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N. 66 - Giugno 2013 (XCVII)

sulle navi di nemi

ALLE ORIGINI DELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ITALIA
di Sara Massobrio

 

Quello di Nemi è un piccolo lago d'origine vulcanica che si trova sui colli Albani, vicino a Roma. Luogo sacro per gli antichi Romani perché consacrato a Diana, dea dei boschi e della caccia, dove vi fu eretto, per l’appunto, un santuario a lei dedicato.

 

Sin dal medioevo i pescatori recuperarono oggetti, che oggi identificheremo come reperti archeologici, ma che allora suscitavano meraviglia facendo nascere leggende popolari, secondo le quali il lago celasse una città sommersa. Il mistero che ha avvolto per secoli questi fondali, fino al recupero delle navi, nasce dal fatto che non sono giunte a noi notizie o citazioni di autori antichi che trattino delle due imbarcazioni, probabilmente dato dal fatto che, essendo state volute da Caligola, abbiano subito la damnatio memoriae, stessa sorte subita dall’imperatore stesso dopo la morte avvenuta nel 41 d.C.

 

Solo in epoca rinascimentale, nel 1446-1447, si tentò, per la prima volta, una verifica del fondo del lago; il cardinale Prospero Colonna fece chiamare, allora, Leon Battista Alberti, che costruì lui esso macchine per l’occasione, non disponendo di una attrezzatura adeguata a tale operazione. Fece, inoltre, arrivare da Genova degli esperti nuotatori.

 

Dei suoi tentativi riferisce Flavio Biondo nell’opera “Italia Illustrata”:

 

«Costi fece legare in molti ordini alcune botti vuote, per potervi tenere su, quasi su ponti, alcune macchine, dove erano molti uncini di ferro attaccati con lunghi funi e tirate poi a mezzo di congegni da maestri legnaioli; e furono condotti da Genova alcuni marinai che nuotavano come pesci, i quali, attuffandosi nel fondo del lago, sapevano dire la grandezza delle barche…e vi attaccavano poi quei tanti uncini di ferro. Essendosene uno attaccato alla prora, si spezzò e ne venne solo una parte, per la quale v’andarono da Roma i più belli ingegni della Corte Romana per vedere com’era fatta».

 

Ma l’impresa di Leon Battista Alberti non portò al risultato sperato; i nuotatori riuscirono a individuare la prima nave, quella più vicino a riva e riuscirono anche a tracciarne dei rilievi sommari (la scarsa visibilità rendeva le operazioni davvero difficili).

Tentarono, in un secondo momento, di trainare a terra il relitto, con la sola conseguenza di uno smembramento del fasciame ligneo (materiale che richiede cure ben precise per poterlo far riemergere dalle acque senza conseguenze irrimediabili), e la fine di ogni operazione.

 

Nel 1535 fu un ingegnere bolognese Francesco De Marchi, al servizio di Margherita d’Austria, a riprendere i tentativi di recupero; quest’ultimo si immerse con un primordiale scafandro, realizzato da Guglielmo Lorense, riuscendo a riportare in superficie dei frammenti che facevano parte della coperta di uno dei due relitti.

Dei particolari dell’immersione rimane una descrizione fatta dallo stesso De Marchi nel suo “Ritratto di Architettura Militare”:

 

«Con questo instrumento si può lavorare sotto l’acqua, cioè segare, tagliare, tirare, legar corde, adoperar martelli… ma non si può far gran forza a cagione dell’acqua; nel medesimo per mezzo di un cristallo della grandezza di un palmo, si vede quanto basta quando il sole è chiaro, come era quando calai nel lago il giorno 15 luglio 1535, ma però gli oggetti si vedevano molto più grandi di quelli che sono, di modo che i pesci di questo lago, chiamati latterini, i quali non sono più grandi del dito minimo della mano, mi sembravano grossi coma il braccio di un uomo, e lunghe tre palmi… Ligai una parte della sponda della barca; e con un argano, che avevamo i sopra, in su una ponte di botti, tirammo tanto di questo legno, che avremmo potuto caricare due buonissimi muli…e ancora cavassimo un pezzo di smalto di un pavimento il quale era rosso e di bel colore... Attaccammo un trave con una grossa corda che pareva da nave, e con un argano e un molinello voltavamo per cavare una quantità di questa barca. Eravamo sedici uomini a tirar l’argano; la gomena si rompé e non potemmo far nulla.»

