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N. 97 - Gennaio 2016 (CXXVIII)

FELTRINELLI, NAPOLEONE, HITLER E LA RUSSIA
DALLA CAMPAGNA NAPOLEONICA ALL'OPERAZIONE BARBAROSSA

di Luca Sansone

 

Hitler, in tutti i momenti decisivi della sua vita, utilizzò il confronto con Napoleone a conferma e conforto delle proprie scelte politiche.

 

Lo fece nel momento della clamorosa vittoria in Francia. Il 23 giugno 1940, all’alba, il Führer lasciò il suo quartier generale di Brulj-de-pesche per recarsi in volo a Parigi per la sua prima e ultima visita alla capitale francese. Visitò i monumenti principali e si soffermò, in particolare, sulla tomba di Napoleone. «Questo – disse commosso al suo seguito – è il più bel momento della mia vita». Diede quindi ordine che i resti del figlio di Napoleone, il duca di Reichstadt, che riposavano a Vienna, fossero trasferiti a Parigi accanto a quelli del padre.

 

Lo fece, ancora, in uno dei momenti più gravosi del suo governo. In una lunga lettera a Benito Mussolini, in cui comunicava all’ignaro alleato che di lì a poche ore sarebbe stato dato il via all’operazione Barbarossa, il dittatore nazista ammetteva di trovarsi di fronte alla scelta più onerosa della sua vita e che, per prenderla, aveva a lungo meditato «più di chiunque altro sull’esperienza russa di Napoleone».

 

Lo fece, infine, nel momento del dramma finale. Nel cosiddetto “memoriale”, cioè le memorie che dal febbraio 1945 iniziò a dettare al suo segretario Martin Bormann, nel bunker sotto la Cancelleria a Berlino, ritornò ripetute volte al parallelo tra la sua esperienza politica e quella napoleonica: soprattutto per sottolineare enfaticamente il destino comune di uomini, a suo avviso portatori della pace ma costretti alla guerra per colpa dell’Inghilterra.

 

«Io, meglio forse di chiunque altro, posso benissimo immaginare le torture sofferte da Napoleone, desideroso del trionfo della pace e costretto a continuare la guerra, senza mai smettere e senza vedere alcuna prospettiva di smettere, eppure tenace nella sua eterna speranza di conseguire la pace. A partire dall’estate del 1940 ho anche io sofferto gli stessi tormenti. È sempre stata questa Inghilterra a sbarrare la via dell’Europa verso la prosperità».

 

Ciò detto, è fuor di dubbio che a Hitler (e ai suoi generali) fu presente, più di ogni altro istante della vita napoleonica, la spaventosa ritirata di Russia. Dall’inverno del 1941, con la fallita occupazione di Mosca, divenne un vero e proprio incubo, un’ossessione tale che, nel timore di ripeterla, egli negò il permesso a qualsiasi ritirata, anche tattica. Non solo: si rifiutò pure di accettare ogni forma di resistenza elastica, anche quando divenne evidente che essa avrebbe rappresentato non solo la miglior difesa, ma, secondo il giudizio di Basil Liddell Hart, anche l’unica speranza di vittoria.

 

Il suo atteggiamento accelerò certamente, negli anni successivi, il logoramento totale delle forze tedesche, condannando la Germania al crollo finale.

 

Il “dialogo” di Hitler con la storia napoleonica venne anche ampiamente sfruttato dalla macchina propagandistica tedesca per un accostamento tra i due statisti in funzione anti-inglese. Pure da parte sovietica, del resto, il ricordo napoleonico fu ampiamente utilizzato in chiave patriottica. Nel suo famoso discorso del 3 luglio 1941, Stalin chiamò non solo l’esercito, ma tutto il popolo ad una «guerra patriottica e liberatrice».

 

Si rivolse non solo ai compagni, ma ai fratelli e alle sorelle russi, ricordando loro che un’altra volta un esercito invasore aveva tentato di occupare la madrepatria ed era stato respinto: era l’esercito del grande Bonaparte. Come allora, il popolo russo doveva fare terra bruciata, incalzare il nemico con la lotta partigiana e, infine, volgerlo in rotta. E il “fantasma” di Bonaparte tornò nuovamente quando, nell’ambito di una ri-gerarchizzazione dell’esercito sovietico, furono riproposti gli ordini militari e il più prestigioso fu l’ordine di Kutuzov, così chiamato in omaggio al trionfatore di Napoleone.

 

Ad un altro avversario di Bonaparte, il generale Bagration, ferito mortalmente a Borodino, fu invece dedicata la più grande e decisiva controffensiva russa del 1944, appunto l’operazione Bagration.  

