[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

194 / FEBBRAIO 2024 (CCXXV)


contemporanea

I NON ALLINEATI
SUl 60° anniversario della Conferenza DI Belgrado

di Lorenzo Capelli

 

«Questa Conferenza dimostra il vostro interesse e quello del vostro paese per il destino del genere umano, e il vostro desiderio perché sia trovata una via che permetta finalmente al mondo di uscire dalla grave crisi in cui oggi si dibatte» (da “Jugoslavia - Conferenza dei Paesi non allineati a Belgrado”, Archivio Storico Luce, 08/09/1961).
 
Queste le calde e accoglienti parole pronunciate dal maresciallo Josip Broz Tito durante la sessione di apertura della Conferenza a Belgrado nel 1961. Parole intrise di quell’ideale d’internazionalismo socialista e di quell’agognata fratellanza globale così saldamente interiorizzate nel concetto jugoslavo di “Unità” sotto il regime titino di quel periodo. Tuttavia le sabbie del tempo seguono spesso il loro corso e la “memorializzazione” di un concetto può facilmente perdere o cambiare il suo significato con il passare del tempo.
 
Tenendo conto di quanto detto sopra, sarebbe giusto ora prendere in considerazione un’altra citazione: «If you saw what I see for the future in Yugoslavia, it would scare you» (da Dejan Jovic, Yugoslavia: A State that Withered Away, 2009). Questa cupa constatazione fu pronunciata dallo stesso maresciallo Tito all’ex ministro degli Esteri della Jugoslavia nel 1971, appena dieci anni dopo la nascita ufficiale del Movimento dei Paesi Non Allineati durante la Conferenza di Belgrado, quello stesso vertice che era stato ampiamente celebrato dai media internazionali come l’apice del periodo di riconoscimento globale per il nuovo ruolo di mediazione assunto dalla Jugoslavia di Tito.
 
È dunque possibile che dieci anni abbiano fatto una così grande differenza? È giusto supporre che questo breve periodo di tempo possa avere aver già cancellato il buon modello di “paese socialista progressista e pacifico” che la Jugoslavia avrebbe dovuto offrire agli altri alleati non allineati?
 
Dall’altra parte invece, facendo un piccolo passo avanti nel XXI secolo, un ulteriormente diverso esempio è stato presentato dall’attuale presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. In occasione del sessantesimo anniversario della già citata Conferenza di Belgrado, non a caso tenutasi nuovamente in quella stessa città che oggi è però capitale della sola nazione serba, Vučić ha salutato i Paesi partecipanti, attualmente ancora “non allineati” per loro stessa definizione, come segue: «Thank you, Mr. Aliyev [Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaigian e attuale presidente del Movimento dei Non Allineati], for your speech and for participating in the organization of this meeting... Welcome home […] I am convinced that Belgrade, as a symbol of crossroads and a meeting place of East and West, will encourage dialogue between the parties».
 
Nonostante la nazione serba sia stata retrocessa al semplice status di “osservatrice” dopo gli eventi delle guerre jugoslave degli anni ‘90 (quando ciò che restava del governo dell’ex Jugoslavia si dimise volontariamente dal NAM), le dichiarazioni del presidente Vučić mostrano chiaramente una rinnovata enfasi sul presunto ruolo centrale della Serbia, idealizzata dal suo stesso governo come l’unica legittima erede dell’eredità jugoslava. Come rassicurarsi però che quei messaggi internazionali di “dialogo incoraggiato” e di “luogo di incontro” non nascondano invece un messaggio nazionalistico serbo? Non potrebbe trattarsi di una maschera fittizia di ricordo morale verso quei doveri di “Unità” assunti dalla Jugoslavia di Tito durante la prima Conferenza di Belgrado?
 
Purtroppo non può esservi la certezza. È sempre problematico e ambiguo tracciare un solido confine tra un’ideologia nazionalistica che promuove la solidarietà e la solidarietà di un vero e proprio concetto di “memorializzazione” che inquadra le esperienze personali e collettive, come affermato da Lea David in The Past Can’t Heal Us (capitolo 7, “Mandating Memory, Mandating Conflicts”). Considerando quanto detto sopra, sarebbe utile ora fare un passo indietro sul contesto storico.
 
