N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
Nel cuore della guerra anglo-spagnola
La
discutibile
invincibilità
della
Spagna
di
Ilaria
La
Fauci
«Iddio
soffiò
e
furono
dispersi».
Così
gli
olandesi
calvinisti
descrissero
la
rovina
degli
spagnoli.
Non
c’è
dubbio
che
essi
fossero
contenti,
visti
i
precedenti
e
sapendo
quali
sarebbero
stati
gli
obiettivi
della
Spagna
se
fosse
riuscita
nell’intento
di
invadere
l’Inghilterra.
A
quanto
pare
l’Invincibile
Armata
godeva
di
una
qualifica
non
meritata
ed
inappropriata,
che
costò
alla
Spagna
la
fine
dei
suoi
giorni
d’oro.
Non
c’è
dubbio
che
diversi
e
numerosi
conflitti
interni
attanagliassero
il
paese,
così
come
non
c’è
dubbio
che,
nel
tentativo
di
chiudere
un
occhio
di
fronte
ad
essi
e
rivolgere
l’attenzione
all’esterno
inseguendo
la
grandezza
e la
gloria,
la
Spagna
diventò
la
causa
dei
suoi
stessi
mali.
Il
re
prudente
Filippo
II
fu
il
primo
a
scontrarsi
con
un’Inghilterra
che
sarebbe
diventata,
in
un
percorso
di
crescita
esponenziale,
un
baluardo
della
modernità,
della
potenza
marittima
e
del
colonialismo,
per
molti
secoli
a
venire.
Questo
posto
sarebbe
potuto
essere
occupato
dalla
Spagna,
che,
con
le
spedizioni
oltre
oceano,
con
l’oro
proveniente
dalle
Americhe
e
con
gli
scambi
commerciali
in
Olanda,
si
sarebbe
senz’altro
assicurata
il
titolo
di
potenza
egemone.
Ma
cosa
andò
storto?
Eccessiva
mania
di
grandezza?
Illusoria
sensazione
di
essere
“invincibili”?
La
verità
difficilmente
può
essere
scovata
persino
dagli
storici,
i
quali
sono
consci
di
essere
schiavi
unicamente
dei
documenti,
delle
fonti
e
dei
resoconti
che
altri,
prima
di
loro,
hanno
tramandato,
ma
che
potrebbero
essere
incompleti,
falsati,
immersi
in
una
luce,
come
in
questo
caso,
eccessivamente
mistica.
A
quel
tempo
infatti
gli
spagnoli,
così
come
gli
inglesi
e
gli
olandesi,
si
convinsero
che
quelle
tempeste
fossero
state
mandate
da
Dio
a
protezione
dei
protestanti;
ma
non
bisogna
sottovalutare
la
modernizzazione
militare
che
gli
inglesi
avevano
avviato
e di
cui
gli
spagnoli
non
erano
a
conoscenza.
Gli
spagnoli
avevano
come
piano
quello
di
abbordare
le
navi
per
uno
scontro
corpo
a
corpo
ma,
trovandosi
le
più
numerose
navi
inglesi
che
li
bombardavano,
capirono
immediatamente
di
non
avere
molte
chances
di
vittoria:
non
erano
pronti
ad
un
moderno
combattimento
sul
mare.
Sulle
navi
spagnole
e
sulle
navi
inglesi
si
trovavano
uomini
molto
diversi,
abituati
a
combattere
in
situazioni
disparate,
da
cui
scaturirono
miglioramenti
in
termini
di
tattica:
gli
inglesi
avevano
avviato
la
pirateria
nell’Atlantico
per
poter
saccheggiare
i
cargo
spagnoli
colmi
di
oro
e di
argento
e
per
necessità,
dopo
che
nel
1568
molte
navi
furono
affondate
dagli
spagnoli,
dovettero
imparare
a
difendersi
sul
mare;
gli
spagnoli
avevano
affrontato
i
turchi
a
Lepanto
con
i
tradizionali
galeoni,
il
classico
speronamento
e
l’abituale
arrembaggio
all’arma
bianca,
per
cui
non
avevano
motivo
di
modificare
le
loro
tecniche
di
combattimento.
John
Hawkins,
Walter
Raleigh
e
Francis
Drake
furono
gli
iniziatori
della
guerra
di
corsa
(ovvero
pirateria
non
ufficialmente
ma,
senza
dubbio,
ufficiosamente
approvata
dalla
sovrana)
e
proprio
quest’ultimo
ottenne
la
nomina,
dalla
regina
Elisabetta,
di
comandante
della
flotta
inglese:
mise
a
frutto
la
propria
esperienza,
suggerendo
miglioramenti
per
la
marina
militare,
come
per
la
gittata
dei
cannoni
e
per
aumentare
l’agilità
e la
velocità
delle
navi
inglesi.
Centotrenta
navi
spagnole,
come
la
Santa
Maria
delle
Grazie
e la
Nostra
Signora
del
Rosario,
entrarono
nella
Manica
e si
scontrarono
nel
luglio
del
1588
con
le
navi
inglesi,
come
la
Senza
Paura,
la
Toro
e la
Tigre.
