I NON ALLINEATI
SUl 60° anniversario
della Conferenza DI Belgrado
di Lorenzo Capelli
«Questa Conferenza dimostra il
vostro interesse e quello del vostro
paese per il destino del genere
umano, e il vostro desiderio perché
sia trovata una via che permetta
finalmente al mondo di uscire dalla
grave crisi in cui oggi si dibatte»
(da “Jugoslavia - Conferenza dei
Paesi non allineati a Belgrado”,
Archivio Storico Luce, 08/09/1961).
Queste le calde e accoglienti parole
pronunciate dal maresciallo Josip
Broz Tito durante la sessione di
apertura della Conferenza a Belgrado
nel 1961. Parole intrise di
quell’ideale d’internazionalismo
socialista e di quell’agognata
fratellanza globale così saldamente
interiorizzate nel concetto
jugoslavo di “Unità” sotto il regime
titino di quel periodo. Tuttavia le
sabbie del tempo seguono spesso il
loro corso e la “memorializzazione”
di un concetto può facilmente
perdere o cambiare il suo
significato con il passare del
tempo.
Tenendo conto di quanto detto sopra,
sarebbe giusto ora prendere in
considerazione un’altra citazione: «If
you saw what I see for the future in
Yugoslavia, it would scare you»
(da Dejan Jovic, Yugoslavia: A State
that Withered Away, 2009). Questa
cupa constatazione fu pronunciata
dallo stesso maresciallo Tito all’ex
ministro degli Esteri della
Jugoslavia nel 1971, appena dieci
anni dopo la nascita ufficiale del
Movimento dei Paesi Non Allineati
durante la Conferenza di Belgrado,
quello stesso vertice che era stato
ampiamente celebrato dai media
internazionali come l’apice del
periodo di riconoscimento globale
per il nuovo ruolo di mediazione
assunto dalla Jugoslavia di Tito.
È dunque possibile che dieci anni
abbiano fatto una così grande
differenza? È giusto supporre che
questo breve periodo di tempo possa
avere aver già cancellato il buon
modello di “paese socialista
progressista e pacifico” che la
Jugoslavia avrebbe dovuto offrire
agli altri alleati non allineati?
Dall’altra parte invece, facendo un
piccolo passo avanti nel XXI secolo,
un ulteriormente diverso esempio è
stato presentato dall’attuale
presidente della Serbia, Aleksandar
Vučić. In occasione del sessantesimo
anniversario della già citata
Conferenza di Belgrado, non a caso
tenutasi nuovamente in quella stessa
città che oggi è però capitale della
sola nazione serba, Vučić ha
salutato i Paesi partecipanti,
attualmente ancora “non allineati”
per loro stessa definizione, come
segue: «Thank you, Mr. Aliyev
[Ilham Aliyev, presidente
dell’Azerbaigian e attuale
presidente del Movimento dei Non
Allineati], for your speech and
for participating in the
organization of this meeting...
Welcome home […] I am convinced that
Belgrade, as a symbol of crossroads
and a meeting place of East and
West, will encourage dialogue
between the parties».
Nonostante la nazione serba sia
stata retrocessa al semplice status
di “osservatrice” dopo gli eventi
delle guerre jugoslave degli anni
‘90 (quando ciò che restava del
governo dell’ex Jugoslavia si dimise
volontariamente dal NAM), le
dichiarazioni del presidente Vučić
mostrano chiaramente una rinnovata
enfasi sul presunto ruolo centrale
della Serbia, idealizzata dal suo
stesso governo come l’unica
legittima erede dell’eredità
jugoslava. Come rassicurarsi però
che quei messaggi internazionali di
“dialogo incoraggiato” e di “luogo
di incontro” non nascondano invece
un messaggio nazionalistico serbo?
Non potrebbe trattarsi di una
maschera fittizia di ricordo morale
verso quei doveri di “Unità” assunti
dalla Jugoslavia di Tito durante la
prima Conferenza di Belgrado?