Un tuffo nel passato: la Conferenza di Belgrado, 1961
 
Gli anni che “fanno la Storia” possono capitare una volta ogni tanto, e il 1961 fu uno di quei casi speciali. Questo fu infatti un anno di grandi turbolenze, accompagnato da un nuovo sentimento di indipendenza a livello mondiale. Una brezza di cambiamento era avvertita globalmente: l’Algeria dichiarava ufficialmente la propria indipendenza; Kennedy diventava il nuovo presidente degli Stati Uniti; il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin era il primo uomo a raggiungere lo spazio; la Cuba di Castro sventava il tentativo di invasione americana nella Baia dei Porci; gli stati africani della Sierra Leone e del Tanganica ottenevano l’indipendenza; l’Unione Sovietica sperimentava la più potente arma nucleare mai creata dall’uomo (la “Tsar Bomba”); la costruzione del Muro di Berlino si era ufficialmente conclusa. Per ultima, seppur non per minor importanza, a Belgrado venne tenuta, tra l’1 e il 6 settembre 1961, la prima Conferenza ufficiale del Movimento dei Non Allineati. Questo evento segnò l’effettiva nascita del NAM (“Non-Aligned Movement”), dopo un’iniziale concettualizzazione della stessa idea durante la precedente Conferenza di Bandung, in Indonesia, nel 1955, tenuta sotto la supervisione di Sukarno.
 
Al centro del vertice del ‘61 tre furono i principi cardine: “Pace, Indipendenza e Cooperazione internazionale paritaria”. Lo scopo principale era quello di superare i limiti globali della cosiddetta “divisione in due blocchi” durante l’era della Guerra Fredda. A Belgrado il presidente jugoslavo Josip Broz Tito, il presidente indonesiano Sukarno, il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, il presidente del Ghana Kwame Nkrumah e il presidente della Repubblica Araba Unita Gamal Abd el-Nasser guidarono 25 paesi sui primi passi di un nuovo percorso internazionale che si presentava al largo pubblico come la “Terza Via”. Ciò voleva soprattutto garantire l’apertura del “Terzo Mondo” decolonizzato come alternativa tangibile al resto del mondo ormai scisso in blocchi. In sostituzione dei vecchi metodi le nuove azioni proposte al pubblico globale furono, senza grande sorpresa, la demilitarizzazione, la decolonizzazione e l’autodeterminazione.
 
Altri importanti temi trattati durante questo primo incontro furono poi il boicottaggio contro la minaccia atomica e lo sviluppo economico postcoloniale dei Paesi non allineati, anche se i risultati si rivelarono per lo più insoddisfacenti. Il vero obiettivo di questo congresso, comunque, era l’invito a prestare attenzione alle difficoltà economiche e sociali vissute dai governi dei nuovi paesi del Terzo Mondo e a proporre una più profonda democratizzazione del sistema internazionale. Tali appelli riuscirono alla fine ad avere un impatto anche sull’Organizzazione delle Nazioni Unite.
 
Analizzando tuttavia più a fondo questa Conferenza e ciò che ne scaturì, è facile osservare come fu proprio Tito ad acquisire un ruolo di rilevanza durante e soprattutto dopo questi sei giorni di vertice, cosa che gli permise infatti, specialmente grazie alle sue capacità di leadership, l’elezione a primo presidente del Movimento. Egli si impegnò costantemente a favore del “modello socialista jugoslavo”, saldo nella propria convinzione di essere sempre pronto a offrire aiuto agli alleati “consociati nella Terza Via”.


In questo caso tale modello socialista era armonicamente rappresentato, seguendo l’ideale della “fratellanza jugoslava”, dalla popolazione della Belgrado degli anni ‘60. La proposta di Tito era infatti quella di creare un canale indiretto di dialogo tra il blocco della NATO e quello del Patto di Varsavia attraverso l’istituzione del Movimento dei Non Allineati, trasformando così il neonato movimento in un “faro di sicurezza” per chi aveva bisogno di assistenza, sia politica che ideologica. Considerando quanto emerso fino a ora, era dunque chiaro che l’espansione mondiale del cosiddetto “modello comunista/socialista jugoslavo” fosse uno dei temi principali al centro delle azioni di Tito. Grazie anche all’audace sostegno dei media poi, lo stesso leader jugoslavo riuscì inoltre a stabilire da allora un “mito fondante positivo” del suo modello socialista per l’Europa orientale, dimostrando in tal modo come i media riescano ad avere un ruolo fondamentale nella politica della memoria, sia per scopi tanto positivi quanto negativi.
 
