N. 97 - Gennaio 2016
(CXXVIII)
FELTRINELLI,
NAPOLEONE,
HITLER
E LA
RUSSIA
DALLA
CAMPAGNA
NAPOLEONICA
ALL'OPERAZIONE
BARBAROSSA
di
Luca
Sansone
Hitler,
in
tutti
i
momenti
decisivi
della
sua
vita,
utilizzò
il
confronto
con
Napoleone
a
conferma
e
conforto
delle
proprie
scelte
politiche.
Lo
fece
nel
momento
della
clamorosa
vittoria
in
Francia.
Il
23
giugno
1940,
all’alba,
il
Führer lasciò
il
suo
quartier
generale
di
Brulj-de-pesche
per
recarsi
in
volo
a
Parigi
per
la
sua
prima
e
ultima
visita
alla
capitale
francese.
Visitò
i
monumenti
principali
e si
soffermò,
in
particolare,
sulla
tomba
di
Napoleone.
«Questo
–
disse
commosso
al
suo
seguito
–
è il
più
bel
momento
della
mia
vita».
Diede
quindi
ordine
che
i
resti
del
figlio
di
Napoleone,
il
duca
di
Reichstadt,
che
riposavano
a
Vienna,
fossero
trasferiti
a
Parigi
accanto
a
quelli
del
padre.
Lo
fece,
ancora,
in
uno
dei
momenti
più
gravosi
del
suo
governo.
In
una
lunga
lettera
a
Benito
Mussolini,
in
cui
comunicava
all’ignaro
alleato
che
di
lì a
poche
ore
sarebbe
stato
dato
il
via
all’operazione
Barbarossa,
il
dittatore
nazista
ammetteva
di
trovarsi
di
fronte
alla
scelta
più
onerosa
della
sua
vita
e
che,
per
prenderla,
aveva
a
lungo
meditato
«più
di
chiunque
altro
sull’esperienza
russa
di
Napoleone».
Lo
fece,
infine,
nel
momento
del
dramma
finale.
Nel
cosiddetto
“memoriale”,
cioè
le
memorie
che
dal
febbraio
1945
iniziò
a
dettare
al
suo
segretario
Martin
Bormann,
nel
bunker
sotto
la
Cancelleria
a
Berlino,
ritornò
ripetute
volte
al
parallelo
tra
la
sua
esperienza
politica
e
quella
napoleonica:
soprattutto
per
sottolineare
enfaticamente
il
destino
comune
di
uomini,
a
suo
avviso
portatori
della
pace
ma
costretti
alla
guerra
per
colpa
dell’Inghilterra.
«Io,
meglio
forse
di
chiunque
altro,
posso
benissimo
immaginare
le
torture
sofferte
da
Napoleone,
desideroso
del
trionfo
della
pace
e
costretto
a
continuare
la
guerra,
senza
mai
smettere
e
senza
vedere
alcuna
prospettiva
di
smettere,
eppure
tenace
nella
sua
eterna
speranza
di
conseguire
la
pace.
A
partire
dall’estate
del
1940
ho
anche
io
sofferto
gli
stessi
tormenti.
È
sempre
stata
questa
Inghilterra
a
sbarrare
la
via
dell’Europa
verso
la
prosperità».
Ciò
detto,
è
fuor
di
dubbio
che
a
Hitler
(e
ai
suoi
generali)
fu
presente,
più
di
ogni
altro
istante
della
vita
napoleonica,
la
spaventosa
ritirata
di
Russia.
Dall’inverno
del
1941,
con
la
fallita
occupazione
di
Mosca,
divenne
un
vero
e
proprio
incubo,
un’ossessione
tale
che,
nel
timore
di
ripeterla,
egli
negò
il
permesso
a
qualsiasi
ritirata,
anche
tattica.
Non
solo:
si
rifiutò
pure
di
accettare
ogni
forma
di
resistenza
elastica,
anche
quando
divenne
evidente
che
essa
avrebbe
rappresentato
non
solo
la
miglior
difesa,
ma,
secondo
il
giudizio
di
Basil
Liddell
Hart,
anche
l’unica
speranza
di
vittoria.
Il
suo
atteggiamento
accelerò
certamente,
negli
anni
successivi,
il
logoramento
totale
delle
forze
tedesche,
condannando
la
Germania
al
crollo
finale.
Il
“dialogo”
di
Hitler
con
la
storia
napoleonica
venne
anche
ampiamente
sfruttato
dalla
macchina
propagandistica
tedesca
per
un
accostamento
tra
i
due
statisti
in
funzione
anti-inglese.
Pure
da
parte
sovietica,
del
resto,
il
ricordo
napoleonico
fu
ampiamente
utilizzato
in
chiave
patriottica.
Nel
suo
famoso
discorso
del
3
luglio
1941,
Stalin
chiamò
non
solo
l’esercito,
ma
tutto
il
popolo
ad
una
«guerra
patriottica
e
liberatrice».
Si
rivolse
non
solo
ai
compagni,
ma
ai
fratelli
e
alle
sorelle
russi,
ricordando
loro
che
un’altra
volta
un
esercito
invasore
aveva
tentato
di
occupare
la
madrepatria
ed
era
stato
respinto:
era
l’esercito
del
grande
Bonaparte.
Come
allora,
il
popolo
russo
doveva
fare
terra
bruciata,
incalzare
il
nemico
con
la
lotta
partigiana
e,
infine,
volgerlo
in
rotta.
E il
“fantasma”
di
Bonaparte
tornò
nuovamente
quando,
nell’ambito
di
una
ri-gerarchizzazione
dell’esercito
sovietico,
furono
riproposti
gli
ordini
militari
e il
più
prestigioso
fu
l’ordine
di
Kutuzov,
così
chiamato
in
omaggio
al
trionfatore
di
Napoleone.