Purtroppo non può esservi la
certezza. È sempre problematico e
ambiguo tracciare un solido confine
tra un’ideologia nazionalistica che
promuove la solidarietà e la
solidarietà di un vero e proprio
concetto di “memorializzazione” che
inquadra le esperienze personali e
collettive, come affermato da Lea
David in The Past Can’t Heal Us
(capitolo 7, “Mandating Memory,
Mandating Conflicts”). Considerando
quanto detto sopra, sarebbe utile
ora fare un passo indietro sul
contesto storico.
Un tuffo nel passato: la Conferenza
di Belgrado, 1961
Gli anni che “fanno la Storia”
possono capitare una volta ogni
tanto, e il 1961 fu uno di quei casi
speciali. Questo fu infatti un anno
di grandi turbolenze, accompagnato
da un nuovo sentimento di
indipendenza a livello mondiale. Una
brezza di cambiamento era avvertita
globalmente: l’Algeria dichiarava
ufficialmente la propria
indipendenza; Kennedy diventava il
nuovo presidente degli Stati Uniti;
il cosmonauta sovietico Jurij
Gagarin era il primo uomo a
raggiungere lo spazio; la Cuba di
Castro sventava il tentativo di
invasione americana nella Baia dei
Porci; gli stati africani della
Sierra Leone e del Tanganica
ottenevano l’indipendenza; l’Unione
Sovietica sperimentava la più
potente arma nucleare mai creata
dall’uomo (la “Tsar Bomba”); la
costruzione del Muro di Berlino si
era ufficialmente conclusa. Per
ultima, seppur non per minor
importanza, a Belgrado venne tenuta,
tra l’1 e il 6 settembre 1961, la
prima Conferenza ufficiale del
Movimento dei Non Allineati. Questo
evento segnò l’effettiva nascita del
NAM (“Non-Aligned Movement”), dopo
un’iniziale concettualizzazione
della stessa idea durante la
precedente Conferenza di Bandung, in
Indonesia, nel 1955, tenuta sotto la
supervisione di Sukarno.
Al centro del vertice del ‘61 tre
furono i principi cardine: “Pace,
Indipendenza e Cooperazione
internazionale paritaria”. Lo scopo
principale era quello di superare i
limiti globali della cosiddetta
“divisione in due blocchi” durante
l’era della Guerra Fredda. A
Belgrado il presidente jugoslavo
Josip Broz Tito, il presidente
indonesiano Sukarno, il primo
ministro indiano Jawaharlal Nehru,
il presidente del Ghana Kwame
Nkrumah e il presidente della
Repubblica Araba Unita Gamal Abd
el-Nasser guidarono 25 paesi sui
primi passi di un nuovo percorso
internazionale che si presentava al
largo pubblico come la “Terza Via”.
Ciò voleva soprattutto garantire
l’apertura del “Terzo Mondo”
decolonizzato come alternativa
tangibile al resto del mondo ormai
scisso in blocchi. In sostituzione
dei vecchi metodi le nuove azioni
proposte al pubblico globale furono,
senza grande sorpresa, la
demilitarizzazione, la
decolonizzazione e
l’autodeterminazione.
Altri importanti temi trattati
durante questo primo incontro furono
poi il boicottaggio contro la
minaccia atomica e lo sviluppo
economico postcoloniale dei Paesi
non allineati, anche se i risultati
si rivelarono per lo più
insoddisfacenti. Il vero obiettivo
di questo congresso, comunque, era
l’invito a prestare attenzione alle
difficoltà economiche e sociali
vissute dai governi dei nuovi paesi
del Terzo Mondo e a proporre una più
profonda democratizzazione del
sistema internazionale. Tali appelli
riuscirono alla fine ad avere un
impatto anche sull’Organizzazione
delle Nazioni Unite.