 

Passiamo ora ad analizzare le differenze e le analogie tra le due campagne nel giudizio dei più eminenti storici dell’argomento.

 

Due eserciti immensi

 

In entrambi i casi si trattò di due armate (anzi, gruppi di armate) immense, definite, non a caso, dai loro comandanti supremi (Napoleone e Hitler) come il più grande esercito d’invasione della storia.

 

Per Napoleone 670 mila uomini (ma “solo” 449 mila invaderanno i confini russi), per Hitler 3.100.000, cui negli anni seguiranno rimpiazzi nella misura di un milione di uomini (anche se le stime, in questo caso, sono profondamente dissimili).

 

Anche i mezzi presentano cifre colossali: per l’esercito francese 200 mila cavalli, 1.500 cannoni, 25 mila veicoli; per quello tedesco 3.350 carri armati, 2 mila aerei, 7.500 cannoni, 600 mila cavalli e 600 mila mezzi motorizzati.

 

Entrambi gli eserciti, però, presentano, ad un’analisi più approfondita, marcate debolezze. David G. Chandler e Georges Blond sottolineano entrambi come la Grande Armée non contasse più di 270 mila francesi, perché la maggioranza dei soldati proveniva dal reclutamento degli alleati (erano perlopiù polacchi, lituani, tedeschi, italiani e portoghesi): presentava, cioè, un organico eterogeneo, che non aveva la solidità patriottica delle precedenti guerre.

 

Chandler, inoltre, sottolinea come «fino ad allora le forze da Napoleone comandate in campo avevano raramente passato le 200.000 unità». In altre parole, Napoleone non aveva mai guidato un tale numero di soldati, al punto che si rese necessario inventare una nuova forma organizzativa: il gruppo di armate. Napoleone non comprese a fondo quella novità pur da lui stesso introdotta: infatti, egli «insisteva nella centralizzazione di tutta l’autorità sotto il suo diretto controllo, nonostante il carico di lavoro fosse divenuto insostenibile per un solo uomo».

 

In sintesi, per Chandler l’irrisolto problema del decentramento e dell’autonomia decisionale, che il numero di armati e la nuova forma organizzativa comportavano quali elementi necessari, fu una delle principali cause del disastro.

 

La Wehrmacht tedesca presentava, invece, grandi lacune nei mezzi. Innanzitutto i carri armati, fondamentali per la sua strategia bellica, erano 3.350: appena cento in più di quanti fossero stati impegnati nella campagna di Francia, cioè su un fronte da 5 a 10 volte più ridotto. Inoltre i mezzi motorizzati erano 600 mila, cifra ampiamente sufficiente, ma erano solo in minima parte cingolati (secondo Liddell Hart solo il 10%) e tale limite si rivelò poi fatale per affrontare, con i ritmi della blitzkrieg, le strade fangose e disastrate della Russia sovietica.

 

Ancora: erano, in entrambi i casi, cifre colossali tali da garantire la superiorità numerica dell’attaccante, ma tale vantaggio avrebbe potuto pesare sulla bilancia solo se la campagna fosse stata di breve durata. Con il prolungarsi della resistenza russa, entrambi gli eserciti finirono in inferiorità numerica, e quello tedesco arrivò addirittura a un rapporto di 1:6.

 

Grandi illusioni e piani strategici

Sia Napoleone che Hitler prefiguravano delle campagne fulminee. Molte sono, al riguardo, le loro previsioni ottimistiche sulla durata della guerra; esse forniscono tempi diversi, ma comunque brevi: 2 mesi, 10 settimane, 6 settimane, 20 giorni. La frase più famosa e citata è quella di Hitler: «Basterà dare un calcio alla porta e tutto il marcio edificio crollerà»; e Napoleone non fu da meno: «Una battaglia basterà…».

 

La grande illusione alla base di tali dichiarazioni aveva fondamenta apparentemente solide: due eserciti invitti, reduci da vittorie clamorose, ottenute con una strategia bellica innovativa, tale da schiantare l’avversario.

 

I due comandanti supremi, «professionista l’uno, dilettante l’altro» per citare Correlli Barnett, puntavano entrambi sulla cosiddetta guerra d’annientamento, cioè quella guerra che cerca la battaglia decisiva, tale da schiantare la forza dell’esercito nemico. Le marce forzate, le formazioni d’armata in parallelo, lo studio del terreno, la rapida concentrazione della forza, l’utilizzo del combinato d’artiglieria, cavalleria e fanteria, erano i momenti della strategia d’annientamento napoleonica, che in un quindicennio avevano sconvolto l’Europa sbaragliandone gli eserciti.