Ad
un
altro
avversario
di
Bonaparte,
il
generale
Bagration,
ferito
mortalmente
a
Borodino,
fu
invece
dedicata
la
più
grande
e
decisiva
controffensiva
russa
del
1944,
appunto
l’operazione
Bagration.
Passiamo
ora
ad
analizzare
le
differenze
e le
analogie
tra
le
due
campagne
nel
giudizio
dei
più
eminenti
storici
dell’argomento.
Due
eserciti
immensi
In
entrambi
i
casi
si
trattò
di
due
armate
(anzi,
gruppi
di
armate)
immense,
definite,
non
a
caso,
dai
loro
comandanti
supremi
(Napoleone
e
Hitler)
come
il
più
grande
esercito
d’invasione
della
storia.
Per
Napoleone
670
mila
uomini
(ma
“solo”
449
mila
invaderanno
i
confini
russi),
per
Hitler
3.100.000,
cui
negli
anni
seguiranno
rimpiazzi
nella
misura
di
un
milione
di
uomini
(anche
se
le
stime,
in
questo
caso,
sono
profondamente
dissimili).
Anche
i
mezzi
presentano
cifre
colossali:
per
l’esercito
francese
200
mila
cavalli,
1.500
cannoni,
25
mila
veicoli;
per
quello
tedesco
3.350
carri
armati,
2
mila
aerei,
7.500
cannoni,
600
mila
cavalli
e
600
mila
mezzi
motorizzati.
Entrambi
gli
eserciti,
però,
presentano,
ad
un’analisi
più
approfondita,
marcate
debolezze.
David
G.
Chandler
e
Georges
Blond
sottolineano
entrambi
come
la
Grande
Armée
non
contasse
più
di
270
mila
francesi,
perché
la
maggioranza
dei
soldati
proveniva
dal
reclutamento
degli
alleati
(erano
perlopiù
polacchi,
lituani,
tedeschi,
italiani
e
portoghesi):
presentava,
cioè,
un
organico
eterogeneo,
che
non
aveva
la
solidità
patriottica
delle
precedenti
guerre.
Chandler,
inoltre,
sottolinea
come
«fino
ad
allora
le
forze
da
Napoleone
comandate
in
campo
avevano
raramente
passato
le
200.000
unità».
In
altre
parole,
Napoleone
non
aveva
mai
guidato
un
tale
numero
di
soldati,
al
punto
che
si
rese
necessario
inventare
una
nuova
forma
organizzativa:
il
gruppo
di
armate.
Napoleone
non
comprese
a
fondo
quella
novità
pur
da
lui
stesso
introdotta:
infatti,
egli
«insisteva
nella
centralizzazione
di
tutta
l’autorità
sotto
il
suo
diretto
controllo,
nonostante
il
carico
di
lavoro
fosse
divenuto
insostenibile
per
un
solo
uomo».
In
sintesi,
per
Chandler
l’irrisolto
problema
del
decentramento
e
dell’autonomia
decisionale,
che
il
numero
di
armati
e la
nuova
forma
organizzativa
comportavano
quali
elementi
necessari,
fu
una
delle
principali
cause
del
disastro.
La
Wehrmacht
tedesca
presentava,
invece,
grandi
lacune
nei
mezzi.
Innanzitutto
i
carri
armati,
fondamentali
per
la
sua
strategia
bellica,
erano
3.350:
appena
cento
in
più
di
quanti
fossero
stati
impegnati
nella
campagna
di
Francia,
cioè
su
un
fronte
da 5
a 10
volte
più
ridotto.
Inoltre
i
mezzi
motorizzati
erano
600
mila,
cifra
ampiamente
sufficiente,
ma
erano
solo
in
minima
parte
cingolati
(secondo
Liddell
Hart
solo
il
10%)
e
tale
limite
si
rivelò
poi
fatale
per
affrontare,
con
i
ritmi
della
blitzkrieg,
le
strade
fangose
e
disastrate
della
Russia
sovietica.
Ancora:
erano,
in
entrambi
i
casi,
cifre
colossali
tali
da
garantire
la
superiorità
numerica
dell’attaccante,
ma
tale
vantaggio
avrebbe
potuto
pesare
sulla
bilancia
solo
se
la
campagna
fosse
stata
di
breve
durata.
Con
il
prolungarsi
della
resistenza
russa,
entrambi
gli
eserciti
finirono
in
inferiorità
numerica,
e
quello
tedesco
arrivò
addirittura
a un
rapporto
di
1:6.
Grandi
illusioni
e
piani
strategici
Sia
Napoleone
che
Hitler
prefiguravano
delle
campagne
fulminee.
Molte
sono,
al
riguardo,
le
loro
previsioni
ottimistiche
sulla
durata
della
guerra;
esse
forniscono
tempi
diversi,
ma
comunque
brevi:
2
mesi,
10
settimane,
6
settimane,
20
giorni.
La
frase
più
famosa
e
citata
è
quella
di
Hitler:
«Basterà
dare
un
calcio
alla
porta
e
tutto
il
marcio
edificio
crollerà»;
e
Napoleone
non
fu
da
meno:
«Una
battaglia
basterà…».
La
grande
illusione
alla
base
di
tali
dichiarazioni
aveva
fondamenta
apparentemente
solide:
due
eserciti
invitti,
reduci
da
vittorie
clamorose,
ottenute
con
una
strategia
bellica
innovativa,
tale
da
schiantare
l’avversario.
I
due
comandanti
supremi,
«professionista
l’uno,
dilettante
l’altro»
per
citare
Correlli
Barnett,
puntavano
entrambi
sulla
cosiddetta
guerra
d’annientamento,
cioè
quella
guerra
che
cerca
la
battaglia
decisiva,
tale
da
schiantare
la
forza
dell’esercito
nemico.