Che dire allora sugli effetti della riorganizzazione della Belgrado e della Jugoslavia degli anni ‘60 grazie a questa Conferenza?
 
Il primo vertice ufficiale del NAM cambiò profondamente la percezione di Belgrado e di tutta la Jugoslavia, permettendo così la creazione e l’esportazione in tutto il mondo di un nuovo modello, ovvero quello di una “terza via” del socialismo. Proprio a tale fine fiorirono infatti, fin dai due mesi precedenti l’apertura della Conferenza in settembre, nuovi progetti di ri-urbanizzazione della capitale e di altre città jugoslave. Rimodellare e migliorare il volto dell’architettura e dello stile di vita del socialismo jugoslavo da mostrare alle delegazioni internazionali divenne una parte integrante dell’agenda quotidiana.
 
I dati dimostrano che nella sola Belgrado vennero inaugurate oltre 40 nuove strade e vie, le reti di acquedotti e fognature della città furono notevolmente migliorate per l’occasione e si decise di attuare inoltre corposi interventi per migliorare l’illuminazione pubblica. I piani di rinnovamento del Parlamento Federale e del nuovo palazzo del Consiglio Federale Esecutivo della Jugoslavia furono completati con uno zelo senza precedenti. Inoltre, per mostrare pubblicamente il concetto di fratellanza insito nel modello socialista jugoslavo, tutti gli ingressi di Belgrado furono coronati con lo slogan (tradotto in più lingue) «Tutti i popoli del Mondo vogliono la Pace».
 
Due obelischi celebrativi, che incorporavano nella propria struttura quasi l’ideale di una “spada sguainata per la gloria o la vittoria trionfale”, tipici esempi di monumenti comunisti pertanto, furono eretti e dedicati al NAM. Anche alcuni sobborghi della capitale furono ulteriormente ridecorati in vista di questo spettacolare evento, come nel caso di Terazije, dove furono per esempio installati i primi cartelloni pubblicitari illuminati di tutta la zona.
 
Contemporaneamente fu creato il nuovo “Parco dell’Amicizia” a Novi Beograd, situato esattamente nel punto di incontro tra i due fiumi Sava e Danubio. Lo scopo di questo parco era quello di diventare un simbolo per qualsiasi tipo di lotta in nome della ricerca della pace e dell’uguaglianza in tutto il mondo. L’inaugurazione del Parco fu celebrata il 7 settembre 1961, quando il maresciallo Tito vi piantò i primi platani (conosciuti con il nome di “sicomori” nel Nord America) in segno di amicizia nei confronti degli alleati non allineati in visita presso Belgrado. Questi alberi furono infatti scelti per la loro longevità, simboleggiando così il concetto emotivo di “amicizia a lungo termine”.
 
In ogni caso, la vera scintilla di cambiamento che penetrò a fondo nel cuore della società jugoslava fu il nuovo volto della vita socioculturale quotidiana promosso dall’influenza dello stesso NAM sul Paese. Le università di tutta la Jugoslavia cominciarono infatti a sviluppare numerosi programmi di scambio intercontinentale per i propri studenti e per quelli provenienti dalle altre nazioni non allineate, permettendo così che tali condizioni favorissero la possibilità di concepire un’idea totalmente rivoluzionaria di internazionalizzazione della cultura nell’ambito dell’istruzione.
 
L’educazione è senza dubbio un fattore cruciale per mantenere vive le esperienze collettive della memoria vissuta, soprattutto nel momento di condivisione con i giovani. Questa fu infatti una frontiera davvero cruciale che il socialismo jugoslavo riuscì ad attraversare con impegno e dedizione, dimostrando inoltre come la cogestione internazionale di amicizie e alleanze trasversali fosse indubbiamente diventata un motivo di vero orgoglio sia per il paese di Tito che per tutti gli altri stati del NAM.
 