Analizzando tuttavia più a fondo
questa Conferenza e ciò che ne
scaturì, è facile osservare come fu
proprio Tito ad acquisire un ruolo
di rilevanza durante e soprattutto
dopo questi sei giorni di vertice,
cosa che gli permise infatti,
specialmente grazie alle sue
capacità di leadership, l’elezione a
primo presidente del Movimento. Egli
si impegnò costantemente a favore
del “modello socialista jugoslavo”,
saldo nella propria convinzione di
essere sempre pronto a offrire aiuto
agli alleati “consociati nella Terza
Via”.
In questo caso tale modello
socialista era armonicamente
rappresentato, seguendo l’ideale
della “fratellanza jugoslava”, dalla
popolazione della Belgrado degli
anni ‘60. La proposta di Tito era
infatti quella di creare un canale
indiretto di dialogo tra il blocco
della NATO e quello del Patto di
Varsavia attraverso l’istituzione
del Movimento dei Non Allineati,
trasformando così il neonato
movimento in un “faro di sicurezza”
per chi aveva bisogno di assistenza,
sia politica che ideologica.
Considerando quanto emerso fino a
ora, era dunque chiaro che
l’espansione mondiale del cosiddetto
“modello comunista/socialista
jugoslavo” fosse uno dei temi
principali al centro delle azioni di
Tito. Grazie anche all’audace
sostegno dei media poi, lo stesso
leader jugoslavo riuscì inoltre a
stabilire da allora un “mito
fondante positivo” del suo modello
socialista per l’Europa orientale,
dimostrando in tal modo come i media
riescano ad avere un ruolo
fondamentale nella politica della
memoria, sia per scopi tanto
positivi quanto negativi.
Che dire allora sugli effetti della
riorganizzazione della Belgrado e
della Jugoslavia degli anni ‘60
grazie a questa Conferenza?
Il primo vertice ufficiale del NAM
cambiò profondamente la percezione
di Belgrado e di tutta la
Jugoslavia, permettendo così la
creazione e l’esportazione in tutto
il mondo di un nuovo modello, ovvero
quello di una “terza via” del
socialismo. Proprio a tale fine
fiorirono infatti, fin dai due mesi
precedenti l’apertura della
Conferenza in settembre, nuovi
progetti di ri-urbanizzazione della
capitale e di altre città jugoslave.
Rimodellare e migliorare il volto
dell’architettura e dello stile di
vita del socialismo jugoslavo da
mostrare alle delegazioni
internazionali divenne una parte
integrante dell’agenda quotidiana.
I dati dimostrano che nella sola
Belgrado vennero inaugurate oltre 40
nuove strade e vie, le reti di
acquedotti e fognature della città
furono notevolmente migliorate per
l’occasione e si decise di attuare
inoltre corposi interventi per
migliorare l’illuminazione pubblica.
I piani di rinnovamento del
Parlamento Federale e del nuovo
palazzo del Consiglio Federale
Esecutivo della Jugoslavia furono
completati con uno zelo senza
precedenti. Inoltre, per mostrare
pubblicamente il concetto di
fratellanza insito nel modello
socialista jugoslavo, tutti gli
ingressi di Belgrado furono coronati
con lo slogan (tradotto in più
lingue) «Tutti i popoli del Mondo
vogliono la Pace».
Due obelischi celebrativi, che
incorporavano nella propria
struttura quasi l’ideale di una
“spada sguainata per la gloria o la
vittoria trionfale”, tipici esempi
di monumenti comunisti pertanto,
furono eretti e dedicati al NAM.
Anche alcuni sobborghi della
capitale furono ulteriormente
ridecorati in vista di questo
spettacolare evento, come nel caso
di Terazije, dove furono per esempio
installati i primi cartelloni
pubblicitari illuminati di tutta la
zona.