 

Come ampiamente illustrato da John Keegan, per Hitler le «flotte corazzate» (cioè carri armati e mezzi motorizzati) combinate con l’artiglieria e il bombardamento aereo tattico, la sorpresa, lo studio delle debolezze materiali e morali dell’avversario erano gli strumenti di una strategia, la cosiddetta blitzkrieg, che puntava a chiudere in trappole fatali l’esercito nemico, attraverso manovre rapide e aggiranti. Aveva stravinto in Polonia, aveva addirittura sconvolto il mondo in Francia. Su queste basi “certe” (e su valutazioni assai più approssimative) si fondavano le illusioni napoleoniche e hitleriane di una rapida e risolutiva vittoria.

 

Le due campagne ebbero inizio quasi nello stesso giorno: il 23 giugno quella francese, il 22, alle primissime luci dell’alba, quella tedesca, a centoventinove anni di distanza. Erano state preparate da approfonditissimi studi, durati più di un anno.

 

Il piano napoleonico fu preparato assai scrupolosamente; al riguardo, vennero addirittura studiati, nel dettaglio, i resoconti della disfatta di Carlo XII di Svezia nel 1709. Napoleone era consapevole che tutta una serie di fattori (l’estensione del territorio russo, l’arretratezza del suo sistema stradale, il clima tendente a grandi oscillazioni, dal freddo al caldo, e infine la vastità delle armate avversarie) concorrevano a rendere particolarmente rischiosa la futura campagna.

 

Ciononostante, egli forse non si rese pienamente conto dell’effettiva entità delle difficoltà cui sarebbe incorso. Il piano era conseguente alla strategia bellica di annientamento: l’enorme massa di uomini procedeva per percorsi paralleli verso Mosca attraverso le direttive Kovno - Vitebsk - Vilna - Smolensk nella convinzione (o, meglio, nella speranza) che l’esercito russo, nella necessità di difendere la capitale, accettasse ben prima di Mosca una battaglia che ne avrebbe determinato l’annientamento. Era un fronte di 400 chilometri, che sarebbe diventato di 800 chilometri nel tentativo di intercettare il nemico e costringerlo ad ingaggiare lo scontro.

 

Il piano operativo dell’operazione Barbarossa era conseguenza dei molteplici obiettivi “politici” di Hitler: l’annientamento dell’esercito sovietico, l’occupazione dello spazio vitale, il dominio sul Baltico, il controllo delle fonti energetiche.

 

L’esercito fu così suddiviso in tre gruppi d’armate: quello a nord con obiettivo Leningrado, quello di centro con obiettivo Mosca, quello meridionale con obiettivo Kiev. Accompagnavano i gruppi d’armate quattro gruppi corazzati, uno a nord, uno a sud e due al centro, questi ultimi pronti a rafforzare eventualmente il nord o il sud. Era un fronte di 2 mila chilometri, interrotto solo dalle paludi di Pripet, che sarebbe diventato nel 1942 anche di 4 mila chilometri a conseguenza delle variazioni di obiettivi voluti da Hitler.

 

Era un eccesso di estensione prodotto dall’assenza di priorità strategiche, e chiaramente in contraddizione con i principi della guerra d’annientamento. Correlli Barnett sottolinea come l’indecisione strategica hitleriana produsse ritardi e persino scontri con i gradi più alti dell’esercito, cause non ultime – gli uni e gli altri – del disastro tedesco.

 

Due diverse ragioni (la strategia elusiva russa per Napoleone e l’assenza di priorità strategiche per Hitler) condussero allo stesso fatale esito: un’estensione eccessiva del fronte. In entrambi i casi i piani non contemplavano la possibilità di una guerra che andasse al di là dell’autunno. Napoleone non volle neppure parlarne, Hitler ordinò che quell’eventualità non fosse presa in considerazione.

 

Quando la guerra si prolungò, l’accurata preparazione di una guerra di annientamento si trasformò nella totale impreparazione di fronte ad una guerra di logoramento, nel terribile inverno russo.

 

Il “ritardo fatale”

 

Per entrambe le campagne si è parlato di un ritardo iniziale quale errore fatale e causa principale delle disfatte finali, perché responsabile dell’impossibilità di concludere le operazioni prima dell’inverno. Karl Marx, ne La sacra famiglia, sosteneva che gli speculatori parigini avessero costretto Napoleone, mediante una carestia creata artificialmente, a differire di circa due mesi l’apertura della campagna di Russia e, quindi, a rimandarla ad una stagione troppo avanzata.