Le
marce
forzate,
le
formazioni
d’armata
in
parallelo,
lo
studio
del
terreno,
la
rapida
concentrazione
della
forza,
l’utilizzo
del
combinato
d’artiglieria,
cavalleria
e
fanteria,
erano
i
momenti
della
strategia
d’annientamento
napoleonica,
che
in
un
quindicennio
avevano
sconvolto
l’Europa
sbaragliandone
gli
eserciti.
Come
ampiamente
illustrato
da
John
Keegan,
per
Hitler
le «flotte
corazzate»
(cioè
carri
armati
e
mezzi
motorizzati)
combinate
con
l’artiglieria
e il
bombardamento
aereo
tattico,
la
sorpresa,
lo
studio
delle
debolezze
materiali
e
morali
dell’avversario
erano
gli
strumenti
di
una
strategia,
la
cosiddetta
blitzkrieg,
che
puntava
a
chiudere
in
trappole
fatali
l’esercito
nemico,
attraverso
manovre
rapide
e
aggiranti.
Aveva
stravinto
in
Polonia,
aveva
addirittura
sconvolto
il
mondo
in
Francia.
Su
queste
basi
“certe”
(e
su
valutazioni
assai
più
approssimative)
si
fondavano
le
illusioni
napoleoniche
e
hitleriane
di
una
rapida
e
risolutiva
vittoria.
Le
due
campagne
ebbero
inizio
quasi
nello
stesso
giorno:
il
23
giugno
quella
francese,
il
22,
alle
primissime
luci
dell’alba,
quella
tedesca,
a
centoventinove
anni
di
distanza.
Erano
state
preparate
da
approfonditissimi
studi,
durati
più
di
un
anno.
Il
piano
napoleonico
fu
preparato
assai
scrupolosamente;
al
riguardo,
vennero
addirittura
studiati,
nel
dettaglio,
i
resoconti
della
disfatta
di
Carlo
XII
di
Svezia
nel
1709.
Napoleone
era
consapevole
che
tutta
una
serie
di
fattori
(l’estensione
del
territorio
russo,
l’arretratezza
del
suo
sistema
stradale,
il
clima
tendente
a
grandi
oscillazioni,
dal
freddo
al
caldo,
e
infine
la
vastità
delle
armate
avversarie)
concorrevano
a
rendere
particolarmente
rischiosa
la
futura
campagna.
Ciononostante,
egli
forse
non
si
rese
pienamente
conto
dell’effettiva
entità
delle
difficoltà
cui
sarebbe
incorso.
Il
piano
era
conseguente
alla
strategia
bellica
di
annientamento:
l’enorme
massa
di
uomini
procedeva
per
percorsi
paralleli
verso
Mosca
attraverso
le
direttive
Kovno
-
Vitebsk
-
Vilna
-
Smolensk
nella
convinzione
(o,
meglio,
nella
speranza)
che
l’esercito
russo,
nella
necessità
di
difendere
la
capitale,
accettasse
ben
prima
di
Mosca
una
battaglia
che
ne
avrebbe
determinato
l’annientamento.
Era
un
fronte
di
400
chilometri,
che
sarebbe
diventato
di
800
chilometri
nel
tentativo
di
intercettare
il
nemico
e
costringerlo
ad
ingaggiare
lo
scontro.
Il
piano
operativo
dell’operazione
Barbarossa
era
conseguenza
dei
molteplici
obiettivi
“politici”
di
Hitler:
l’annientamento
dell’esercito
sovietico,
l’occupazione
dello
spazio
vitale,
il
dominio
sul
Baltico,
il
controllo
delle
fonti
energetiche.
L’esercito
fu
così
suddiviso
in
tre
gruppi
d’armate:
quello
a
nord
con
obiettivo
Leningrado,
quello
di
centro
con
obiettivo
Mosca,
quello
meridionale
con
obiettivo
Kiev.
Accompagnavano
i
gruppi
d’armate
quattro
gruppi
corazzati,
uno
a
nord,
uno
a
sud
e
due
al
centro,
questi
ultimi
pronti
a
rafforzare
eventualmente
il
nord
o il
sud.
Era
un
fronte
di 2
mila
chilometri,
interrotto
solo
dalle
paludi
di
Pripet,
che
sarebbe
diventato
nel
1942
anche
di 4
mila
chilometri
a
conseguenza
delle
variazioni
di
obiettivi
voluti
da
Hitler.
Era
un
eccesso
di
estensione
prodotto
dall’assenza
di
priorità
strategiche,
e
chiaramente
in
contraddizione
con
i
principi
della
guerra
d’annientamento.
Correlli
Barnett
sottolinea
come
l’indecisione
strategica
hitleriana
produsse
ritardi
e
persino
scontri
con
i
gradi
più
alti
dell’esercito,
cause
non
ultime
–
gli
uni
e
gli
altri
–
del
disastro
tedesco.
Due
diverse
ragioni
(la
strategia
elusiva
russa
per
Napoleone
e
l’assenza
di
priorità
strategiche
per
Hitler)
condussero
allo
stesso
fatale
esito:
un’estensione
eccessiva
del
fronte.
In
entrambi
i
casi
i
piani
non
contemplavano
la
possibilità
di
una
guerra
che
andasse
al
di
là
dell’autunno.
Napoleone
non
volle
neppure
parlarne,
Hitler
ordinò
che
quell’eventualità
non
fosse
presa
in
considerazione.
Quando
la
guerra
si
prolungò,
l’accurata
preparazione
di
una
guerra
di
annientamento
si
trasformò
nella
totale
impreparazione
di
fronte
ad
una
guerra
di
logoramento,
nel
terribile
inverno
russo.
Il
“ritardo
fatale”
Per
entrambe
le
campagne
si è
parlato
di
un
ritardo
iniziale
quale
errore
fatale
e
causa
principale
delle
disfatte
finali,
perché
responsabile
dell’impossibilità
di
concludere
le
operazioni
prima
dell’inverno.