Contemporaneamente fu creato il
nuovo “Parco dell’Amicizia” a Novi
Beograd, situato esattamente nel
punto di incontro tra i due fiumi
Sava e Danubio. Lo scopo di questo
parco era quello di diventare un
simbolo per qualsiasi tipo di lotta
in nome della ricerca della pace e
dell’uguaglianza in tutto il mondo.
L’inaugurazione del Parco fu
celebrata il 7 settembre 1961,
quando il maresciallo Tito vi piantò
i primi platani (conosciuti con il
nome di “sicomori” nel Nord America)
in segno di amicizia nei confronti
degli alleati non allineati in
visita presso Belgrado. Questi
alberi furono infatti scelti per la
loro longevità, simboleggiando così
il concetto emotivo di “amicizia a
lungo termine”.
In ogni caso, la vera scintilla di
cambiamento che penetrò a fondo nel
cuore della società jugoslava fu il
nuovo volto della vita
socioculturale quotidiana promosso
dall’influenza dello stesso NAM sul
Paese. Le università di tutta la
Jugoslavia cominciarono infatti a
sviluppare numerosi programmi di
scambio intercontinentale per i
propri studenti e per quelli
provenienti dalle altre nazioni non
allineate, permettendo così che tali
condizioni favorissero la
possibilità di concepire un’idea
totalmente rivoluzionaria di
internazionalizzazione della cultura
nell’ambito dell’istruzione.
L’educazione è senza dubbio un
fattore cruciale per mantenere vive
le esperienze collettive della
memoria vissuta, soprattutto nel
momento di condivisione con i
giovani. Questa fu infatti una
frontiera davvero cruciale che il
socialismo jugoslavo riuscì ad
attraversare con impegno e
dedizione, dimostrando inoltre come
la cogestione internazionale di
amicizie e alleanze trasversali
fosse indubbiamente diventata un
motivo di vero orgoglio sia per il
paese di Tito che per tutti gli
altri stati del NAM.
Cosa rimane oggi nella memoria di
Belgrado e dei paesi dell’ex
Jugoslavia di quel “lontano
rimodellamento” dovuto al NAM?
Nel settembre 1989 Belgrado fu
scelta nuovamente per ospitare la
nona edizione della Conferenza del
Movimento dei Non Allineati, sotto
la presidenza ancora una volta di un
leader jugoslavo (Janez Drnovšek,
affiliato alla Lega dei Comunisti di
Jugoslavia), ma la ruota del tempo
era inesorabilmente girata: niente
era più come nel ‘61. Il mondo degli
anni ‘90 era incredibilmente
cambiato e le vecchie tensioni e
lotte che avevano portato alla
creazione del NAM erano vagamente
percepite come ormai superate.
In Europa e in tutto il mondo
soffiava una nuova brezza di
inevitabile cambiamento: presto il
Muro di Berlino sarebbe stato
definitivamente abbattuto; le due
Germanie avevano imboccato
l’iniziale cammino verso la
riunificazione; l’Urss soffriva
ormai di un’incurabile e sanguinosa
emorragia interna. Nel frattempo,
inoltre, il maresciallo Tito era
morto nel 1980 e da quel momento
l’equilibrio della Jugoslavia aveva
iniziato a sgretolarsi in mille
pezzi. Questo Paese, almeno in ciò
che restava della sua totalità,
veniva infatti travolto dalle crisi
socio-economiche e del debito
pubblico, da una crisi ideologica
comunista globale e dalla paura del
sopravvento dei nuovi nazionalismi
etnici.
I concetti di “etnicità” riscoperti
negli anni ‘90 stavano infatti
facendo a pezzi i vecchi ideali di
“fratellanza” e “unità” espressi
sotto il regime di Tito e le passate
proposte di “pace, indipendenza e
cooperazione internazionale
paritaria” della prima Conferenza
del ‘61 sembravano ormai essere
state pubblicamente dimenticate in
ciò che rimaneva della vecchia
Jugoslavia. Considerando tutto ciò,
è possibile dire che Belgrado abbia
ancora una memoria quotidiana e
attiva di quell’epoca iniziata nel
lontano 1961?