Cosa rimane oggi nella memoria di Belgrado e dei paesi dell’ex Jugoslavia di quel “lontano rimodellamento” dovuto al NAM?
 
Nel settembre 1989 Belgrado fu scelta nuovamente per ospitare la nona edizione della Conferenza del Movimento dei Non Allineati, sotto la presidenza ancora una volta di un leader jugoslavo (Janez Drnovšek, affiliato alla Lega dei Comunisti di Jugoslavia), ma la ruota del tempo era inesorabilmente girata: niente era più come nel ‘61. Il mondo degli anni ‘90 era incredibilmente cambiato e le vecchie tensioni e lotte che avevano portato alla creazione del NAM erano vagamente percepite come ormai superate.
 
In Europa e in tutto il mondo soffiava una nuova brezza di inevitabile cambiamento: presto il Muro di Berlino sarebbe stato definitivamente abbattuto; le due Germanie avevano imboccato l’iniziale cammino verso la riunificazione; l’Urss soffriva ormai di un’incurabile e sanguinosa emorragia interna. Nel frattempo, inoltre, il maresciallo Tito era morto nel 1980 e da quel momento l’equilibrio della Jugoslavia aveva iniziato a sgretolarsi in mille pezzi. Questo Paese, almeno in ciò che restava della sua totalità, veniva infatti travolto dalle crisi socio-economiche e del debito pubblico, da una crisi ideologica comunista globale e dalla paura del sopravvento dei nuovi nazionalismi etnici.
 
I concetti di “etnicità” riscoperti negli anni ‘90 stavano infatti facendo a pezzi i vecchi ideali di “fratellanza” e “unità” espressi sotto il regime di Tito e le passate proposte di “pace, indipendenza e cooperazione internazionale paritaria” della prima Conferenza del ‘61 sembravano ormai essere state pubblicamente dimenticate in ciò che rimaneva della vecchia Jugoslavia. Considerando tutto ciò, è possibile dire che Belgrado abbia ancora una memoria quotidiana e attiva di quell’epoca iniziata nel lontano 1961?
 
Oggi le esperienze collettive nate negli anni ‘60 sembrano sospese in un limbo al limite dell’oscurità, almeno a livello pubblico. I monumenti innalzati e le aree rimodellate in quella Belgrado jugoslava prima e subito dopo la Conferenza sono oggi per lo più sconosciuti alla popolazione e la “memorializzazione” della loro esistenza, in alcuni casi, è addirittura cambiata e/o stata volontariamente stravolta dal suo significato originario nel corso del tempo.
 
Solo uno dei due obelischi celebrativi originali costruiti per la prima Conferenza del NAM è tuttora in piedi. Originariamente concepito dagli architetti Dušan Milenković e Svetislav Ličina come soluzione temporanea, l’unico obelisco superstite fu costruito non lontano dalle rive del fiume, vicino al famoso ponte “Brankov Most”, divenuto celebre nel 1961 perché fu attraversato da tutte le delegazioni dei paesi non allineati che parteciparono al vertice. Dimenticato fino a una fugace ripresa di popolarità durante la nona edizione della Conferenza nel 1989, il monumento è da allora caduto nuovamente nel quasi totale oblio della memoria.
 
Oggi è molto probabile che la maggioranza della popolazione di Belgrado non ne sappia assolutamente nulla al riguardo. Attualmente l’obelisco, che svetta solitario nel mezzo di un piccolo parco, non gode infatti di alcun tipo di tutela come patrimonio culturale che ne garantisca la conservazione e proprio per questo motivo è costantemente ricoperto dai graffiti. Ciononostante il Comune di Belgrado si sforza nell’ordinarne la pulizia, almeno in nome del decoro pubblico, ogni tot anni, senza però aver mai definito un calendario prestabilito. L’ultimo restauro del monumento di cui si ha notizia risale ormai al 2010.
 
