moderna
La nascita degli Stati Uniti
Verso la Convenzione di Filadelfia
di Francesco Biscardi
Oggi
si tende a considerare la Rivoluzione
americana come scevra di caratteri
sociali e come meno radicale rispetto a
quella francese o a quella russa,
riducendola superficialmente a mera
rivolta contro un governo “lontano”,
divenuto oppressivo e dispotico. In
realtà non è così: essa ha avuto i suoi
caratteri radicali e, anzi, per i suoi
ideali e per la forma statuale cui diede
vita, influenzò il corso della storia
del mondo intero.
Nell’universo monarchico di ancien
régime davvero pochi sognatori
potevano dirsi così arditi da immaginare
un futuro dove i re sarebbero stati
deposti a favore di governi
repubblicani. Anche il più fanatico e
anacronistico ammiratore della Roma
repubblicana o delle poleis
greche difficilmente avrebbe avuto il
coraggio di fomentare il rovesciamento
della monarchia.
Del resto le repubbliche autoproclamate
d’Europa, come i Cantoni svizzeri o le
Province Unite, erano realtà statuali di
piccole dimensioni, mentre il più
recente precedente di governo
repubblicano in un Paese di dimensioni
estese era rappresentato
dall’Inghilterra secentesca, uscita
vittoriosa dalla guerra civile contro
Carlo I Stuart, ma degenerato nella
atroce dittatura di Cromwell, dando
adito ai detrattori del sistema
repubblicano per sottolinearne la
fragilità.
È vero che il repubblicanesimo aveva un
largo seguito sin dal Rinascimento, ma i
più ritenevano che monarchia e
repubblica si mescolassero e
perfezionassero a vicenda: David Hume,
ad esempio, reputava che la forma
monarchica dovessàe tutta la sua
perfezione a quella repubblicana, mentre
altri, come Montesquieu, erano
ammiratori del sistema monarchico
inglese, basato sulla suddivisione dei
poteri dove il re, “onnipotente per fare
il bene”, precisava Voltaire, aveva “le
mani legate per fare il male”.
Le idee repubblicane e illuministe
avevano trovato terreno fertile in
America, dove il conflitto con la
madrepatria, cominciato nel 1775, si era
chiuso positivamente nel 1783 con il
Trattato di Parigi. Già durante lo
scontro erano sorte delle discussioni
sul futuro del nuovo Stato che sarebbe
sorto sulle ceneri delle “vecchie”
colonie inglesi. Il problema maggiore
era che, dapprincipio, le colonie non
avevano intenzione di attuare una
secessione; per questo ai ceti dirigenti
dei nuovi Stati indipendenti spettava un
compito immane: quello di dare
fondamenta solide al nuovo Stato
nazionale.
Sebbene delle Costituzioni fossero state
approvate dai singoli Stati sin dai
primi anni di guerra, gli Articoli di
Confederazione vennero ratificati solo
nel 1781 (con essi si prevedeva la
nascita di un’autorità centrale
piuttosto debole a vantaggio dei singoli
Stati, cui venivano assicurati ampi
poteri). Tuttavia intricati nodi
dovevano essere sciolti; il più spinoso
riguardava la forma istituzionale: gli
Stati Uniti sarebbero stati una
Confederazione di Stati autonomi o una
Repubblica federale con un forte potere
centrale?
A partire da un Convegno in Virginia del
1786 prese piede la prospettiva di
tenere una Convenzione a Filadelfia allo
scopo di dirimere la questione. Essa
inaugurò i suoi lavori nel maggio
dell’anno seguente e fu presieduta da
George Washington, eroe del conflitto
contro gli inglesi, ritiratosi dopo di
allora a vita privata.
Su di lui è giusto soffermarci un
attimo: fieramente anti-tirannico ed
esperto conoscitore dei valori
repubblicani classici, questi appariva
come la sola personalità in grado di
trovare il consenso di tutte le forze
politiche, vista la dedizione con cui
aveva condotto la guerra
indipendentistica (aveva persino
rifiutato di essere stipendiato). L’atto
che gli aveva guadagnato una ammirazione
incomparabile era stato proprio il
volontario ritiro: con gesto simbolico,
il 23 dicembre 1783, aveva consegnato la
spada al Congresso ed era tornato nella
sua fattoria di Mount Vernon.
