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N. 81 - Settembre 2014 (CXII)

La situazione geopolitica asiatica
SULLA repressione delle minoranze etniche nel Myanmar

di Alessandro Di Meo

 

Il Myanmar sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia, segnata da una dittatura militare che sta inasprendo sempre più le tensioni etniche all’interno del paese, con distruzioni e massacri ai danni delle varie popolazioni che vivono nel territorio dell’antica Birmania.

 

La liberazione di Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione democratica e le prime elezioni libere dopo vent’anni, tenute nel novembre 2010, hanno dato al paese il primo governo civile (anche se guidato da un ex generale) dal 1962, anno in cui l’esercito prese il potere con un colpo di stato.

 

 Negli ultimi anni la giunta militare, sottoposta alle sanzioni economiche dell’Unione Europea e degli Stati Uniti e criticata dai paesi membri dell’Asean (un’organizzazione comprendente vari paesi dell’Indocina e del Sud Est asiatico, con sede a Giacarta, che ha tra i suoi obbiettivi lo sviluppo economico, la stabilizzazione e la difesa della pace nell’area), ha dapprima riformato la Costituzione, boicottata dalle opposizioni, quindi ha spostato la capitale da Rangoon verso l’interno, nella città di Naypydaw, ufficialmente per proteggerla da possibili aggressioni militari esterne, spendendo miliardi di dollari per la costruzione di edifici sportivi di dimensioni olimpioniche e per la riproduzione in scala naturale di tutti gli edifici storici del Myanmar.

 

 Gli effetti delle sanzioni economiche cui il regime militare è sottoposto da parte dell’Ue e degli Stati Uniti sono limitate dal denaro proveniente dalle società d’investimento asiatiche, soprattutto cinesi e thailandesi, che sfruttano le risorse del Myanmar, come rame, oro, giada, rubini, legname, petrolio, gas; inoltre sono in corso di costruzione gasdotti per il trasporto di gas e petrolio dal Mare delle Andamane verso la Cina.

 

La scelta di spostare la capitale a Naypydaw era dettata anche dall’esigenza di proteggerla da possibili rivolte interne, ma qualche anno dopo l’aumento dei prezzi dei combustibili e dei prodotti alimentari ha causato le violente proteste guidate dai monaci tibetani, represse sanguinosamente dall’esercito, ma che hanno portato infine alle storiche elezioni del 2010.

 

La situazione in Myanmar è però resa esplosiva dalla repressione attuata dal regime ai danni delle minoranze etniche; la popolazione del paese è in maggioranza composta da birmani, mentre le minoranze, quasi tutte concentrate nei territori di confine, sono le etnie Karen, Shan, Mon, Chin, Kachin, Rohingya. Le minoranze si distinguono dal resto della popolazione birmana per la lingua o per la religione professata, come nel caso dei Rohingya, un’etnia a maggioranza musulmana.

 

Quando la Birmania diventò indipendente, nel 1948, scelse una forma federale con gli stati Shan (nella regione al confine con la Cina) e Karen nel meridione, ma fin dagli anni ’50 queste due etnie cercarono di separarsi dal resto del Myanmar, scatenando una guerriglia che rese instabile il paese, favorendo il golpe dei militari.

 

I Karen, popolazione a larga maggioranza animista con alcune minoranze buddiste e cristiane, chiesero l’indipendenza fin dalla prima conferenza di Panglong, nel 1946, ma la politica nazionalista condotta dal governo birmano all’indomani dell’indipendenza li spinse a combattere per l’indipendenza fin dal 1949 (lo scontro è tuttora in atto). Gli sfollati dagli anni ’60 a oggi nel solo territorio Karen sarebbero stati oltre un milione, in maggioranza emigrata in Thailandia; nel 2006 l’esercito birmano ha distrutto più di trecento villaggi, costringendo alla fuga migliaia di persone.

 

Il caso degli Shan è invece più intricato; questa popolazione vive nell’altopiano che collega il Myanmar con la Cina, una posizione che li ha costretti a combattere fin dal Cinquecento alternativamente contro i Birmani e contro i Cinesi.

 

I Birmani conquistarono gran parte del loro territorio (alcune regioni furono invece annesse alla regione cinse dello Yunnan), ma in cambio concessero una larga autonomia interna, revocata dagli Inglesi al termine della terza guerra anglo – birmana (1885).

 

Quando il Myanmar ottenne l’indipendenza, lo stato Shan non chiese l’indipendenza dal governo centrale, ma soltanto una larga autonomia interna che fu però respinta da Rangoon. Alle ribellioni degli Shan seguirono repressioni sanguinose da parte dell’esercito birmano, con conseguenti esodi di massa, soprattutto verso la Thailandia dove vivono nella condizione di immigrati clandestini.

 

 Un’altra popolazione che sta subendo violenze da parte dell’esercito birmano è quella dei Rohingya, un’etnia discendente da genti provenienti dal Bengala che nel Quattrocento fondarono il sultanato dell’Arakan; questa regione è oggi inaccessibile, perché l’esercito ha chiuso le frontiere agli osservatori esterni.

 

I Rohingya solitamente vengono arrestati e condannati ai lavori forzati, oppure subiscono la confisca dei beni, mentre l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono garantiti ma ad un prezzo maggiorato; oltre a essere oggetto di violenze da parte delle forze governative, sono anche discriminati dalla popolazione locale, che spesso scatena vere e proprie rappresaglie ai danni dei musulmani.

 

Anch’essi, come gli Shan e i Karen migrano verso il Bangladesh, dove vivono ammassati nei campi profughi in condizioni disumane, oppure compiono traversate in mare alla volta dell’Indonesia e o della Malaysia, anche se spesso vengono intercettati dalla marina birmana o da quella thailandese, che li respinge con metodi brutali in quanto li ritiene potenziali collaboratori dei guerriglieri musulmani che combattono contro i Thailandesi nelle regioni meridionali del paese. Qualche tempo fa, anche Aung San Suu Kyi aveva chiesto alla giunta militare di fermare le violenze e di instaurare lo stato di diritto in Arakan, ma il suo appello è rimasto inascoltato.

 

Le autorità birmane hanno approvato lo scorso anno una legge che non permette ai Rohingya di avere più di due figli; questa misura, valida nello stato di Rakhine, non è però applicabile alla popolazione buddista. Il Myanmar è così diventato il primo paese al mondo che impone un limite alle nascite in base alla confessione religiosa della popolazione.

 

Il viaggio compiuto da Aung San Suu Kyi in Europa negli ultimi mesi del 2013 ha contribuito a riportare l’attenzione dei media occidentali sulla situazione del Myanmar; durante il suo viaggio la leader birmana ha anche ricevuto numerose onorificenze, tra cui la cittadinanza onoraria di Roma e di Bologna, offerte durante la visita di stato in Italia.

 

I media occidentali, però, nel descrivere la situazione dei paesi più arretrati, si concentrano quasi esclusivamente sulla presenza o meno di una forma di governo democratica, tralasciando una visione più approfondita della realtà delle società analizzate.

 

Il Myanmar è un mosaico di popolazioni, spesso sconosciute, cosicché i conflitti che stanno dilaniando il paese non vengono resi noti al pubblico se non in minima forma, ma per comprendere bene gli avvenimenti che accadono nello stato asiatico se ne deve esaminare la complessa realtà sociale, per fornirne una conoscenza adeguata; è un paese ancora lontano dal potersi definire democratico, perché purtroppo ancora una volta gli interessi economici stanno prevalendo sui diritti umani.



 

 

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