 

La tesi di un Bonaparte erede del Terrore rivoluzionario, e boicottato dalla borghesia liberale, stanca delle sue guerre, viene ripresa da Evgenij Tarle e da altri storici marxisti.

 

E Hitler, nel suo memoriale, accusa esplicitamente l’impegno italiano in Grecia quale causa di un tragico ritardo per l’inizio dell’operazione Barbarossa.

 

Eppure gli studi militari più recenti respingono, per entrambe le campagne, l’ipotesi di qualsiasi ritardo non dovuto a motivi intrinseci alle operazioni militari stesse e alla loro preparazione. Chandler ricorda, ad esempio, che «il problema dell’alimentazione di un così grande numero di cavalli sarebbe risultato enorme e non deve quindi far meraviglia il fatto che l’imperatore abbia rimandato la data dell’invasione fino all’epoca dell’anno nella quale le pianure russe avrebbero offerto il loro lussureggiante raccolto di foraggio».

 

Così per l’operazione Barbarossa, dove Keegan nega qualsiasi ritardo, in quanto la strada e i fiumi della Russia non avrebbero consentito altra data di inizio di quella che infine fu stabilita.

 

Piani di annientamento, guerre di logoramento?

 

Preparate come campagne di annientamento, le invasioni del 1812 e del 1941 non seppero dunque trovare lo scontro risolutivo e si trasformarono in qualcosa di assolutamente imprevisto dagli strateghi che le avevano ideate.

 

Napoleone raggiunse Mosca il 14 settembre. Se ne allontanò trentacinque giorni dopo, il 19 ottobre: abbandonò il suo esercito in disastrosa ritirata il 5 dicembre e la campagna poté dirsi conclusa il 6 marzo 1813 con la disfatta totale dell’esercito francese, e i limiti dell’egemonia francese ritornati pressappoco alle frontiere del 1806. In sostanza, mezzo milione di uomini e sei anni di conquiste erano stati cancellati dalla catastrofe di una sola disastrosa campagna.

 

Hitler non raggiunse mai Mosca (solo i suoi sobborghi), ma penetrò nel territorio russo per 700 chilometri di profondità in più e tre anni dopo, nel 1944, manteneva ancora buona parte delle conquiste operate nel primo anno. Lo sforzo, però, fu tale da risultare letale per la Germania e dal 1945 le forze sovietiche divennero incontenibili, al punto che furono esse a entrarono a Berlino.

 

Due guerre d’annientamento si trasformarono in un logoramento decisivo non solo degli eserciti d’invasione, ma delle stesse nazioni che li avevano espressi. L’inverno, il gelo, la ritirata, l’insufficienza logistica, la distruzione totale degli eserciti hanno avvalorato l’intrigante tesi della guerra d’annientamento che si trasforma in guerra di logoramento. Ma la tesi non è – a parer di quasi tutti i commentatori – valida per Napoleone. Infatti, la sconfitta di Napoleone rappresentò il fallimento di una manovra annientatrice in grande stile: era, in fondo, l’inevitabile prezzo di una strategia che puntava sul massimo successo e accettava, di conseguenza, il massimo dei rischi.

 

Totalmente diverso è il discorso per l’operazione Barbarossa. Come ampiamente illustrato da Paul Kennedy, la decisione di Hitler di prolungare la campagna con nuovi obiettivi nel 1942 e, poi, di resistere ad oltranza nel 1943-1945 trasformò Barbarossa in una vera e propria guerra di logoramento, con un’identica strategia di logoramento sia per i tedeschi sia per i russi. Stalin e il generale Zukov accettavano costi umani e materiali enormi nella certezza di una forza preponderante, Hitler nella convinzione che l’alleanza anglo-russa-americana non avrebbe tenuto.

 

Il fatto incontestabile che molte azioni, anche difensive, si svilupparono come veloci galoppate di carri, tese ad accerchiare il nemico, non modifica il quadro generale di azioni tattiche d’annientamento nell’ambito di una strategia di logoramento.

 

La sottovalutazione dello spazio

 

Napoleone sottovalutò l’immensità degli spazi russi. La sottovalutò come stratega nella inevitabile possibilità che quello sconfinato spazio concedeva al nemico di eludere lo scontro frontale.

 

Si è discusso molto se i russi volessero o meno quella strategia elusiva. Vale ancora, secondo Chandler e Blond, il giudizio espresso da von Clausewitz: «La ritirata dei russi non fu la conseguenza di un piano premeditato: se essi indietreggiarono in modo così profondo fu perché, ogni qual volta avrebbero voluto accettare battaglia, s’accorsero di non essere ancora abbastanza forti per una battaglia decisiva».