Karl
Marx,
ne
La
sacra
famiglia,
sosteneva
che
gli
speculatori
parigini
avessero
costretto
Napoleone,
mediante
una
carestia
creata
artificialmente,
a
differire
di
circa
due
mesi
l’apertura
della
campagna
di
Russia
e,
quindi,
a
rimandarla
ad
una
stagione
troppo
avanzata.
La
tesi
di
un
Bonaparte
erede
del
Terrore
rivoluzionario,
e
boicottato
dalla
borghesia
liberale,
stanca
delle
sue
guerre,
viene
ripresa
da
Evgenij
Tarle
e da
altri
storici
marxisti.
E
Hitler,
nel
suo
memoriale,
accusa
esplicitamente
l’impegno
italiano
in
Grecia
quale
causa
di
un
tragico
ritardo
per
l’inizio
dell’operazione
Barbarossa.
Eppure
gli
studi
militari
più
recenti
respingono,
per
entrambe
le
campagne,
l’ipotesi
di
qualsiasi
ritardo
non
dovuto
a
motivi
intrinseci
alle
operazioni
militari
stesse
e
alla
loro
preparazione.
Chandler
ricorda,
ad
esempio,
che
«il
problema
dell’alimentazione
di
un
così
grande
numero
di
cavalli
sarebbe
risultato
enorme
e
non
deve
quindi
far
meraviglia
il
fatto
che
l’imperatore
abbia
rimandato
la
data
dell’invasione
fino
all’epoca
dell’anno
nella
quale
le
pianure
russe
avrebbero
offerto
il
loro
lussureggiante
raccolto
di
foraggio».
Così
per
l’operazione
Barbarossa,
dove
Keegan
nega
qualsiasi
ritardo,
in
quanto
la
strada
e i
fiumi
della
Russia
non
avrebbero
consentito
altra
data
di
inizio
di
quella
che
infine
fu
stabilita.
Piani
di
annientamento,
guerre
di
logoramento?
Preparate
come
campagne
di
annientamento,
le
invasioni
del
1812
e
del
1941
non
seppero
dunque
trovare
lo
scontro
risolutivo
e si
trasformarono
in
qualcosa
di
assolutamente
imprevisto
dagli
strateghi
che
le
avevano
ideate.
Napoleone
raggiunse
Mosca
il
14
settembre.
Se
ne
allontanò
trentacinque
giorni
dopo,
il
19
ottobre:
abbandonò
il
suo
esercito
in
disastrosa
ritirata
il 5
dicembre
e la
campagna
poté
dirsi
conclusa
il 6
marzo
1813
con
la
disfatta
totale
dell’esercito
francese,
e i
limiti
dell’egemonia
francese
ritornati
pressappoco
alle
frontiere
del
1806.
In
sostanza,
mezzo
milione
di
uomini
e
sei
anni
di
conquiste
erano
stati
cancellati
dalla
catastrofe
di
una
sola
disastrosa
campagna.
Hitler
non
raggiunse
mai
Mosca
(solo
i
suoi
sobborghi),
ma
penetrò
nel
territorio
russo
per
700
chilometri
di
profondità
in
più
e
tre
anni
dopo,
nel
1944,
manteneva
ancora
buona
parte
delle
conquiste
operate
nel
primo
anno.
Lo
sforzo,
però,
fu
tale
da
risultare
letale
per
la
Germania
e
dal
1945
le
forze
sovietiche
divennero
incontenibili,
al
punto
che
furono
esse
a
entrarono
a
Berlino.
Due
guerre
d’annientamento
si
trasformarono
in
un
logoramento
decisivo
non
solo
degli
eserciti
d’invasione,
ma
delle
stesse
nazioni
che
li
avevano
espressi.
L’inverno,
il
gelo,
la
ritirata,
l’insufficienza
logistica,
la
distruzione
totale
degli
eserciti
hanno
avvalorato
l’intrigante
tesi
della
guerra
d’annientamento
che
si
trasforma
in
guerra
di
logoramento.
Ma
la
tesi
non
è –
a
parer
di
quasi
tutti
i
commentatori
–
valida
per
Napoleone.
Infatti,
la
sconfitta
di
Napoleone
rappresentò
il
fallimento
di
una
manovra
annientatrice
in
grande
stile:
era,
in
fondo,
l’inevitabile
prezzo
di
una
strategia
che
puntava
sul
massimo
successo
e
accettava,
di
conseguenza,
il
massimo
dei
rischi.
Totalmente
diverso
è il
discorso
per
l’operazione
Barbarossa.
Come
ampiamente
illustrato
da
Paul
Kennedy,
la
decisione
di
Hitler
di
prolungare
la
campagna
con
nuovi
obiettivi
nel
1942
e,
poi,
di
resistere
ad
oltranza
nel
1943-1945
trasformò
Barbarossa
in
una
vera
e
propria
guerra
di
logoramento,
con
un’identica
strategia
di
logoramento
sia
per
i
tedeschi
sia
per
i
russi.
Stalin
e il
generale
Zukov
accettavano
costi
umani
e
materiali
enormi
nella
certezza
di
una
forza
preponderante,
Hitler
nella
convinzione
che
l’alleanza
anglo-russa-americana
non
avrebbe
tenuto.
Il
fatto
incontestabile
che
molte
azioni,
anche
difensive,
si
svilupparono
come
veloci
galoppate
di
carri,
tese
ad
accerchiare
il
nemico,
non
modifica
il
quadro
generale
di
azioni
tattiche
d’annientamento
nell’ambito
di
una
strategia
di
logoramento.
La
sottovalutazione
dello
spazio
Napoleone
sottovalutò
l’immensità
degli
spazi
russi.
La
sottovalutò
come
stratega
nella
inevitabile
possibilità
che
quello
sconfinato
spazio
concedeva
al
nemico
di
eludere
lo
scontro
frontale.