Prendendo in considerazione questo esempio e ricordando quanto afferma Maria Todorova nel suo articolo “The Mausoleum of Georgi Dimitrov as lieu de mémoire”, è facile notare una somiglianza tra questo obelisco dimenticato e la definizione che viene data di “lieu d’oubli”, un luogo di “non memoria”. Basta infatti osservare la definizione di “lieux de mémoire” di Pierre Nora come «objects, places, or ideals transformed by human agency or time into symbolic element[s] of the inherited touchstones of memory of a community» (“The Mausoleum of Georgi Dimitrov as lieu de mémoire”, p. 380), ed è intuitivamente comprensibile come il caso di Belgrado rappresenti l’esatto contrario. Questo obelisco è infatti diventato inesorabilmente un luogo di “memoria dimenticata” subito prima e subito dopo le Guerre Jugoslave degli anni Novanta.
 
È tuttavia interessante osservare come il destino del “Parco dell’Amicizia” rappresenti invece un caso totalmente diverso dall’esempio precedente. Costruita su iniziativa dell’Associazione Ambientale Giovanile della Serbia e sotto la supervisione dell’architetto Milan Pališaški, l’area verde fu inaugurata nei primi giorni di settembre del 1961. Suddivisa in modo rigorosamente geometrico e circoscritta da dimensioni monumentali, il ruolo di tale area era puramente celebrativo e rappresentativo, in nome delle nuove alleanze fraterne nate grazie all’istituzione del NAM.
 
Ideato dunque per segnare l’istituzione ufficiale del Movimento dei Non Allineati, la centralità di questo parco fu in seguito costruita intorno alla cosiddetta “Strada/Viale della Pace”, circondata dai quei famosi 26 platani che furono piantati durante la prima Conferenza da tutte le nazioni partecipanti. Gli alberi rappresentavano infatti l’impegno internazionale per le politiche di pace e di coesistenza dinamica e questa tradizione di piantare un platano, considerata da allora un vero e proprio segno di amicizia, si è ripetuta costantemente nel corso degli anni, con addirittura il coinvolgimento di diverse figure importanti e di celebrità.
 
Questa tradizione si è mantenuta attivamente in vita anche dopo la disintegrazione della Jugoslavia negli anni Novanta e al momento attuale il gruppo rock britannico The Rolling Stones è stata l’ultima rappresentanza famosa a piantare un albero in questa città nel 2007, poco prima del loro concerto. Considerando tutto ciò, il “Parco dell’Amicizia” potrebbe essere chiaramente riconosciuto, allora, come un vero e proprio “milieux de mémoire” (che per lo più “indicates sites of living or lived memory” - “The Mausoleum of Georgi Dimitrov as lieu de mémoire”, p. 380) in quella prospettiva espressa da Pierre Nora.
 
Allo stesso tempo è tristemente importante osservare come recentemente sia apparso un nuovo elemento di contrasto. Il 12 giugno 2000 è stato inaugurato infatti nel parco un nuovo monumento: l’obelisco della “Fiamma eterna”, alto 27 metri. Ideato principalmente da Mirjana Marković, moglie dell’ex presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia Slobodan Milošević, questo monumento è stato eretto pubblicamente in memoria delle vittime militari e civili dei bombardamenti della NATO in Jugoslavia nel 1999. Nel progetto originale l’obelisco doveva essere alto 78 metri, per ricordare i 78 giorni di bombardamenti aerei avvenuti l’anno precedente e commemorare così questo tragico evento, ma nel corso del processo di costruzione furono riscontrate alcune difficoltà strutturali che hanno infine costretto gli architetti a rinunciare all’idea originale. Poco dopo l’apertura al pubblico era anche visibile un’iscrizione, posta sulla parete orientale del monumento, a lettere sovrapposte, che oggi sono state tutte rubate. Il testo recitava così: «Che questa fiamma arda eternamente come memoriale della guerra che i 19 Paesi del patto NATO - [...] - hanno condotto contro la Serbia dal 24 marzo al 10 giugno 1999. Che possa ardere in eterno come memoriale dell’eroica difesa della Serbia a cui ha partecipato l’intero popolo. Che possa bruciare in eterno per il mondo intero. Per essere libero, il mondo deve trovare in sé il coraggio e la forza con cui abbiamo combattuto e ci siamo difesi nella primavera e nell’estate del 1999. [Firmato] Il popolo serbo».
 