Oggi le esperienze collettive nate
negli anni ‘60 sembrano sospese in
un limbo al limite dell’oscurità,
almeno a livello pubblico. I
monumenti innalzati e le aree
rimodellate in quella Belgrado
jugoslava prima e subito dopo la
Conferenza sono oggi per lo più
sconosciuti alla popolazione e la
“memorializzazione” della loro
esistenza, in alcuni casi, è
addirittura cambiata e/o stata
volontariamente stravolta dal suo
significato originario nel corso del
tempo.
Solo uno dei due obelischi
celebrativi originali costruiti per
la prima Conferenza del NAM è
tuttora in piedi. Originariamente
concepito dagli architetti Dušan
Milenković e Svetislav Ličina come
soluzione temporanea, l’unico
obelisco superstite fu costruito non
lontano dalle rive del fiume, vicino
al famoso ponte “Brankov Most”,
divenuto celebre nel 1961 perché fu
attraversato da tutte le delegazioni
dei paesi non allineati che
parteciparono al vertice.
Dimenticato fino a una fugace
ripresa di popolarità durante la
nona edizione della Conferenza nel
1989, il monumento è da allora
caduto nuovamente nel quasi totale
oblio della memoria.
Oggi è molto probabile che la
maggioranza della popolazione di
Belgrado non ne sappia assolutamente
nulla al riguardo. Attualmente
l’obelisco, che svetta solitario nel
mezzo di un piccolo parco, non gode
infatti di alcun tipo di tutela come
patrimonio culturale che ne
garantisca la conservazione e
proprio per questo motivo è
costantemente ricoperto dai
graffiti. Ciononostante il Comune di
Belgrado si sforza nell’ordinarne la
pulizia, almeno in nome del decoro
pubblico, ogni tot anni, senza però
aver mai definito un calendario
prestabilito. L’ultimo restauro del
monumento di cui si ha notizia
risale ormai al 2010.
Prendendo in considerazione questo
esempio e ricordando quanto afferma
Maria Todorova nel suo articolo “The
Mausoleum of Georgi Dimitrov as lieu
de mémoire”, è facile notare una
somiglianza tra questo obelisco
dimenticato e la definizione che
viene data di “lieu d’oubli”,
un luogo di “non memoria”. Basta
infatti osservare la definizione di
“lieux de mémoire” di Pierre
Nora come «objects, places, or
ideals transformed by human agency
or time into symbolic element[s] of
the inherited touchstones of memory
of a community» (“The Mausoleum
of Georgi Dimitrov as lieu de
mémoire”, p. 380), ed è
intuitivamente comprensibile come il
caso di Belgrado rappresenti
l’esatto contrario. Questo obelisco
è infatti diventato inesorabilmente
un luogo di “memoria dimenticata”
subito prima e subito dopo le Guerre
Jugoslave degli anni Novanta.
È tuttavia interessante osservare
come il destino del “Parco
dell’Amicizia” rappresenti invece un
caso totalmente diverso dall’esempio
precedente. Costruita su iniziativa
dell’Associazione Ambientale
Giovanile della Serbia e sotto la
supervisione dell’architetto Milan
Pališaški, l’area verde fu
inaugurata nei primi giorni di
settembre del 1961. Suddivisa in
modo rigorosamente geometrico e
circoscritta da dimensioni
monumentali, il ruolo di tale area
era puramente celebrativo e
rappresentativo, in nome delle nuove
alleanze fraterne nate grazie
all’istituzione del NAM.
