
forma compatta, ma ne esiste una variazione molto
allungata. Si tratta dei sashi o obi-hasami
, facilmente identificabili per la loro sottigliezza,
che venivano legati da un’estremità all’altra intorno
all’obi (fig.10).
(fig.9) Fukurokujo acrobata,
katabori in avorio,
fronte e retro con himitoshi,
firmato Shozan, XIX sec. |
(fig.10) kappa,
folletto acquatico,
con pesce, sashi in legno,
autore e periodo non pervenuti |
Molto diffuso è anche il manjo, così chiamato
per la somiglianza con il tipico dolcetto di riso. Ha
un corpo circolare, del diametro di 4-6 cm ed è in
avorio. La decorazione è scolpita a bassorilievo su
una faccia ed incisa sull’altra, ma può essere anche
lavorato a giorno o ad incrostazione con materiali
policromi (fig.11).
Il ryusa netsuke è simile nella forma al
manjo ma è cavo all’interno ed il disegno è
generalmente inciso sulla parte convessa.
(fig.11) manjo in
avorio, firmato Okatomo, XIX sec.
Infine, il kagamibuta, consiste in una coppella
in avorio o corno che incornicia una piastrina
metallica decorata con motivi floreali incisi,
intarsiati in oro e argento o realizzati a sbalzo con
leghe metalliche (fig.12). Questi netsuke sono
forse più vicini ad un’opera di oreficeria che ad una
scultura; non a caso furono eseguiti esclusivamente
nelle botteghe dei fabbricanti di tsuba, i
dischi metallici che si trovano fra l’impugnatura e la
lama delle sciabole (fig.13).
(fig.12) tao, kagamibuta in avorio e metallo,
autore e periodo non pervenuti |
(fig.13)
tsuba con rilievi dorati a forma di Shishi tra
rocce e peonie. Scuola di Nagoya, XVIII sec |
I netsuke più antichi sono apprezzati per il
loro stile e per la loro patina ma anche per le epoche
che riflettono. Molti alludono a fatti e personaggi
leggendari dell’antico Giappone, altri ne attestano l’
inesorabile disfatta contro il tempo.
Dopo la rivoluzione Meiji (1868-1912),
l’occidentalizzazione del paese ha prodotto un
cambiamento radicale: l’introduzione del costume
europeo. Il netsuke, svuotato della sua
funzione, non era più parte della vita quotidiana ed
il suo fascino resisteva solo agli occhi dei
collezionisti.
Fino ad ora sono state identificate circa tremila
firme diverse, ma solo poche di esse corrispondono ad
artisti realmente esistiti. Molti scultori antichi
infatti, autori di netsuke pregiatissimi, non hanno
firmato le loro opere; d’altro canto è accaduto di
trovare spesso pezzi attribuiti a maestri di bottega
ma in realtà realizzati dagli allievi.
Il più grande scultore di katabori del XVIII
sec. (periodo medio Edo) è sicuramente Izumiya
Tomotada, della Scuola di Kyoto. A lui è
attribuita tra le altre, una statuetta eburnea
raffigurante una delle sette Divinità della
Fortuna del mito Giapponese: Fukurokuju, Dio
della Longevità (fig.14).Questa figura è stata
introdotta dalla Cina nel XV sec.; il suo nome è
infatti la combinazione di tre caratteri cinesi, "fu",
"lu" e "Shu", che rappresentano tre
Divinità Stellari della Fortuna. Fukurokuju,
inoltre, è praticamente indistinguibile da un’altra
divinità del Pantheon nipponico, quella di Jurojin.
(fig.14) Fukurokujo giovane, serie delle Sette
Divinità Giapponesi della Fortuna,
katabori in avorio, attribuito a Tomotada, 1781-1867
Questa piccola figura alta circa 5 cm, è vestita con
una toga cinese ed identificabile soprattutto per la
caratteristica fronte alta, ma secondo le fonti
potrebbe rappresentare una divinità minore chiamata
Fukusuke, aiutante della Fortuna e alter ego
maschile di Okame, Dea della Gaiezza.
Il pregio di questo esemplare è in larga parte dovuto
al materiale di cui è composto, un avorio della
qualità tusk, ottimamente conservato, malgrado
l’età, nella sua patina bianco-crema.
Tra gli altri scultori di netsuke contemporanei
di Tomotada bisogna ricordare Masanao I,
anch’egli della Scuola di Kyoto, Okatomo,
allievo di Tomotada, ed il fratello Okatori,
ma anche Masaka e Hogen Ratei (“hogen”
era un titolo onorifico destinato agli artisti
emeriti).
I massimi scultori del XIX sec. furono Kaigyokusai
Masatsugu, della Scuola di Osaka, il quale adottò
diversi pseudonimi nel corso della sua carriera e
Ikkan, della Scuola di Nagoya, ma importanti sono
anche le opere di Ozaki Kokusai, fondatore
della Scuola di Asakusa, Tano Tomokasu di Gifu,
che scolpì esclusivamente esemplari lignei e
Tomomitsu, pregevole incisore spesso paragonato al
celebre Tomochika
(periodo Meiji) ed autore di
un’altra versione particolarmente vivace e allegra
del Dio della Longevità (fig.15). Questa volta
Fukurokuju è accompagnato da una capra, ed il suo
volto teneramente sorridente esprime appieno le gioie
e le soddisfazioni della vita ritirata, simboleggiata
dall’ottavo animale dello zodiaco. Questo esemplare è
di dimensioni particolarmente ridotte, circa 3,5 cm ed
è in un ottimo stato di conservazione.
(fig.15 Fukurokujo con capra, katabori in avorio,
firmato Tomomitsu, metà XIX sec.
I netsuke hanno raggiunto quotazioni apprezzabili sul
mercato antiquario a partire dalla fine degli anni
Sessanta. In quegli anni i prezzi più alti mai pagati
per un katabori si aggiravano sui due milioni di lire,
secondo il cambio dell’epoca, cifra che oggi
corrisponde al prezzo minimo di un netsuke di un
qualche valore.
Le immagini sono tratte
dai seguenti siti internet:
http://www.Bosshard.net
http://www.5d.biglobe.ne.jp
http://www.Buddhamuseum.com
http://www.degener.com
http://www.ancienteastantiques.com
http://www.netsuke.org
http://www.robynbuntin.com
http://www.grappolo.com
http://www.haikulinde.de |