 

Comunque, voluta o obbligata, realizzarono nei fatti quella «ritirata nell’interno del paese» cui Clausewitz dedicò l’intero cap. XXV del libro sesto del Della guerra, ritirata «per effetto della quale il nemico deve andare in rovina non tanto per mezzo della spada del difensore quanto a causa dei suoi propri sforzi».

 

Inoltre Napoleone sottovalutò gli spazi anche come principale responsabile della logistica. Aveva valutato che truppe e bestiame non avrebbero potuto far affidamento sulle risorse offerte dalle zone occupate (temeva la “terra bruciata”, perché sapeva che le pianure deserte non avrebbero potuto mantenere che un quinto delle sue forze: il suo esercito doveva essere autosufficiente. «Bisognava provvedere al trasporto di enormi quantità di foraggio (per i cavalli e per le mandrie al seguito), di gallette di riso, di vegetali, di alcool», dice Chandler.

 

Vennero creati ventisei battaglioni da trasporto, ciascuno con 252 carri trainati da quattro cavalli e della portata di una tonnellata e mezzo. Grandi mandrie seguivano l’esercito per essere macellate; si pensò persino a sostituire ai cavalli da tiro i buoi, così che, esaurito il contenuto dei carri, i buoi si trasformassero da animali da tiro in animali da macello.

 

Tutto fu apparentemente pensato, ma di fatto tutto fu pensato in chiave ottimistica: gli immensi spazi russi, dilatati dalle strade fangose e dal peso dei carri, resero tutto vano. La lentezza dei convogli e dei rifornimenti ridusse la velocità dell’intero esercito, il loro ritardo provocò enormi perdite di uomini e di cavalli, appiedò letteralmente la cavalleria, impedì di manovrare, spinse al saccheggio, infine dissolse la disciplina.

 

Hitler valutò lo spazio russo come fattore favorevole alle manovre aggiranti delle masse corazzate, ma ciò era vero per la dimensione larghezza e non per la profondità che favoriva, invece, la ritirata e la controffensiva sui fianchi allungati dalle tenaglie corazzate. Possiamo dire che il Führer non comprese la duplicità dell’immenso spazio russo neppure da difensore, ordinando la resistenza “rigida”, quando proprio quello spazio offriva la possibilità di una resistenza “elastica” (ritirata più controffensiva).

 

Su questo punto, la critica di Liddell Hart a Hitler stratega è feroce, e ritorna nel suo testo a più riprese, mentre per Paul Kennedy lo spazio russo era semplicemente incompatibile con la blitzkrieg: «la mera estensione geografica e le necessità logistiche di una campagna che copriva centinaia di chilometri nel cuore del territorio russo compromisero il maggiore vantaggio della Wehrmacht: la sua abilità di lanciare attacchi a sorpresa in spazi territoriali limitati così da sopraffare il nemico prima che la propria scorte si esaurissero e la propria macchina bellica rallentasse».

 

La sottovalutazione dei fattori climatici e ambientali

 

I piani erano, come si è detto, improntati all’idea di una guerra d’annientamento e rifiutavano anche la sola possibilità di un prolungarsi della campagna. Logica conseguenza di questa impostazione fu la sottovalutazione degli aspetti ambientali e climatici dello sterminato territorio russo.

 

Non solo del freddo invernale, ma anche delle strade e della rasputitza, la terribile stagione del fango autunnale e primaverile. Secondo Liddell Hart, l’operazione Barbarossa ebbe tra i suoi peggiori nemici proprio le strade dell’URSS, strade non asfaltate che alle prime piogge si trasformavano in acquitrini in cui tutto affondava: «colonne di mezzi corazzati lunghe anche 150 chilometri assolutamente bloccate dal fango e in attesa inerte di un cambiamento della situazione». Chandler ci descrive una Grande Armée sprovvista di tutto, perché i convogli con le vettovaglie e i rifornimenti erano bloccati dal fango.

 

La guerra di movimento napoleonica e hitleriana trovò, veramente, il primo insormontabile ostacolo nelle strade e nel fango. E maggiore fu l’errore di Hitler, che affrontò la Russia con molti mezzi motorizzati, ma pochi cingolati, rendendo così vana la possibilità dei carri armati di liberarsi del vincolo stradale, poiché a tale vincolo erano obbligate le colonne motorizzate da cui i carri dipendevano.