Ideato dunque per segnare
l’istituzione ufficiale del
Movimento dei Non Allineati, la
centralità di questo parco fu in
seguito costruita intorno alla
cosiddetta “Strada/Viale della
Pace”, circondata dai quei famosi 26
platani che furono piantati durante
la prima Conferenza da tutte le
nazioni partecipanti. Gli alberi
rappresentavano infatti l’impegno
internazionale per le politiche di
pace e di coesistenza dinamica e
questa tradizione di piantare un
platano, considerata da allora un
vero e proprio segno di amicizia, si
è ripetuta costantemente nel corso
degli anni, con addirittura il
coinvolgimento di diverse figure
importanti e di celebrità.
Questa tradizione si è mantenuta
attivamente in vita anche dopo la
disintegrazione della Jugoslavia
negli anni Novanta e al momento
attuale il gruppo rock britannico
The Rolling Stones è stata l’ultima
rappresentanza famosa a piantare un
albero in questa città nel 2007,
poco prima del loro concerto.
Considerando tutto ciò, il “Parco
dell’Amicizia” potrebbe essere
chiaramente riconosciuto, allora,
come un vero e proprio “milieux
de mémoire” (che per lo più “indicates
sites of living or lived memory”
- “The Mausoleum of Georgi Dimitrov
as lieu de mémoire”, p. 380) in
quella prospettiva espressa da
Pierre Nora.
Allo stesso tempo è tristemente
importante osservare come
recentemente sia apparso un nuovo
elemento di contrasto. Il 12 giugno
2000 è stato inaugurato infatti nel
parco un nuovo monumento: l’obelisco
della “Fiamma eterna”, alto 27
metri. Ideato principalmente da
Mirjana Marković, moglie dell’ex
presidente della Repubblica Federale
di Jugoslavia Slobodan Milošević,
questo monumento è stato eretto
pubblicamente in memoria delle
vittime militari e civili dei
bombardamenti della NATO in
Jugoslavia nel 1999. Nel progetto
originale l’obelisco doveva essere
alto 78 metri, per ricordare i 78
giorni di bombardamenti aerei
avvenuti l’anno precedente e
commemorare così questo tragico
evento, ma nel corso del processo di
costruzione furono riscontrate
alcune difficoltà strutturali che
hanno infine costretto gli
architetti a rinunciare all’idea
originale. Poco dopo l’apertura al
pubblico era anche visibile
un’iscrizione, posta sulla parete
orientale del monumento, a lettere
sovrapposte, che oggi sono state
tutte rubate. Il testo recitava
così: «Che questa fiamma arda
eternamente come memoriale della
guerra che i 19 Paesi del patto NATO
- [...] - hanno condotto contro la
Serbia dal 24 marzo al 10 giugno
1999. Che possa ardere in eterno
come memoriale dell’eroica difesa
della Serbia a cui ha partecipato
l’intero popolo. Che possa bruciare
in eterno per il mondo intero. Per
essere libero, il mondo deve trovare
in sé il coraggio e la forza con cui
abbiamo combattuto e ci siamo difesi
nella primavera e nell’estate del
1999. [Firmato] Il popolo
serbo».
L’imposizione di questo nuovo
monumento in quello che era il
vecchio “Parco dell’Amicizia” e
questa iscrizione apposta su di esso
simboleggia dunque una chiara
interferenza nazionalistica da parte
dell’élite del governo serbo sul
precedente concetto di
commemorazione attribuito all’area.
L’orgoglio in nome del “sacrificio
della e per la nazione” sembra ora
prevalere sui passati ideali di
“pace” e “cooperazione
internazionale”, anche se questo
nuovo monumento non è
particolarmente piaciuto al vasto
pubblico serbo fin dalla sua
apertura.
Quest’ultimo caso analizzato
presenta allora un esempio
significativo di appropriazione
nazionalista indebita di
un’esperienza collettiva
precedentemente commemorata, con
l’obiettivo finale di stravolgerne
il significato originario, anche se
fortunatamente la precedente
solidarietà morale pubblica
derivante da questa esperienza non
ha tuttavia pienamente accettato
questa strategia di appropriazione
indebita. Infatti, come giustamente
affermato da Lea David in “The Past
Can’t Heal Us” (capitolo 7,
“Mandating Memory, Mandating
Conflicts”, p. 213), «moral
remembrance captures the best and
the worst of the humanity».