 

Anche l’impresa di De Marchi si rivelò poco fruttuosa, e anzi contribuì a un ulteriore smembramento dello scafo ligneo. Da questo momento le ricerche vennero abbandonate per essere, nuovamente, riprese nel 1827 da Annesio Fusconi; anch’egli fece costruire delle apposite macchine per tentare il recupero di altro materiale, senza danneggiare ulteriormente il relitto. A causa del cattivo tempo, della poca organizzazione e la scarsa conoscenza dei mezzi da adoperare, l’operazione si concluse senza troppi successi, contribuendo solamente al processo di distruzione dei reperti, che sino a questi anni si susseguirono.

 

Un’ulteriore tentativo venne effettuato nel 1895 da Eliseo Borghi che, con il permesso degli Orsini e del Ministero della Pubblica Istruzione, iniziò un lavoro di recupero con palombari, durante il quale vennero recuperati bronzi, paste vitree, avori e marmi che decoravano le antiche navi.

 

Soltanto con l’ingegnere navale Vittorio Malfatti si diede un carattere più scientifico alla ricerca e lo studio dei relitti; facendo si che si sperimentasse anche un nuovo sistema di rilevamento archeologico; per mezzo delle boe galleggianti si davano dati più precisi sull’estensione dei relitti agli archeologi in superficie.

 

Sino a questo momento, dunque, i tentativi di recupero delle due navi furono vari, ma nessuno di essi portò a un risultato esaustivo, rendendo le operazioni più saccheggi privati che non lavori scientifici, fino a quando Mussolini, interessato a riportare alla luce un grande patrimonio della romanità, non dette il via a una campagna di lavori.

Un recupero totale dei due relitti venne effettuato nel 1929 attraverso un’operazione grandiosa; il lago venne svuotato attraverso il restauro dell’antica galleria romana di oltre 611 metri che convogliava le acque a valle. Il livello fu abbassato di 23 metri e le navi portate all’asciutto.

 

Iniziò il lavoro di pulitura, restauro, trasporto di quegli scafi immensi: uno misurava 78 metri per 22, l’altro 79 per 26, anche se la loro destinazione rimane comunque incerta, l’imponenza e le decorazioni fecero pensare che non si trattassero di navi da guerra (le longae, veloci e snelle), né onerariae (con grande capacità e una struttura essenziale, in modo da far posto a grandi carichi); ma una sorta di grandi nave da diporto, adatte agli ozi imperiali, o a grandi navi-templi, dedicate alla dea Diana Nemorense e della ninfa Egeria, che furono fatte costruire da Caligola. Quest’ultimo dato è reso certo dalla presenza del nome dell’imperatore inciso sulle tubature di piombo, che andavano a costituire l’impianto idraulico.

 

Di queste navi (andate completamente distrutte per un incendio doloso, causato dalle truppe tedesche, nella notte tra il 31 maggio e il 1˚giugno del 1944) resta oggi solo la documentazione raccolta nel volume di Guido Uccelli.

 

Nella nave più piccola si era conservata parte del ponte crollato su cui erano costruiti lussuosi ambienti in muratura, coperti da un tetto di tegole di rame dorato, con pavimenti decorati da tarsie marmoree e da mosaici policromi che ricoprivano anche le pareti. Fra i resti di queste navi, furono rinvenuti numerosi materiali di rivestimento o di decorazione: cinque rivestimenti bronzei con protomi ferine delle testate delle travi e del timone, tre pilastri bronzei della balaustra di bordo con erme bifronti di satire e ninfe, antefisse, lastre fittili decorate a rilievo. Si rinvennero anche laterizi bollati, condutture plumbee con inscritto il nome dell’imperatore C(ai) Caesaris Aug(usti) Germanic(i) e un rubinetto bronzeo, tubi fittili, attrezzature di bordo e oggetti inerenti alla vita di tutti i giorni (patere, monete, ami da pesca). Ancora oggi è possibile osservare le bellezze di alcuni dei reperti provenienti dai relitti, scampati all’incendio, e i modellini delle due navi in scala 1:5.



 

 

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