Mai era capitato nella storia recente
che un capo carismatico, vincitore di un
grande conflitto, avesse deposto
volontariamente i poteri; correva
addirittura voce che il re Giorgio III
avesse affermato che se Washington si
fosse realmente ritirato a vita privata
come sembrava promettere, avrebbe
meritato di essere considerato “il più
grande uomo del mondo”. Così fece e non
fu semplice persuaderlo a tornare in
scena per presiedere i lavori di
Filadelfia; alla fine accettò,
preoccupato forse per il destino di
smembramento che poteva paventare in
un’assemblea scissa al suo interno.
La Convenzione andò oltre il programma
prefissato, arrivando a redigere la
Costituzione, nonostante le discussioni
che animarono le riunioni furono così
aspre da rischiare in più occasioni di
farne naufragare i lavori. Il principale
dissidio verteva sulla forma
istituzionale e vedeva contrapposti i
“federalisti”, favorevoli alla
formazione di un forte governo centrale,
e gli antifederalisti, propensi a
mantenere lo status quo. Altra
spinosa questione riguardava i tre
poteri fondamentali, il legislativo,
l’esecutivo e il giudiziario, se
dovessero essere tenuti separati, in
sostanziale autonomia l’uno dall’altro,
o in una situazione di reciproco
controllo.
Il modello storico a cui molti delegati
si rifacevano era la Roma repubblicana,
al punto da adottare spesso dei
nomignoli ispirati ad alcuni suoi
protagonisti: ad esempio
l’antifederalista “Bruto”, contrario
all’istituzione di un esercito nazionale
permanente, ammoniva che la libertà
romana era stata soppiantata dalle
armate cesariane, mentre il collega
“Catone” incitava a resistere contro
qualsiasi deriva tirannica.
Ai dissidi ideologici si affiancavano
quelli economici e sociali: gli Stati
del Nord erano costituiti da una
popolazione prevalentemente di origine
europea e potevano vantare economie
“moderne”, mentre quelli del Sud
annoveravano un numero non indifferente
di persone di origine africana ed erano
fondati su un’economia di piantagione e
sul lavoro degli schiavi. Ovviamente
questi ultimi non erano disposti a
vedere il peso del proprio Stato
ridotto, ma mai avrebbero acconsentito a
concedere la cittadinanza ai neri.
Il 16 luglio si giunse a un compromesso:
venne accettata la nascita di un
Parlamento bicamerale, diviso in un
Senato, composto da due rappresentanti
nominati dai singoli Stati (l’elezione
diretta per i senatori verrà introdotta
nel 1913), con poteri in materia di
politica estera e di nomina dei
funzionari federali, e da una Camera con
competenze finanziarie, eletta a
suffragio popolare e composta da un
numero di rappresentanti proporzionati
alla popolazione di ogni Stato (in
riferimento alla schiavitù fu introdotto
un meccanismo particolare: cinque
schiavi erano conteggiati al pari di tre
uomini liberi).
Riguardo all’esecutivo prevalse l’idea
che dovesse essere nominato un supremo
magistrato avente il compito di
scegliere e dirigere la compagine
governativa. Le maggiori discussioni,
anche queste asprissime, ruotarono
attorno alla durata del mandato, alla
possibile rieleggibilità e al meccanismo
della nomina. All’inizio si propendeva
per una durata di sette anni senza
possibilità di ulteriori mandati, mentre
molti dubbi vi erano sull’affidarne
l’elezione al popolo; gli Stati più
grandi e popolosi erano per quest’ultima
soluzione, mentre i più piccoli temevano
che in questo modo i propri candidati
non avrebbero avuto alcuna chance
di vittoria.
Presto furono avanzati rilievi anche sul
divieto di un secondo mandato: un
rappresentante della Georgia sottolineò
che negare al supremo magistrato la
possibilità di una ricandidatura ne
avrebbe potuto pregiudicare l’operato.
Si optò anche in questo caso per un
compromesso: il popolo avrebbe scelto
dei delegati aventi il compito di
eleggere il presidente, il quale sarebbe
rimasto in carica quattro anni senza
limiti di candidatura per futuri
mandati.
Tuttavia, sin da Washington, unico caso
nella storia di un commander in chief
eletto unanimemente, è prevalsa la
consuetudine, esistente ancora oggi, di
ricandidarsi solo una seconda volta dopo
il primo mandato (consuetudine infranta
solo da Franklin Delano Roosevelt,
candidatosi vittoriosamente per quattro
mandati consecutivi fra gli anni Trenta
e Quaranta del Novecento).