Dagli
antitetici
nomi
delle
navi
è
possibile
risalire
ad
una
delle
cause
di
questo
conflitto:
Filippo
II,
il
re
prudente
della
dinastia
degli
Asburgo
di
Spagna,
aveva
ricevuto
una
missione
dalla
Controriforma:
in
qualità
di
fedele
sovrano
cattolico,
doveva
condurre
una
crociata
per
riportare
la
vera
religione
nelle
terre
protestanti,
di
cui
l’anglicana
Inghilterra
rappresentava
il
fulcro
da
abbattere.
Per
tale
obiettivo
Filippo
tentò
diverse
strade,
meno
militari
e
più
diplomatiche,
come
il
matrimonio
dinastico:
nel
1554,
dopo
la
morte
della
prima
moglie
Maria
del
Portogallo,
sposò
Maria
I
Tudor
d’Inghilterra,
figlia
di
Enrico
VIII
e
Caterina
d’Aragona,
soprannominata
la
Cattolica;
l’anno
seguente
papa
Paolo
IV
riconobbe
il
matrimonio
e la
loro
carica
di
regnanti
d’Irlanda,
dove
i
missionari
del
papa
e
del
re
spagnolo
furono
attivi
nel
contrastare
la
presenza
anglicana.
Ma
nel
1558
i
sogni
di
Filippo
subirono
un
rallentamento:
Maria
morì
e
sembrò
dunque
impossibile
restaurare
il
cattolicesimo
dal
momento
che
la
Camera
dei
Comuni,
al
momento
del
matrimonio,
aveva
fatto
firmare
un
documento
secondo
cui
l’Inghilterra
non
sarebbe
diventata
eredità
del
re
spagnolo.
A
rendere
ancora
più
difficile
la
missione,
contribuì
la
perdita
di
Calais,
punto
strategico
fondamentale,
conquistato
dalla
Francia
nel
1555
ed
il
matrimonio
tra
Maria
Stuart,
nuovo
vessillo
della
chiesa
Cattolica,
ed
il
re
di
Francia
Francesco
II,
che
avrebbe
potuto
significare
l’unione
della
corona
inglese
e di
quella
francese.
Filippo
II,
nonostante
gli
eventi
avversi,
non
si
arrese
e si
propose
alla
nuova
regina,
Elisabetta
I,
come
marito;
ma
sappiamo
bene
che
ella
non
sposò
mai
alcun
uomo
e
morì
da
monarca
forte,
audace
ed
incredibilmente
furba
ed
abile,
una
scandalosa
novità
che,
insieme
all’orientamento
religioso,
le
costò
la
scomunica
della
Chiesa
Cattolica.
La
regina
Vergine
non
solo
diede
un
no
come
risposta,
ma,
dinnanzi
alla
rivolta
irlandese
del
1579-1581,
reagì
con
lo
sterminio
di
massa
e la
tattica
della
terra
bruciata,
che
portò
alla
morte
di
trentamila
irlandesi;
addirittura
appoggiò
la
ribellione
anti-spagnola
nei
Paesi
Bassi
(causata
dai
rigidi
regimi
fiscali,
dall’accentramento
del
potere
nella
mani
del
sovrano
spagnolo
e
dalla
resistenza
che
egli
opponeva
alla
diffusione
del
protestantesimo)
ed
arrivò,
nel
1585,
con
il
trattato
di
Nonsuch,
ad
aumentare
i
rifornimenti
ai
ribelli
olandesi
e ad
inviare
un
contingente
militare
in
aiuto.
Nel
1587
Filippo
II
capì
che
la
strada
diplomatica
non
avrebbe
funzionato:
Elisabetta,
a
seguito
delle
continue
richieste
degli
inglesi
e
delle
prove
di
congiura
nei
suoi
confronti,
processò
e
condannò
a
morte
la
cugina
Maria
Stuart,
regina
cattolica
di
Scozia,
che
egli
stesso
aveva
sostenuto
come
legittima
sovrana
d’Inghilterra;
inevitabile
fu
dunque
la
guerra,
nella
quale
ordinò
l’equipaggiamento
della
sopraccitata
Invincibile
Armata,
con
al
comando
Alessandro
Farnese.
La
battaglia
si
colloca
nella
guerra
anglo-spagnola
(1585-1604),
un
conflitto
saltuario
mai
formalmente
dichiarato
che
aveva
come
pretesto
i
Paesi
Bassi:
il
piano
progettato
dal
Marchese
di
Santa
Cruz
consisteva
nel
raccogliere
cinquecento
navi
a
Lisbona
per
poi
raggiungere
la
Manica,
imbarcare
nelle
Fiandre
l’esercito
di
coalizione
con
cui
sbarcare
nelle
spiagge
del
Kent
e
marciare
su
Londra.
A
causa
delle
continue
incursioni
di
pirateria
però,
poterono
raccogliere
solo
130-140
navi
e
solo
al
terzo
tentativo,
dopo
la
morte
del
Marchese
ed
una
bufera,
la
flotta
comandata
dal
Duca
di
Medina
Sidonia
salpò
il
28
maggio
del
1588
ed
entrò
nella
Manica
il
29
luglio
dello
stesso
anno.