 

Al riguardo è interessante notare che, nonostante le veloci “galoppate” dei carri armati, la velocità media dell’esercito tedesco non superò di molto quella napoleonica, poiché spesso fu, come quello napoleonico, un esercito ippotrainato. Barnett accomuna nell’ignoranza della logistica (per Hitler parla addirittura di «disprezzo») l’imperatore francese e il Führer tedesco.

 

Inoltre, quando l’autunno s’inoltrò, in novembre cominciò a nevicare. A dicembre prese a gelare: in quel momento l’esercito napoleonico stava già affrontando la sua disastrosa ritirata, quello tedesco invece stava stringendo la sua tenaglia su Mosca. In entrambe le situazioni erano due eserciti impreparati all’inverno russo, materialmente e moralmente.

 

Una ritirata di fantasmi coperti di stracci: così ci appare l’esercito napoleonico nella descrizione dei testimoni così come nei quadri dell’epoca. Per evitare quell’esperienza Hitler, quando capì che il suo esercito era allo stremo e Mosca non sarebbe mai stata conquistata, ordinò la resistenza sul posto e destituì chiunque osasse anche solo accennare alla ritirata. E ugualmente si comportò nei successivi quattro anni.

 

L’esercito tedesco non conobbe così il disastro della ritirata napoleonica, ma il suo logoramento fu tremendo perché era del tutto impreparato: i soldati tedeschi affrontarono quel terribile inverno del 1941 con le uniformi estive, proteggendosi alla meglio con i fogli di giornale e affrontarono i successivi inverni con gli stivaletti rinforzati nelle suole da lamine metalliche che favorivano il congelamento.

 

Combatterono truppe sovietiche ben equipaggiate che calzavano stivaletti di feltro, di cui gli americani fornirono ai russi 13.000.000 di paia.

 

Hitler e la sottovalutazione dell’esercito sovietico

 

Napoleone valutò correttamente le forze dell’esercito avversario, ritenendolo inferiore in modo marcato rispetto a quello francese. Nel 1812 l’esercito russo disponeva, sui vari fronti, 409 mila soldati regolari, 211 mila nelle armate di prima linea, 45 mila di seconda linea e 153 mila distribuiti nelle lontane guarnigioni e nelle riserve. In campo, in giugno, vi erano tre armate pronte per un immediato impegno: la prima armata occidentale di Barclay de Tolly (127 mila soldati); la seconda armata occidentale del generale Bagration (48 mila soldati); la terza armata del generale Tomassov era in formazione e arrivò solo in autunno ad avere 43 mila effettivi.

 

Nemici di Napoleone furono il caldo, il freddo, lo spazio, le strade, il fango, le insufficienze logistiche, le comunicazioni, la capacità elusiva dei russi.

 

Possiamo pertanto dire che la Grande Armée si consumò da sola: dopo solo 48 ore di marcia i ritardatari dell’armata napoleonica erano già 50 mila; fra il Niemen e Smolensk, senza aver combattuto una sola battaglia, si era già perso il terzo degli effettivi; a Mosca arrivarono in 100 mila; nella ritirata verso Smolensk morirono circa mille uomini ogni giorno, stremati dal freddo, dalla fame, dalle marce massacranti; rivarcarono il Niemen 25 mila soldati. Difficile dire, con precisione, quanti morirono nella battaglia di Borodino o della Beresina, o negli scontri armati e nelle scaramucce, ma di certo la stragrande maggioranza non morì per mano del nemico. Fu, in sostanza, un colossale disastro logistico.

 

Totalmente diversa è la situazione se osserviamo l’operazione Barbarossa. Qui fu colossale la sottovalutazione del nemico, e molteplici furono le cause: un errore di intelligence: «pensavamo di trovarci di fronte 200 divisioni – dice il generale Franz Halder nel suo diario – ne abbiamo già contate 360». Hitler scriveva invece a von Brautschicht: «Se avessi saputo che avevano tutti questi carri ci avrei pensato due volte»; un errore di pregiudizio militare, dovuto alla pessima prova data dall’esercito sovietico in Finlandia; un errore di pregiudizio politico-militare, dovuto alla conoscenza delle purghe staliniane che nel 1935-1937 avevano letteralmente decapitato l’esercito sovietico (colpendo l’80% degli alti ufficiali, tra cui il celebre maresciallo Tuchacevskij) e all’ignoranza della successiva riorganizzazione degli anni 1938-1939, che avevano portato a importanti successi contro il Giappone in Manciuria; un errore di sottovalutazione delle risorse industriali sovietiche, che l’incredibile esportazione a Est salvò dal disastro, consentendo all’URSS una seconda “rivoluzione industriale”, fattore non ultimo del successo sovietico (nel 1944 il paese produrrà 29 mila carri mentre la produzione tedesca raggiunse il massimo di 17 mila); la sottovalutazione degli aiuti americani (13.000.000 di stivali, 600 mila mezzi motorizzati, 250 calorie al giorno per soldato inscatolate); la valutazione razzista del soldato russo o slavo, giudicato inferiore, barbaro, pronto a disertare e, invece, a parere di tutti gli osservatori anche non filo-sovietici, un soldato tenace e patriottico.