Risolte queste annose questioni, si
passò a decidere le funzioni e i poteri
del presidente, che, sintetizzando
molto, possiamo dire furono quelle di
Capo di Stato e di Primo Ministro, con
diritto di “veto” sulle decisioni del
Congresso (annullabile però dalla
maggioranza dei due terzi di ciascuna
Camera), mentre a quest’ultimo fu
riconosciuto il potere di destituire il
supremo magistrato in caso di accertato
impeachment. Infine fu regolato
il potere giudiziario, affidato alla
Corte Suprema e a corti “di grado
inferiore” eventualmente istituite di
volta in volta dal Congresso.
Chiusa la Convenzione e optatosi
definitivamente per la soluzione
repubblicana, la parola passò ai singoli
Stati per la ratifica. Seguirono anche
in questo caso indecisioni e dubbi, ma,
alla fine, tutte le ex colonie
approvarono la nuova Carta
costituzionale. Tuttavia il processo di
costruzione di una Repubblica federale
unita ed esente da contraddizioni
interne era tutt’altro che concluso: per
poter parlare propriamente di “nazione”
dovremo aspettare la conclusione della
guerra civile del 1861-1865, a seguito
della quale inizierà l’edificazione di
un vero Stato-nazione destinato a
concretizzarsi pienamente solo negli
anni della Prima guerra mondiale.
Dunque la formazione degli Stati Uniti
fu ben più complessa di quanto
solitamente si crede, e non riducibile
alla sola guerra d’indipendenza.
Potremmo paragonare, con le debite
differenze, il processo di nascita e di
sviluppo degli States a quello
del Regno d’Italia: anche nel nostro
caso venne realizzata un’unificazione
che non era inizialmente prevista nei
progetti di Vittorio Emanuele II e di
Cavour, i quali, d’accordo con Napoleone
III, miravano solo a un ingrandimento
dinastico, proprio come le colonie non
volevano una secessione dalla
madrepatria prima della rottura
definitiva con Giorgio III.
Sia la Rivoluzione americana che
l’unificazione italiana si verificarono
a seguito di eventi in principio non
previsti (come il sostegno francese alla
causa delle colonie o l’impresa dei
Mille), per cui simile era il compito
che attendeva le classi dirigenti:
edificare, partendo dalle basi, un nuovo
Stato.
Oggi, complice il diffuso
antiamericanismo e l’evidente fallimento
delle millantate politiche di
“esportazione della democrazia” nel
mondo, si tende sempre più a enfatizzare
gli errori compiuti dai Padri
Costituenti e le contraddizioni che
contrassegnarono già alla nascita gli
Stati Uniti (pensiamo al mantenimento
della schiavitù in spregio al principio,
contenuto nella Dichiarazione
d’Indipendenza del 1776, che “all men
are created equal”), dimenticandosi
della grande portata storica della
Rivoluzione americana: da essa nacque il
primo grande Stato repubblicano dell’era
moderna, una terra di speranza,
professatamente democratica, in
contrapposizione alla gerarchica e
classista società di ancien régime
europea, una land of opportunity
capace di far sognare milioni di persone
nel mondo.
Inoltre, la stessa Rivoluzione francese,
che siamo soliti ritenere la prima
grande rivendicazione dei diritti umani
dei tempi moderni, ebbe come autentico
modello di riferimento proprio quella
americana della decade precedente (non
dimentichiamoci poi che fra le due fu la
prima ad essere degenerata prima nel
terrore giacobino e poi nell’impero
napoleonico).
Già contemporanei come Benjamin
Franklin, scomparso nel 1790 a meno di
un anno dalla presa della Bastiglia, si
chiedeva se le due rivoluzioni non
fossero in qualche modo “gemelle”; forse
è giusto ripartire da questo assunto per
comprendere pienamente il retaggio di
questi sommovimenti che hanno scritto
una pagina fondamentale nella storia del
mondo.
Riferimenti bibliografici:
Abbattista G., La Rivoluzione
americana, in Storia moderna,
AA.VV., Donzelli, Roma 2014, pp.
525-552.
Borgognone G., Storia degli Stati
Uniti. La democrazia americana dalla
fondazione all’era globale,
Feltrinelli, Bergamo 2016.
Sanfilippo M., Sogni, paure e
presidenti. Politica e cultura da
Washington a Bush jr, Cooper, Roma
2004.
Wood G.S., The Radicalism of the
American Revolution, Vintage Books,
New York 1993. |