Presso
la
località
Devon,
duecento
vascelli
inglesi,
tra
cui
le
tre
navi
dei
corsari
Lord
Howard
di
Effingham,
Sir
Francis
Drake
e
Sir
John
Hawkins,
ebbero
la
meglio
sugli
spagnoli:
le
schermaglie
continuarono
fino
al 2
agosto,
quando
gli
spagnoli
tentarono
di
distruggere
l’avanguardia
inglese,
salvata
però
dai
venti
e
dalla
marea.
Il 6
agosto,
pronta
ad
imbarcare
l’esercito,
l’Armada
venne
dispersa
da
otto
navi
incendiarie
inglesi;
seguì
la
battaglia
di
Gravelinga
e la
ritirata
spagnola.
La
mancanza
di
organizzazione,
la
lentezza
ed
il
maltempo
giocarono
a
sfavore
di
Filippo
II:
grandi
progetti
sfumarono
per
tali
problemi
ed
il
maniacale
controllo
che
il
re
ostentava
in
ogni
situazione
non
li
risolse.
Poco
più
di
cinquanta
navi
fecero
ritorno
in
patria:
dopo
questa
disfatta,
la
Spagna
rafforzò
la
flotta,
costruendo
dozzine
di
galeoni,
migliorò
la
rete
di
spie
e
difese
i
trasporti
di
metalli
preziosi
provenienti
dal
Nuovo
Continente;
riuscì
a
vincere
diverse
battaglie
contro
gli
inglesi,
colpiti
da
tempeste
che
dispersero
la
loro
flotta,
vittime
di
una
sorte
da
cui
fino
ad
allora
avevano
tratto
solo
vantaggi.
La
fine
della
guerra
giunse
con
il
trattato
di
Londra
del
28
agosto
del
1604:
i
nuovi
re,
Filippo
III
di
Spagna
e
Giacomo
I
d’Inghilterra,
posero
fine
alle
incursioni
in
Irlanda
e
nei
Paesi
Bassi
ed
alla
pirateria.
Trionfare
nel
cuore
dell’eresia
avrebbe
significato
ottenere
il
titolo
di
capo
della
cristianità
ed
il
predominio
sull’Europa
occidentale
senza
rivali;
ma
la
Spagna,
dietro
la
dura
corazza
di
organizzazione
e
burocrazia,
celava
problemi
di
natura
economica
che
l’avrebbero
comunque
fatta
crollare:
dalla
scoperta
dell’America,
si
era
basata
fin
troppo
sulle
ricchezze
provenienti
dal
Nuovo
Mondo
e
sulle
imposte
nei
Paesi
Bassi
ed
in
Italia.
Aveva
puntato
sulle
importazioni,
i
cui
benefici,
senza
un
equilibrio
con
le
esportazioni,
andarono
ai
paesi
da
cui
acquistava
i
beni;
perciò
quando
gli
olandesi
distrussero
i
loro
porti,
distrussero
anche
i
commerci
e
l’economia:
nonostante
il
miglioramento
militare,
la
decadenza
fu
inesorabile.
La
crescita
che
avrebbe
dovuto
conseguire
per
realizzare
i
suoi
gloriosi
progetti
non
venne
messa
in
moto
perché
non
ci
furono
gli
eventi
giusti
a
spingerla
in
quella
direzione:
ebbe
la
fortuna
di
essere
uno
dei
primi
paesi
a
godere
legalmente
delle
ricchezze
delle
Americhe;
invece
l’Inghilterra
si
trovò
nella
condizione
di
dover
trovare
modi
diversi
per
poterle
ottenere,
da
cui
la
pirateria,
le
nuove
tattiche
militari
e la
vittoria
sull’arretrata
flotta
spagnola,
un
esempio
a
dimostrazione
del
fatto
che
ogni
Paese,
nell’ascesa
o
nella
decadenza,
è
stato
condizionato
dagli
eventi
storici
e
dalle
azioni
degli
uomini,
che
hanno
determinato
un
peculiare
flusso
degli
eventi
piuttosto
che
un
altro.
Riferimenti
bibliografici:
Earle
P.,
The
Last
Fight
of
the
revenge,
Londra
2005.
Giardina
A.,
Sabbatucci
G.,
Vidotto
V.,
Manuale
di
storia,
Vol.
2:
L’età
moderna,
1998.
Graham
W.,
The
Spanish
Armadas,
New
York
1972.
Howarth
D.,
L’Invincibile
Armada,
Milano
1984.
L’invencible
Armada,
1588,
in
“Guerra
sui
mari”,
n°3,
Madrid,
2004.
Martelli
A.,
La
disfatta
dell’Invincibile
Armada,
Bologna
2008.
Mattingly
G.,
The
Armada,
New
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2005.
Montrose
L.A.,
The
subject
of
Elizabeth:
authority,
gender
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Chicago
2006.