N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
Napoli aspartata
il "sogno" di Giannino Di Stasio
di Antonio Pisanti
Alle
colorite
intemperanze
leghiste
al
Nord,
che
hanno
sentito
il
bisogno
di
manifestarsi
anche
in
Parlamento,
in
occasione
delle
celebrazioni
per
il
Centocinquantenario
dell’Unità
d’Italia,
fanno
riscontro
al
Sud
molteplici
iniziative
per
sottolineare
la
ricorrenza
in
quanto
data
di
un’altrui
conquista
e
dell’annessione
del
Regno
delle
Due
Sicilie
al
nascente
Regno
d’Italia.
Il
Tricolore
nazionale,
esposto
in
occasione
della
festa,
è
stato
talvolta
affiancato
da
vessilli
borbonici
abbrunati,
esibiti
ancor
più
copiosamente
nella
realtà
virtuale
dei
social
network,
mentre
molti
frequentatori
della
rete
sentivano
il
bisogno
di
proclamare
il
loro
solenne
“io
non
festeggio”.
Tra
coloro
che
certamente
non
hanno
festeggiato
il
Centocinquantenario
c’è
il
nostro
autore,
Giannino
Di
Stasio,
che
per
la
ricorrenza
ha
fatto
arrivare
in
vetrina
il
suo
libro
più
recente,
“Napoli
aspartata”,
pubblicato
da
Adriano
Gallina
Editore
(pagg.96 ,€
12)
nella
collana
Voci
fuori
dal
coro.
Del
resto,
Di
Stasio
esordisce
proprio
così
nell’incipit
della
sua
nuova
opera,
dove
si
dice
“convinto
che
nel
150°
dell’Unità
d’Italia
Napoli
non
ha
niente
da
festeggiare.
Basta
guardarla
nello
specchio,
ascoltare
e
leggere
tutto
quanto
si
dice
e si
fa
contro
la
città…
fino
a
martoriarla
e a
mortificarla”.
Già
da
un
tale
esordio
si
potrebbe
arguire
che
l’«io
non
festeggio»
di
Di
Stasio
sia
motivato
più
da
una
condizione
di
intristimento
alla
quale
il
napoletano
si è
ridotto
di
fonte
ai
mali
attuali
della
città
che
da
un
giudizio
drasticamente
negativo
sul
processo
risorgimentale,
nel
quale
egli,
commentatore
non
nuovo
e
non
di
circostanza,
pure
rileva
come
vi
siano
stati
“più
vittime
che
consensi”.
L’idea
di
una
“Napoli
aspartata”
potrà
piacere
indubbiamente
a
quanti
si
affannano
a
contrapporre
ai
separatismi
leghisti
equivalenti
separatismi
neoborbonici,
alle
varie
ipotesi
di
padanie
quelle
di
neapolitanie
anch’esse
diversamente
disegnate
ed
imbandierate.
Ma,
leggendo
il
libro,
si
comprende
subito
che
il
predominante
motivo
ispiratore
dello
scrittore
è
ancora
una
volta
il
grande
amore
per
Napoli,
lo
stesso
che,
appunto,
ha
dato
titolo
al
precedente
libro,
“Napolitàmo”,
pubblicato
qualche
anno
fa,
sempre
per
l’Editore
Gallina.
Il
volere
in
disparte
la
città,
quasi
a
proteggerla,
sembra
essere
suggerito
più
dalla
reazione
al
vederla
incompresa
e
maltrattata
che
da
una
reale
volontà
di
separazione
e di
disconoscimento
dell’attuale
identità
nazionale.
È un
sogno
disperato,
un
“pensiero
folle”
nel
quale
lo
stesso
autore
si
rifugia,
volendo
affidare
alla
fantasia
la
proposta
per
una
città,
Fantanapoli,
che
sembra
non
avere
altre
possibilità
reali
di
sbocco
nella
deriva
di
degrado,
socioambientale,
amministrativo
e
politico,
nel
quale
si
vede
costretta.
I
lineamenti
della
nuova
Napoli,
capitale
del
Mediterraneo,
che
Di
Stasio
va
abbozzando,
fanno
pensare,
pur
nella
loro
provocatoria
minimalità,
alle
ipotesi
di
taluni
disegni
utopistici
dove
ogni
assetto
sociale
veniva
ridefinito
e
proposto,
indipendentemente
dalla
sua
concreta
realizzabilità,
all’insegna
della
pressante
esigenza
di
ovviare
agli
squilibri
e ai
mali
del
presente.
Ma,
al
di
là
di
grandi
ipotesi,
espresse
tra
il
serio
e il
faceto,
tra
disperazione
ed
istanze
di
riscatto,
Di
Stasio
si
sofferma
anche
sulla
necessità
di
un
cambiamento
dei
costumi,
la
cui
decadenza
si
rivela
particolarmente
nelle
cattive
abitudini,
nelle
piccole
azioni
di
ogni
giorno,
dalle
quali
traspaiono
l’assenza
di
educazione
civile
e
l’assuefazione
all’indifferenza
verso
il
bene
comune.
Nei
primi
capitoli
di
“Napoli
aspartata”
prevale
invece,
come
antefatto,
la
realtà
di
un
processo
unitario
incompiuto,
segnato
all’origine
dalla
dura
repressione
delle
insorgenze
filoborboniche
e
dal
“declassamento”
di
Napoli
già
capitale
europea.
La
stessa
questione
meridionale,
enunciata
dopo
l’Unità,
secondo
Di
Stasio,
è
derivata
da
una
artificiosa
contrapposizione
di
diversità
tra
Nord
e
Sud,
diversità
che
richiedevano,
come
ancora
richiedono,
di
essere
equilibrate
piuttosto
che
essere
esasperate.