Si è
discusso
molto
se i
russi
volessero
o
meno
quella
strategia
elusiva.
Vale
ancora,
secondo
Chandler
e
Blond,
il
giudizio
espresso
da
von
Clausewitz:
«La
ritirata
dei
russi
non
fu
la
conseguenza
di
un
piano
premeditato:
se
essi
indietreggiarono
in
modo
così
profondo
fu
perché,
ogni
qual
volta
avrebbero
voluto
accettare
battaglia,
s’accorsero
di
non
essere
ancora
abbastanza
forti
per
una
battaglia
decisiva».
Comunque,
voluta
o
obbligata,
realizzarono
nei
fatti
quella
«ritirata
nell’interno
del
paese»
cui
Clausewitz
dedicò
l’intero
cap.
XXV
del
libro
sesto
del
Della
guerra,
ritirata
«per
effetto
della
quale
il
nemico
deve
andare
in
rovina
non
tanto
per
mezzo
della
spada
del
difensore
quanto
a
causa
dei
suoi
propri
sforzi».
Inoltre
Napoleone
sottovalutò
gli
spazi
anche
come
principale
responsabile
della
logistica.
Aveva
valutato
che
truppe
e
bestiame
non
avrebbero
potuto
far
affidamento
sulle
risorse
offerte
dalle
zone
occupate
(temeva
la
“terra
bruciata”,
perché
sapeva
che
le
pianure
deserte
non
avrebbero
potuto
mantenere
che
un
quinto
delle
sue
forze:
il
suo
esercito
doveva
essere
autosufficiente.
«Bisognava
provvedere
al
trasporto
di
enormi
quantità
di
foraggio
(per
i
cavalli
e
per
le
mandrie
al
seguito),
di
gallette
di
riso,
di
vegetali,
di
alcool»,
dice
Chandler.
Vennero
creati
ventisei
battaglioni
da
trasporto,
ciascuno
con
252
carri
trainati
da
quattro
cavalli
e
della
portata
di
una
tonnellata
e
mezzo.
Grandi
mandrie
seguivano
l’esercito
per
essere
macellate;
si
pensò
persino
a
sostituire
ai
cavalli
da
tiro
i
buoi,
così
che,
esaurito
il
contenuto
dei
carri,
i
buoi
si
trasformassero
da
animali
da
tiro
in
animali
da
macello.
Tutto
fu
apparentemente
pensato,
ma
di
fatto
tutto
fu
pensato
in
chiave
ottimistica:
gli
immensi
spazi
russi,
dilatati
dalle
strade
fangose
e
dal
peso
dei
carri,
resero
tutto
vano.
La
lentezza
dei
convogli
e
dei
rifornimenti
ridusse
la
velocità
dell’intero
esercito,
il
loro
ritardo
provocò
enormi
perdite
di
uomini
e di
cavalli,
appiedò
letteralmente
la
cavalleria,
impedì
di
manovrare,
spinse
al
saccheggio,
infine
dissolse
la
disciplina.
Hitler
valutò
lo
spazio
russo
come
fattore
favorevole
alle
manovre
aggiranti
delle
masse
corazzate,
ma
ciò
era
vero
per
la
dimensione
larghezza
e
non
per
la
profondità
che
favoriva,
invece,
la
ritirata
e la
controffensiva
sui
fianchi
allungati
dalle
tenaglie
corazzate.
Possiamo
dire
che
il
Führer non
comprese
la
duplicità
dell’immenso
spazio
russo
neppure
da
difensore,
ordinando
la
resistenza
“rigida”,
quando
proprio
quello
spazio
offriva
la
possibilità
di
una
resistenza
“elastica”
(ritirata
più
controffensiva).
Su
questo
punto,
la
critica
di
Liddell
Hart
a
Hitler
stratega
è
feroce,
e
ritorna
nel
suo
testo
a
più
riprese,
mentre
per
Paul
Kennedy
lo
spazio
russo
era
semplicemente
incompatibile
con
la
blitzkrieg:
«la
mera
estensione
geografica
e le
necessità
logistiche
di
una
campagna
che
copriva
centinaia
di
chilometri
nel
cuore
del
territorio
russo
compromisero
il
maggiore
vantaggio
della
Wehrmacht:
la
sua
abilità
di
lanciare
attacchi
a
sorpresa
in
spazi
territoriali
limitati
così
da
sopraffare
il
nemico
prima
che
la
propria
scorte
si
esaurissero
e la
propria
macchina
bellica
rallentasse».
La
sottovalutazione
dei
fattori
climatici
e
ambientali
I
piani
erano,
come
si è
detto,
improntati
all’idea
di
una
guerra
d’annientamento
e
rifiutavano
anche
la
sola
possibilità
di
un
prolungarsi
della
campagna.
Logica
conseguenza
di
questa
impostazione
fu
la
sottovalutazione
degli
aspetti
ambientali
e
climatici
dello
sterminato
territorio
russo.
Non
solo
del
freddo
invernale,
ma
anche
delle
strade
e
della
rasputitza,
la
terribile
stagione
del
fango
autunnale
e
primaverile.
Secondo
Liddell
Hart,
l’operazione
Barbarossa
ebbe
tra
i
suoi
peggiori
nemici
proprio
le
strade
dell’URSS,
strade
non
asfaltate
che
alle
prime
piogge
si
trasformavano
in
acquitrini
in
cui
tutto
affondava:
«colonne
di
mezzi
corazzati
lunghe
anche
150
chilometri
assolutamente
bloccate
dal
fango
e in
attesa
inerte
di
un
cambiamento
della
situazione».
Chandler
ci
descrive
una
Grande
Armée
sprovvista
di
tutto,
perché
i
convogli
con
le
vettovaglie
e i
rifornimenti
erano
bloccati
dal
fango.
La
guerra
di
movimento
napoleonica
e
hitleriana
trovò,
veramente,
il
primo
insormontabile
ostacolo
nelle
strade
e
nel
fango.