L’imposizione di questo nuovo monumento in quello che era il vecchio “Parco dell’Amicizia” e questa iscrizione apposta su di esso simboleggia dunque una chiara interferenza nazionalistica da parte dell’élite del governo serbo sul precedente concetto di commemorazione attribuito all’area. L’orgoglio in nome del “sacrificio della e per la nazione” sembra ora prevalere sui passati ideali di “pace” e “cooperazione internazionale”, anche se questo nuovo monumento non è particolarmente piaciuto al vasto pubblico serbo fin dalla sua apertura.
 
Quest’ultimo caso analizzato presenta allora un esempio significativo di appropriazione nazionalista indebita di un’esperienza collettiva precedentemente commemorata, con l’obiettivo finale di stravolgerne il significato originario, anche se fortunatamente la precedente solidarietà morale pubblica derivante da questa esperienza non ha tuttavia pienamente accettato questa strategia di appropriazione indebita. Infatti, come giustamente affermato da Lea David in “The Past Can’t Heal Us” (capitolo 7, “Mandating Memory, Mandating Conflicts”, p. 213), «moral remembrance captures the best and the worst of the humanity». Questo è il vero problema della memoria e della “memorializzazione”: la sua vulnerabilità di fronte all’appropriazione indebita.
 
Come viene ricordata allora questa prima Conferenza del NAM a livello governativo a Belgrado e nella Serbia di oggi?
 
Come già detto, l’11 e il 12 ottobre 2021 si è tenuto a Belgrado, sotto la supervisione del presidente serbo Vučić, il sessantesimo anniversario del primo vertice NAM. Sotto l’occhio attento di 120 Stati membri e 17 osservatori, contro i 25 Paesi originali partecipanti nel 1961, Belgrado è stata ripresentata, per ben due giorni, come il chiaro riflesso di quell’ideale faro del NAM di unificazione tra Occidente e Oriente.
 
La calorosa accoglienza di una città sormontata da garrenti bandiere internazionali ha stregato ancora una volta il pubblico globale, anche grazie al fatto che l’incontro si è svolto prevalentemente in loco, seguendo al meglio i nuovi regolamenti dettati in seguito alla pandemia del Covid-19. Le motivazioni di questa rinnovata scelta di Belgrado per ospitare l’evento sono state spiegate dal ministro degli Esteri serbo, Nikola Selakovic, come segue: «The occasion of the 60th anniversary of the founding of the Movement did not have a primarily political dimension, […] it was a way for everyone to show that they remember the 1961 Belgrade Conference with great care and pride».
 
Anche se le intenzioni del ricordo sembravano a prima vista nobili, un’altra dichiarazione è stata pronunciata in seguito da Selakovic: «Serbia, although its strategic goal is EU membership, does not renounce traditional friends […] they are not only Russia and China, but also members of the Non-Aligned Movement». È difficile non riconoscere dietro queste parole una chiara richiesta di aiuto nelle lotte per il riconoscimento internazionale di un Paese vessato sotto l’egida di una deriva nazionalistica.
 
Per avvalorare ulteriormente questa tesi, il Presidente della Serbia Vučić ha poi sottolineato l’importanza morale di ricordare e onorare sempre quanto discusso durante la prima Conferenza del NAM a Belgrado, sottolineando tuttavia il fatto che il mondo sia cambiato in modo significativo da quei giorni passati. In seguito a tali affermazioni il Presidente Vučić ha però deciso di gettare una ulteriore carta apparentemente “nazionalistica” sul tavolo da gioco di questo anniversario. Infatti, rivolgendosi ai Paesi partecipanti, ha pronunciato questa ambigua dichiarazione: «The most painful struggle is resolving the issue of Kosovo and Metohija and defending the country’s territorial integrity. Despite the challenges, Serbia is committed to compromise to preserve security in the region. Dialogue has no alternative and international support is key. Serbia is honored to play the role it played».
 