 

Secondo Churchill «nulla riuscì ad avere ragione dei russi che si batterono con eroico spirito di sacrificio». Per Keegan, «quando erano stati sconfitti, era stata colpa non dei soldati, ma dell’incapacità dei generali».

 

Il decentramento decisionale

 

Chandler sottolinea come Napoleone, avendo calcolato che gli sarebbe stato necessario almeno mezzo milione di uomini di prima linea e una forza alle spalle dello stesso livello, inventò un nuovo modello di organizzazione: il gruppo di armate.

 

A questo nuovo modello di formazione sarebbe stata necessaria una catena di comando basata sulla flessibilità, cioè rigida nelle decisioni strategiche, ma duttile in quelle tattiche, tale da consentire ai singoli comandanti libertà di iniziativa e autonomia decisionale.

 

Per Napoleone, però, «il concetto fondamentale della condotta della guerra era basato sulla personale supervisione di tutti gli elementi della sua armata. Era un compito già abbastanza difficile con forze di 200.000 uomini che manovravano negli spazi in proporzione assai ristretti dell’Italia, della Germania…; adesso di fronte alle vaste estensioni della Polonia e della Russia, con la necessità di manovrare più di mezzo milione di uomini, l’energia e la possibilità di comando di Napoleone dovevano dimostrarsi del tutto inadeguate».

 

In sintesi, una massa di soldati e un modello organizzativo a cui non era stata data un’adeguata soluzione nella catena del comando, ancora imperniata sul controllo non solo strategico, ma anche tattico, dell’imperatore in persona.

 

Proprio nell’iniziativa offensiva decentralizzata consisteva, invece, secondo Kennedy, una delle qualità che resero la Wehrmacht apparentemente imbattibile nei primi anni di guerra (le altre qualità sarebbero state il coordinamento delle tre armi e l’uso tattico della forza aerea).

 

Ma nella campagna di Russia il decentramento decisionale venne progressivamente meno. Dopo la disfatta davanti a Mosca e l’avvio della controffensiva sovietica si arrivò, per Barnett, «al dissolvimento finale della tradizionale indipendenza professionale dell’esercito tedesco, dato che il 19 dicembre 1941 Hitler esonerò von Brauchitsch e assunse personalmente le funzioni oltre che la carica di comandante in capo».

 

Hitler decadeva «dal ruolo di leader della nazione … a quello di semplice comandante in capo, conducendo in modo dilettantesco le operazioni sul campo giorno per giorno». Sempre secondo Barnett, le questioni in discussione tra Hitler e i suoi generali caddero al livello più basso: «dai vitali argomenti di grande strategia – riarmo, pace, guerra e la scelta di obiettivi da attaccare – si scese ai problemi di comando operativo e, perfino, di semplice tattica».

 

L’eccesso di tensione strategica

 

Secondo Chandler, Napoleone perse 570 mila uomini (di cui 370 mila morti per ferite, fame, freddo; altri 100 morti morti per prigionia). Perse anche 200 mila cavalli e questa perdita fu quasi più grave della prima: infatti nel 1813 riuscì a riempire in parte i vuoti delle sue truppe arruolando anziani e ragazzi, ma non riuscì a ricostruire la cavalleria. Dei 1.400–1.500 cannoni portati in Russia solo 250 rimasero ai francesi, i restanti finirono quasi completamente in mano russa. L’Impero francese si trovò ridotto ai confini del 1806 e da quella campagna iniziò inarrestabilmente la fine.

 

L’esercito tedesco perse, nei quattro anni dello scontro con la Russia, i due terzi della sua forza complessiva: 2 o 3 milioni di soldati, migliaia e migliaia di carri, cannoni, aerei. I tedeschi non arrivarono a Mosca, furono invece i russi a conquistare Berlino; Hitler precedette la sua cattura dandosi la morte. Il Terzo Reich era definitivamente crollato dopo dodici anni dalla sua nascita.