E
maggiore
fu
l’errore
di
Hitler,
che
affrontò
la
Russia
con
molti
mezzi
motorizzati,
ma
pochi
cingolati,
rendendo
così
vana
la
possibilità
dei
carri
armati
di
liberarsi
del
vincolo
stradale,
poiché
a
tale
vincolo
erano
obbligate
le
colonne
motorizzate
da
cui
i
carri
dipendevano.
Al
riguardo
è
interessante
notare
che,
nonostante
le
veloci
“galoppate”
dei
carri
armati,
la
velocità
media
dell’esercito
tedesco
non
superò
di
molto
quella
napoleonica,
poiché
spesso
fu,
come
quello
napoleonico,
un
esercito
ippotrainato.
Barnett
accomuna
nell’ignoranza
della
logistica
(per
Hitler
parla
addirittura
di «disprezzo»)
l’imperatore
francese
e il
Führer
tedesco.
Inoltre,
quando
l’autunno
s’inoltrò,
in
novembre
cominciò
a
nevicare.
A
dicembre
prese
a
gelare:
in
quel
momento
l’esercito
napoleonico
stava
già
affrontando
la
sua
disastrosa
ritirata,
quello
tedesco
invece
stava
stringendo
la
sua
tenaglia
su
Mosca.
In
entrambe
le
situazioni
erano
due
eserciti
impreparati
all’inverno
russo,
materialmente
e
moralmente.
Una
ritirata
di
fantasmi
coperti
di
stracci:
così
ci
appare
l’esercito
napoleonico
nella
descrizione
dei
testimoni
così
come
nei
quadri
dell’epoca.
Per
evitare
quell’esperienza
Hitler,
quando
capì
che
il
suo
esercito
era
allo
stremo
e
Mosca
non
sarebbe
mai
stata
conquistata,
ordinò
la
resistenza
sul
posto
e
destituì
chiunque
osasse
anche
solo
accennare
alla
ritirata.
E
ugualmente
si
comportò
nei
successivi
quattro
anni.
L’esercito
tedesco
non
conobbe
così
il
disastro
della
ritirata
napoleonica,
ma
il
suo
logoramento
fu
tremendo
perché
era
del
tutto
impreparato:
i
soldati
tedeschi
affrontarono
quel
terribile
inverno
del
1941
con
le
uniformi
estive,
proteggendosi
alla
meglio
con
i
fogli
di
giornale
e
affrontarono
i
successivi
inverni
con
gli
stivaletti
rinforzati
nelle
suole
da
lamine
metalliche
che
favorivano
il
congelamento.
Combatterono
truppe
sovietiche
ben
equipaggiate
che
calzavano
stivaletti
di
feltro,
di
cui
gli
americani
fornirono
ai
russi
13.000.000
di
paia.
Hitler
e la
sottovalutazione
dell’esercito
sovietico
Napoleone
valutò
correttamente
le
forze
dell’esercito
avversario,
ritenendolo
inferiore
in
modo
marcato
rispetto
a
quello
francese.
Nel
1812
l’esercito
russo
disponeva,
sui
vari
fronti,
409
mila
soldati
regolari,
211
mila
nelle
armate
di
prima
linea,
45
mila
di
seconda
linea
e
153
mila
distribuiti
nelle
lontane
guarnigioni
e
nelle
riserve.
In
campo,
in
giugno,
vi
erano
tre
armate
pronte
per
un
immediato
impegno:
la
prima
armata
occidentale
di
Barclay
de
Tolly
(127
mila
soldati);
la
seconda
armata
occidentale
del
generale
Bagration
(48
mila
soldati);
la
terza
armata
del
generale
Tomassov
era
in
formazione
e
arrivò
solo
in
autunno
ad
avere
43
mila
effettivi.
Nemici
di
Napoleone
furono
il
caldo,
il
freddo,
lo
spazio,
le
strade,
il
fango,
le
insufficienze
logistiche,
le
comunicazioni,
la
capacità
elusiva
dei
russi.
Possiamo
pertanto
dire
che
la
Grande
Armée
si
consumò
da
sola:
dopo
solo
48
ore
di
marcia
i
ritardatari
dell’armata
napoleonica
erano
già
50
mila;
fra
il
Niemen
e
Smolensk,
senza
aver
combattuto
una
sola
battaglia,
si
era
già
perso
il
terzo
degli
effettivi;
a
Mosca
arrivarono
in
100
mila;
nella
ritirata
verso
Smolensk
morirono
circa
mille
uomini
ogni
giorno,
stremati
dal
freddo,
dalla
fame,
dalle
marce
massacranti;
rivarcarono
il
Niemen
25
mila
soldati.
Difficile
dire,
con
precisione,
quanti
morirono
nella
battaglia
di
Borodino
o
della
Beresina,
o
negli
scontri
armati
e
nelle
scaramucce,
ma
di
certo
la
stragrande
maggioranza
non
morì
per
mano
del
nemico.
Fu,
in
sostanza,
un
colossale
disastro
logistico.
Totalmente
diversa
è la
situazione
se
osserviamo
l’operazione
Barbarossa.
Qui
fu
colossale
la
sottovalutazione
del
nemico,
e
molteplici
furono
le
cause:
un
errore
di
intelligence:
«pensavamo
di
trovarci
di
fronte
200
divisioni
–
dice
il
generale
Franz
Halder
nel
suo
diario
–
ne
abbiamo
già
contate
360».