Questo sforzo dell’élite del governo serbo era pertanto visibilmente volto a ridurre il peso del caso sul Kosovo, mobilitando al contempo le nazioni di tutto il mondo a non riconoscere o ignorare la “presunta” indipendenza (dal punto di vista serbo almeno) dello stesso Kosovo, dimostrando che quando un qualsiasi tipo di contestazione appare nel dialogo di una “memorializzazione”, allora la politica è penetrata rovinosamente nella questione. Per di più, come affermato da Lea David in “The Past Can’t Heal Us” (capitolo 7, “Mandating Memory, Mandating Conflicts”, pp.188-189), «a society may prove its moral righteousness by publicly addressing the past», tuttavia «some nation-states [e dunque la loro linea politica] may put significant effort into concealing and obfuscating contested elements of the past».
 
Considerazioni conclusive
 
«Sono il leader di un Paese che ha due alfabeti, tre lingue, quattro religioni, cinque nazionalità, sei repubbliche, circondato da sette vicini, un Paese in cui vivono otto minoranze etniche». Questa citazione del maresciallo Tito può rappresentare la vera essenza della politica della memoria dal punto di vista dell’Europa sudorientale.
 
Potremmo pensare ai Balcani come a un calderone pieno di stufato fumante, ricco di sapori e ingredienti, mentre le politiche nazionali della memoria potrebbero incarnare il mestolo usato per riempire le ciotole. Uno stufato bollente sarebbe piuttosto inutile senza alcun mezzo fisico per attingervi e viceversa, ma alla fine è la mano che controlla il mestolo ad avere il vero potere. La mano potrebbe andare molto in profondità e riempire il mestolo fino alla sua massima capacità, oppure potrebbe immergerlo nello stufato solo superficialmente.
 
Allo stesso modo, andare troppo a fondo nel concetto balcanico di “memorializzazione” potrebbe giovare alla costruzione dell’identità sociale a livello pubblico, ma potrebbe anche andare contro le reali intenzioni degli attori mnemonici del governo. Questi ultimi sono infatti spesso inclini a fare un uso improprio del concetto di “memorializzazione” in nome dei propri scopi politici. È questa mancanza di dialogo tra attori e i mediatori culturali che sta causando un’emorragia inarrestabile nei cuori della politica della memoria dell’Europa sudorientale.
 
Se questa situazione non cambierà al più presto, la strada per un equilibrato sviluppo sociale della memoria tra questi Paesi sarà inevitabilmente tortuosa. L’attuale concetto di memoria nei Balcani è difficilmente comprensibile in una prospettiva unificante, ma non tutte le colpe sono da attribuire al passato. Lo stesso presente ha infatti le sue responsabilità, perché come disse Albert Einstein, «La memoria è ingannevole, perché è colorata dagli eventi di oggi».
 
 
Riferimenti bibliografici:
 
I. Ancic, “Belgrade, The 1961 Non-Aligned Conference”, in “Global South Studies”, University of Virginia, 17th August 2017
- Archivio storico Istituto Luce, “Jugoslavia - Conferenza dei paesi non allineati a Belgrado”, 8 settembre 1961
“Belgrade Parks - The Park of Friendship”, BLOG | RENTASTAN APARTMANI BEOGRAD
B92, “Belgrade marking 60 years of the Non-Aligned Movement; Vučić/ “Welcome home” VIDEO”, 11th October 2021
L. David, “The Past Can’t Heal Us”, chapter 7, “Mandating Memory, Mandating Conflicts”, 2020
V. Dulović, “First Non-Aligned Movement Summit Monument”, in “Nonument”
G. Fruscione, “C’era una volta il Movimento dei Non Allineati”, in “Eást Journal”, 11 ottobre 2021
D. Jovic, “Yugoslavia: A State that Withered Away”, 2009
M.G. Melchionni, “La conferenza dei Paesi non allineati a Belgrado”, in “Rivista di Studi Politici Internazionali”, Volume 28, n. 4, ottobre-dicembre 1961
A. Pećinar, “The revival of the Non-Aligned Movement in Serbia”, in “ECONOMY & POLITICS”, 7th November 2021
I. Pellicciari, “Tornano i Non Allineati. E la loro conferenza ci riguarda”, 10 ottobre 2021
M. Todorova, “The Mausoleum of Georgi Dimitrov as lieu de mémoire”, in “Contemporary Issues in Historical Perspective”, University of Illinois at Urbana-Champaign.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]