Questo è il vero problema della
memoria e della “memorializzazione”:
la sua vulnerabilità di fronte
all’appropriazione indebita.
Come viene ricordata allora questa
prima Conferenza del NAM a livello
governativo a Belgrado e nella
Serbia di oggi?
Come già detto, l’11 e il 12 ottobre
2021 si è tenuto a Belgrado, sotto
la supervisione del presidente serbo
Vučić, il sessantesimo anniversario
del primo vertice NAM. Sotto
l’occhio attento di 120 Stati membri
e 17 osservatori, contro i 25 Paesi
originali partecipanti nel 1961,
Belgrado è stata ripresentata, per
ben due giorni, come il chiaro
riflesso di quell’ideale faro del
NAM di unificazione tra Occidente e
Oriente.
La calorosa accoglienza di una città
sormontata da garrenti bandiere
internazionali ha stregato ancora
una volta il pubblico globale, anche
grazie al fatto che l’incontro si è
svolto prevalentemente in loco,
seguendo al meglio i nuovi
regolamenti dettati in seguito alla
pandemia del Covid-19. Le
motivazioni di questa rinnovata
scelta di Belgrado per ospitare
l’evento sono state spiegate dal
ministro degli Esteri serbo, Nikola
Selakovic, come segue: «The
occasion of the 60th anniversary of
the founding of the Movement did not
have a primarily political dimension,
[…] it was a way for everyone to
show that they remember the 1961
Belgrade Conference with great care
and pride».
Anche se le intenzioni del ricordo
sembravano a prima vista nobili,
un’altra dichiarazione è stata
pronunciata in seguito da Selakovic:
«Serbia, although its strategic
goal is EU membership, does not
renounce traditional friends […]
they are not only Russia and China,
but also members of the Non-Aligned
Movement». È difficile non
riconoscere dietro queste parole una
chiara richiesta di aiuto nelle
lotte per il riconoscimento
internazionale di un Paese vessato
sotto l’egida di una deriva
nazionalistica.
Per avvalorare ulteriormente questa
tesi, il Presidente della Serbia
Vučić ha poi sottolineato
l’importanza morale di ricordare e
onorare sempre quanto discusso
durante la prima Conferenza del NAM
a Belgrado, sottolineando tuttavia
il fatto che il mondo sia cambiato
in modo significativo da quei giorni
passati. In seguito a tali
affermazioni il Presidente Vučić ha
però deciso di gettare una ulteriore
carta apparentemente
“nazionalistica” sul tavolo da gioco
di questo anniversario. Infatti,
rivolgendosi ai Paesi partecipanti,
ha pronunciato questa ambigua
dichiarazione: «The most painful
struggle is resolving the issue of
Kosovo and Metohija and defending
the country’s territorial integrity.
Despite the challenges, Serbia is
committed to compromise to preserve
security in the region. Dialogue has
no alternative and international
support is key. Serbia is honored to
play the role it played».
Questo sforzo dell’élite del governo
serbo era pertanto visibilmente
volto a ridurre il peso del caso sul
Kosovo, mobilitando al contempo le
nazioni di tutto il mondo a non
riconoscere o ignorare la “presunta”
indipendenza (dal punto di vista
serbo almeno) dello stesso Kosovo,
dimostrando che quando un qualsiasi
tipo di contestazione appare nel
dialogo di una “memorializzazione”,
allora la politica è penetrata
rovinosamente nella questione. Per
di più, come affermato da Lea David
in “The Past Can’t Heal Us”
(capitolo 7, “Mandating Memory,
Mandating Conflicts”, pp.188-189), «a
society may prove its moral
righteousness by publicly addressing
the past», tuttavia «some
nation-states [e dunque la loro
linea politica] may put significant
effort into concealing and
obfuscating contested elements of
the past».