Hitler
scriveva
invece
a
von
Brautschicht:
«Se
avessi
saputo
che
avevano
tutti
questi
carri
ci
avrei
pensato
due
volte»;
un
errore
di
pregiudizio
militare,
dovuto
alla
pessima
prova
data
dall’esercito
sovietico
in
Finlandia;
un
errore
di
pregiudizio
politico-militare,
dovuto
alla
conoscenza
delle
purghe
staliniane
che
nel
1935-1937
avevano
letteralmente
decapitato
l’esercito
sovietico
(colpendo
l’80%
degli
alti
ufficiali,
tra
cui
il
celebre
maresciallo
Tuchacevskij)
e
all’ignoranza
della
successiva
riorganizzazione
degli
anni
1938-1939,
che
avevano
portato
a
importanti
successi
contro
il
Giappone
in
Manciuria;
un
errore
di
sottovalutazione
delle
risorse
industriali
sovietiche,
che
l’incredibile
esportazione
a
Est
salvò
dal
disastro,
consentendo
all’URSS
una
seconda
“rivoluzione
industriale”,
fattore
non
ultimo
del
successo
sovietico
(nel
1944
il
paese
produrrà
29
mila
carri
mentre
la
produzione
tedesca
raggiunse
il
massimo
di
17
mila);
la
sottovalutazione
degli
aiuti
americani
(13.000.000
di
stivali,
600
mila
mezzi
motorizzati,
250
calorie
al
giorno
per
soldato
inscatolate);
la
valutazione
razzista
del
soldato
russo
o
slavo,
giudicato
inferiore,
barbaro,
pronto
a
disertare
e,
invece,
a
parere
di
tutti
gli
osservatori
anche
non
filo-sovietici,
un
soldato
tenace
e
patriottico.
Secondo
Churchill
«nulla
riuscì
ad
avere
ragione
dei
russi
che
si
batterono
con
eroico
spirito
di
sacrificio».
Per
Keegan,
«quando
erano
stati
sconfitti,
era
stata
colpa
non
dei
soldati,
ma
dell’incapacità
dei
generali».
Il
decentramento
decisionale
Chandler
sottolinea
come
Napoleone,
avendo
calcolato
che
gli
sarebbe
stato
necessario
almeno
mezzo
milione
di
uomini
di
prima
linea
e
una
forza
alle
spalle
dello
stesso
livello,
inventò
un
nuovo
modello
di
organizzazione:
il
gruppo
di
armate.
A
questo
nuovo
modello
di
formazione
sarebbe
stata
necessaria
una
catena
di
comando
basata
sulla
flessibilità,
cioè
rigida
nelle
decisioni
strategiche,
ma
duttile
in
quelle
tattiche,
tale
da
consentire
ai
singoli
comandanti
libertà
di
iniziativa
e
autonomia
decisionale.
Per
Napoleone,
però,
«il
concetto
fondamentale
della
condotta
della
guerra
era
basato
sulla
personale
supervisione
di
tutti
gli
elementi
della
sua
armata.
Era
un
compito
già
abbastanza
difficile
con
forze
di
200.000
uomini
che
manovravano
negli
spazi
in
proporzione
assai
ristretti
dell’Italia,
della
Germania…;
adesso
di
fronte
alle
vaste
estensioni
della
Polonia
e
della
Russia,
con
la
necessità
di
manovrare
più
di
mezzo
milione
di
uomini,
l’energia
e la
possibilità
di
comando
di
Napoleone
dovevano
dimostrarsi
del
tutto
inadeguate».
In
sintesi,
una
massa
di
soldati
e un
modello
organizzativo
a
cui
non
era
stata
data
un’adeguata
soluzione
nella
catena
del
comando,
ancora
imperniata
sul
controllo
non
solo
strategico,
ma
anche
tattico,
dell’imperatore
in
persona.
Proprio
nell’iniziativa
offensiva
decentralizzata
consisteva,
invece,
secondo
Kennedy,
una
delle
qualità
che
resero
la
Wehrmacht
apparentemente
imbattibile
nei
primi
anni
di
guerra
(le
altre
qualità
sarebbero
state
il
coordinamento
delle
tre
armi
e
l’uso
tattico
della
forza
aerea).
Ma
nella
campagna
di
Russia
il
decentramento
decisionale
venne
progressivamente
meno.
Dopo
la
disfatta
davanti
a
Mosca
e
l’avvio
della
controffensiva
sovietica
si
arrivò,
per
Barnett,
«al
dissolvimento
finale
della
tradizionale
indipendenza
professionale
dell’esercito
tedesco,
dato
che
il
19
dicembre
1941
Hitler
esonerò
von
Brauchitsch
e
assunse
personalmente
le
funzioni
oltre
che
la
carica
di
comandante
in
capo».
Hitler
decadeva
«dal
ruolo
di
leader
della
nazione
… a
quello
di
semplice
comandante
in
capo,
conducendo
in
modo
dilettantesco
le
operazioni
sul
campo
giorno
per
giorno».
Sempre
secondo
Barnett,
le
questioni
in
discussione
tra
Hitler
e i
suoi
generali
caddero
al
livello
più
basso:
«dai
vitali
argomenti
di
grande
strategia
–
riarmo,
pace,
guerra
e la
scelta
di
obiettivi
da
attaccare
– si
scese
ai
problemi
di
comando
operativo
e,
perfino,
di
semplice
tattica».
L’eccesso
di
tensione
strategica
Secondo
Chandler,
Napoleone
perse
570
mila
uomini
(di
cui
370
mila
morti
per
ferite,
fame,
freddo;
altri
100
morti
morti
per
prigionia).
Perse
anche
200
mila
cavalli
e
questa
perdita
fu
quasi
più
grave
della
prima:
infatti
nel
1813
riuscì
a
riempire
in
parte
i
vuoti
delle
sue
truppe
arruolando
anziani
e
ragazzi,
ma
non
riuscì
a
ricostruire
la
cavalleria.
Dei
1.400–1.500
cannoni
portati
in
Russia
solo
250
rimasero
ai
francesi,
i
restanti
finirono
quasi
completamente
in
mano
russa.
L’Impero
francese
si
trovò
ridotto
ai
confini
del
1806
e da
quella
campagna
iniziò
inarrestabilmente
la
fine.