 

Le analogie, come si è visto, possono essere numerose, ma nessuna è stata più richiamata del disastroso esito di entrambe. Le cause di quelle catastrofi sono molteplici e in buona parte le abbiamo viste. L’errore politico-militare più macroscopico, quello al quale tutti gli altri, pur diversi, possono essere ricondotti, è comune: l’eccesso di sforzo strategico.

 

Liddell Hart, Keegan, Kennedy, i generali tedeschi, tutti i commentatori si trovano concordi in questo giudizio assolutamente negativo: furono due colossali errori strategici, perché esposero la Francia e la Germania ad uno sforzo insostenibile.

 

A conferma di ciò, ricordiamo che l’invasione della Russia significò per la Francia una guerra su due fronti (così impegnativi che dalla Spagna si poterono spostare solo 27 mila uomini dei 335 mila là presenti); per la Germania significò il moltiplicarsi dei fronti (guerra sull’Atlantico, in Africa, sui cieli della Manica) e la sostanziale impossibilità di giocare la carta mediterranea, sostenuta dalla Marina e dall’ammiraglio Raeder e temutissima dagli inglesi. In sostanza, fu un azzardo strategico per entrambi, di cui né Napoleone né Hitler vollero neppure ipotizzare l’insuccesso.

 

A ulteriore dimostrazione: Napoleone non poté riarmare un esercito sufficientemente numeroso, la sua cavalleria non si riebbe più e i nemici si moltiplicarono, dato che da quel momento le cancellerie compresero che «la belva era mortalmente ferita».

 

Hitler bruciò letteralmente quasi tutte le forze tedesche nell’inferno russo, e non solo quelle economiche (Liddell Hart ricorda che nel 1943 il regalo natalizio del Führer all’asso dei carri, il generale Manteuffel, furono 50 carri, che di più ormai non si poteva), ma anche quelle morali perché la guerra a Oriente rappresentò qualcosa di assolutamente inedito, una guerra barbara condotta con la tecnologia distruttiva più avanzata. «La terza guerra mondiale» la definisce Joachim Fest, biografo di Hitler; «la mia guerra», nelle parole del Führer.

 

Conclusione

 

I soldati di Napoleone, non raggiunti dai troppo lenti convogli di rifornimento, affamati, disperati si macchiarono di saccheggio e di ogni forma di violenza, ma ciò non faceva parte di un piano prestabilito, organizzato, pianificato.

 

Era la guerra, e comportava inevitabilmente quelle barbarie. In questo Hitler si differenziò assolutamente dall’imperatore dei francesi, che egli in più occasioni accusò di incertezza, di incoerenza e di mancanza di chiarezza nell’affrontare il problema russo: a suo avviso occorreva una radicale politica di sterminio dell’«elemento giudaico-bolscevico» e una sua sostituzione per via della colonizzazione tedesca.

 

Lo ordinò nelle sue direttive: sarebbe stata una guerra diversa, una guerra senza regole. I commissari politici dell’esercito sovietico andavano giustiziati sul luogo della cattura, i delitti compiuti dall’esercito ai danni della popolazione civile non dovevano essere processati, le truppe speciali SS Eisantzgruppen dovevano “organizzare” i territori conquistati: in altre parole, dovevano procedere all’eliminazione fisica di tutta la classe dirigente, la deportazione coatta di lavoratori, “controllo e custodia” dei prigionieri (su 5.500.000 prigionieri più di 3.000.000 morirono di fame e di freddo).

 

A questo proposito Chandler – nell’affrontare un parallelo tra Napoleone e Hitler – pur ricordando le somiglianze delle due carriere, conclude definendo il paragone odioso, perché «nulla può essere più degradante per il primo ed onorevole per il secondo». Infatti «la più perversa impresa di Hitler, quella per cui alla fine sarà ricordato nella storia, fu il genocidio», mentre Napoleone sarà sempre ricordato «come un soldato geniale e il creatore dell’Europa moderna».

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Chandler D. G., Le campagne di Napoleone, Rizzoli, Milano, 1992.

Churchill W., La Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano, 2000.

Barnett C., I generali di Hitler, Rizzoli, Milano, 1991.

Fest J., Hitler, BUR, Milano, 1991.

Gilbert M., La grande storia della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2003.

Keegan J., La Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano, 2002.

Kennedy P., Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.

Liddell Hart B., Storia militare della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1970.

Tarle E. V., Napoleone, Editori Riuniti, Roma, 1975.

Von Clausewitz C., Della guerra, Mondadori, Milano, 1970.



 

 

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