Considerazioni conclusive
«Sono il leader di un Paese che
ha due alfabeti, tre lingue, quattro
religioni, cinque nazionalità, sei
repubbliche, circondato da sette
vicini, un Paese in cui vivono otto
minoranze etniche». Questa
citazione del maresciallo Tito può
rappresentare la vera essenza della
politica della memoria dal punto di
vista dell’Europa sudorientale.
Potremmo pensare ai Balcani come a
un calderone pieno di stufato
fumante, ricco di sapori e
ingredienti, mentre le politiche
nazionali della memoria potrebbero
incarnare il mestolo usato per
riempire le ciotole. Uno stufato
bollente sarebbe piuttosto inutile
senza alcun mezzo fisico per
attingervi e viceversa, ma alla fine
è la mano che controlla il mestolo
ad avere il vero potere. La mano
potrebbe andare molto in profondità
e riempire il mestolo fino alla sua
massima capacità, oppure potrebbe
immergerlo nello stufato solo
superficialmente.
Allo stesso modo, andare troppo a
fondo nel concetto balcanico di
“memorializzazione” potrebbe giovare
alla costruzione dell’identità
sociale a livello pubblico, ma
potrebbe anche andare contro le
reali intenzioni degli attori
mnemonici del governo. Questi ultimi
sono infatti spesso inclini a fare
un uso improprio del concetto di
“memorializzazione” in nome dei
propri scopi politici. È questa
mancanza di dialogo tra attori e i
mediatori culturali che sta causando
un’emorragia inarrestabile nei cuori
della politica della memoria
dell’Europa sudorientale.
Se questa situazione non cambierà al
più presto, la strada per un
equilibrato sviluppo sociale della
memoria tra questi Paesi sarà
inevitabilmente tortuosa. L’attuale
concetto di memoria nei Balcani è
difficilmente comprensibile in una
prospettiva unificante, ma non tutte
le colpe sono da attribuire al
passato. Lo stesso presente ha
infatti le sue responsabilità,
perché come disse Albert Einstein,
«La memoria è ingannevole, perché è
colorata dagli eventi di oggi».
Riferimenti bibliografici:
I. Ancic, “Belgrade, The 1961
Non-Aligned Conference”, in “Global
South Studies”, University of
Virginia, 17th August 2017
- Archivio storico Istituto Luce,
“Jugoslavia - Conferenza dei paesi
non allineati a Belgrado”, 8
settembre 1961
“Belgrade Parks - The Park of
Friendship”, BLOG | RENTASTAN
APARTMANI BEOGRAD
B92, “Belgrade marking 60 years of
the Non-Aligned Movement; Vučić/
“Welcome home” VIDEO”, 11th October
2021
L. David, “The Past Can’t Heal Us”,
chapter 7, “Mandating Memory,
Mandating Conflicts”, 2020
V. Dulović, “First Non-Aligned
Movement Summit Monument”, in
“Nonument”
G. Fruscione, “C’era una volta il
Movimento dei Non Allineati”, in
“Eást Journal”, 11 ottobre 2021
D. Jovic, “Yugoslavia: A State that
Withered Away”, 2009
M.G. Melchionni, “La conferenza dei
Paesi non allineati a Belgrado”, in
“Rivista di Studi Politici
Internazionali”, Volume 28, n. 4,
ottobre-dicembre 1961
A. Pećinar, “The revival of the
Non-Aligned Movement in Serbia”, in
“ECONOMY & POLITICS”, 7th November
2021
I. Pellicciari, “Tornano i Non
Allineati. E la loro conferenza ci
riguarda”, 10 ottobre 2021
M. Todorova, “The Mausoleum of
Georgi Dimitrov as lieu de mémoire”,
in “Contemporary Issues in
Historical Perspective”, University
of Illinois at Urbana-Champaign.