L’esercito
tedesco
perse,
nei
quattro
anni
dello
scontro
con
la
Russia,
i
due
terzi
della
sua
forza
complessiva:
2 o
3
milioni
di
soldati,
migliaia
e
migliaia
di
carri,
cannoni,
aerei.
I
tedeschi
non
arrivarono
a
Mosca,
furono
invece
i
russi
a
conquistare
Berlino;
Hitler
precedette
la
sua
cattura
dandosi
la
morte.
Il
Terzo
Reich
era
definitivamente
crollato
dopo
dodici
anni
dalla
sua
nascita.
Le
analogie,
come
si è
visto,
possono
essere
numerose,
ma
nessuna
è
stata
più
richiamata
del
disastroso
esito
di
entrambe.
Le
cause
di
quelle
catastrofi
sono
molteplici
e in
buona
parte
le
abbiamo
viste.
L’errore
politico-militare
più
macroscopico,
quello
al
quale
tutti
gli
altri,
pur
diversi,
possono
essere
ricondotti,
è
comune:
l’eccesso
di
sforzo
strategico.
Liddell
Hart,
Keegan,
Kennedy,
i
generali
tedeschi,
tutti
i
commentatori
si
trovano
concordi
in
questo
giudizio
assolutamente
negativo:
furono
due
colossali
errori
strategici,
perché
esposero
la
Francia
e la
Germania
ad
uno
sforzo
insostenibile.
A
conferma
di
ciò,
ricordiamo
che
l’invasione
della
Russia
significò
per
la
Francia
una
guerra
su
due
fronti
(così
impegnativi
che
dalla
Spagna
si
poterono
spostare
solo
27
mila
uomini
dei
335
mila
là
presenti);
per
la
Germania
significò
il
moltiplicarsi
dei
fronti
(guerra
sull’Atlantico,
in
Africa,
sui
cieli
della
Manica)
e la
sostanziale
impossibilità
di
giocare
la
carta
mediterranea,
sostenuta
dalla
Marina
e
dall’ammiraglio
Raeder
e
temutissima
dagli
inglesi.
In
sostanza,
fu
un
azzardo
strategico
per
entrambi,
di
cui
né
Napoleone
né
Hitler
vollero
neppure
ipotizzare
l’insuccesso.
A
ulteriore
dimostrazione:
Napoleone
non
poté
riarmare
un
esercito
sufficientemente
numeroso,
la
sua
cavalleria
non
si
riebbe
più
e i
nemici
si
moltiplicarono,
dato
che
da
quel
momento
le
cancellerie
compresero
che
«la
belva
era
mortalmente
ferita».
Hitler
bruciò
letteralmente
quasi
tutte
le
forze
tedesche
nell’inferno
russo,
e
non
solo
quelle
economiche
(Liddell
Hart
ricorda
che
nel
1943
il
regalo
natalizio
del
Führer
all’asso
dei
carri,
il
generale
Manteuffel,
furono
50
carri,
che
di
più
ormai
non
si
poteva),
ma
anche
quelle
morali
perché
la
guerra
a
Oriente
rappresentò
qualcosa
di
assolutamente
inedito,
una
guerra
barbara
condotta
con
la
tecnologia
distruttiva
più
avanzata.
«La
terza
guerra
mondiale»
la
definisce
Joachim
Fest,
biografo
di
Hitler;
«la
mia
guerra»,
nelle
parole
del
Führer.
Conclusione
I
soldati
di
Napoleone,
non
raggiunti
dai
troppo
lenti
convogli
di
rifornimento,
affamati,
disperati
si
macchiarono
di
saccheggio
e di
ogni
forma
di
violenza,
ma
ciò
non
faceva
parte
di
un
piano
prestabilito,
organizzato,
pianificato.
Era
la
guerra,
e
comportava
inevitabilmente
quelle
barbarie.
In
questo
Hitler
si
differenziò
assolutamente
dall’imperatore
dei
francesi,
che
egli
in
più
occasioni
accusò
di
incertezza,
di
incoerenza
e di
mancanza
di
chiarezza
nell’affrontare
il
problema
russo:
a
suo
avviso
occorreva
una
radicale
politica
di
sterminio
dell’«elemento
giudaico-bolscevico»
e
una
sua
sostituzione
per
via
della
colonizzazione
tedesca.
Lo
ordinò
nelle
sue
direttive:
sarebbe
stata
una
guerra
diversa,
una
guerra
senza
regole.
I
commissari
politici
dell’esercito
sovietico
andavano
giustiziati
sul
luogo
della
cattura,
i
delitti
compiuti
dall’esercito
ai
danni
della
popolazione
civile
non
dovevano
essere
processati,
le
truppe
speciali
SS
Eisantzgruppen
dovevano
“organizzare”
i
territori
conquistati:
in
altre
parole,
dovevano
procedere
all’eliminazione
fisica
di
tutta
la
classe
dirigente,
la
deportazione
coatta
di
lavoratori,
“controllo
e
custodia”
dei
prigionieri
(su
5.500.000
prigionieri
più
di
3.000.000
morirono
di
fame
e di
freddo).
A
questo
proposito
Chandler
–
nell’affrontare
un
parallelo
tra
Napoleone
e
Hitler
–
pur
ricordando
le
somiglianze
delle
due
carriere,
conclude
definendo
il
paragone
odioso,
perché
«nulla
può
essere
più
degradante
per
il
primo
ed
onorevole
per
il
secondo».
Infatti
«la
più
perversa
impresa
di
Hitler,
quella
per
cui
alla
fine
sarà
ricordato
nella
storia,
fu
il
genocidio»,
mentre
Napoleone
sarà
sempre
ricordato
«come
un
soldato
geniale
e il
creatore
dell’Europa
moderna».
Riferimenti
bibliografici
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G.,
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di
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1992.
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