attualità
LA BREVE VITA DELLA DEMOCRAZIA BIRMANA
CAOS IN Myanmar
di Gian Marco Boellisi
Per quanto questo 2021 sia appena
iniziato, ci sta fornendo non pochi
avvenimenti di grande importanza dal
punto di vista della politica
internazionale. Uno di questi è
sicuramente il recente colpo di stato
militare in Myanmar avvenuto
alle prime luci del 1° febbraio scorso.
Il golpe ha avuto luogo a valle di una
serie di tensioni politiche e sociali
all’interno del paese presenti sin dalle
scorse elezioni e riconducibili a
problematiche mai del tutto risolte
negli ultimi decenni. Per quanto questo
Paese possa sembrare lontano e distante
dal nostro quotidiano, le dinamiche
presenti in Birmania sono
essenziali sia per capire il contesto
del Sud-Est asiatico sia per comprendere
alcune dinamiche internazionali di ben
più ampio respiro.
Partiamo quindi dal contesto storico di
questa affascinante quanto antica
nazione. Posta in mezzo tra il gigante
indiano e quello cinese, la Birmania può
vantare una storia molto ricca e
avvincente. Caduta sotto il giogo
coloniale britannico come la maggior
parte dei paesi dell’area nel 1886, essa
se ne rese indipendente solamente nel
1948. Di lì a poco, ovvero nel 1962, il
Myanmar sarebbe caduto nelle mani di una
giunta militare, la quale avrebbe
governato da quel giorno in avanti le
sorti dell’intero Paese.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio
degli anni ’90 fece la sua prima
apparizione una figura cardine nella
storia recente birmana, ovvero Aung
San Suu Kyi. Storica attivista
contraria alla giunta militare al potere
nonché figlia del generale ed eroe
indipendentista Aung San, Aung
San Suu Kyi è sempre stata considerata
dalla comunità internazionale un faro di
speranza per la democratizzazione del
Paese.
Sin da tempi della Rivolta 8888
avvenuta nel 1988, anno in cui prese il
potere il generale Saw Maung,
ella ha sempre intrapreso un’intensa
funzione di opposizione pacifista nei
confronti dell’operato dei militari. Fu
proprio in quest’anno che Aung San Suu
Kyi fondò il partito Lega Nazionale
per la Democrazia (NLD),
candidandosi alle elezioni del 1990. Il
partito, ispirato ai principi propri
della filosofia politica di Gandhi e a
un’opposizione non violenta, ottenne un
ottimo risultato alle elezioni, sebbene
questo non si tramutò in nulla di
pratico visto che i risultati non
vennero riconosciuti dalla giunta al
potere.
Insignita con il Nobel per la Pace nel
1991, Aung San Suu Kyi iniziò a
diventare una figura scomoda all’interno
delle dinamiche politiche birmane
dell’epoca. Tanto più il suo attivismo e
le sue parole suscitavano ammirazione e
sostegno da parte della comunità
internazionale, tanto più la giunta la
vedeva come una crescente minaccia per
la propria esistenza. Proprio per questo
motivo fu sottoposta ad arresti
domiciliari alternati per un periodo
complessivo di 15 anni, ottenendo la
piena libertà solamente nel 2010.
Da quel momento in avanti le sue
attività politiche aumentarono
nuovamente, anche in virtù della
parziale apertura democratica che subì
il Myanmar nel 2011. Tra le libertà
concesse dalla giunta vi fu infatti la
possibilità di organizzare elezioni
parlamentari, cosa che il Nobel per la
Pace birmano sfruttò pienamente. Alle
elezioni del 2015 il partito NLD ottenne
la maggioranza dei seggi in parlamento.
Da qui coprì svariati Ministeri nel
nuovo Governo per poi giungere alla
carica di Consigliere di Stato, ovvero
una sorta di presidente de facto
ma non de iure del paese.
Da allora sono passati 5 anni e, tra
altalenanti tensioni con la giunta
militare, il governo dell’NLD è arrivato
alle elezioni dello scorso 8 novembre
2020. Qui il partito di Aung San Suu Kyi
ha ottenuto una vittoria ancora più
schiacciante rispetto a 5 anni prima,
arrivando a prendere 920 seggi su 1.170.
Ovviamente questi risultati non sono
piaciuti alla giunta, la quale ha
contestato la legittimità delle elezioni
sin dalle prime ore di scrutinio e ha
reiterato accuse di brogli in tutto il
Paese. Le tensioni tra governo e
militari sono andate avanti per alcuni
mesi fino ad arrivare al 1 febbraio
2021. Proprio in questa data ha avuto
luogo il colpo di stato militare che ha
dato il potere in mano ai militari a
scapito del Governo eletto in novembre,
data tra l’altro che era stata designata
inizialmente per l’insediamento del
nuovo esecutivo.
A seguito delle azioni dei generali,
sono stati arrestati Aung San Suu Kyi in
qualità di Consigliere di Stato uscente
così come diversi esponenti e attivisti
politici nonché critici delle forze
armate. La presidenza è stata affidata
al generale Myint Swe, il quale
ha imposto lo stato di emergenza per la
durata di un anno al termine del quale
saranno indette libere elezioni. Nel
frattempo tutti i poteri sono stati
trasferiti al generale Min Aung
Hlaing, ovvero il capo delle forze
armate.
Nonostante questo sembri un colpo di
stato da manuale e la distinzione tra
buoni e cattivi sembri netta, è doveroso
analizzare alcuni retroscena sia sulle
leggi vigenti in Myanmar sia sulla
figura della stessa Aung San Suu Kyi, la
cui amministrazione e politica non è
certo priva di ombre.
In primis è importante sottolineare che,
nonostante l’apertura democratica del
2011 da parte del regime, i militari non
hanno mai abbandonato il potere
completamente. Infatti, in base alla
costituzione del 2008, il 25% dei seggi
in parlamento spetta di diritto al
Partito dell’Unione della Solidarietà e
dello Sviluppo (USP), ovvero il partito
vicino alla giunta militare. Questa
inoltre ha in suo possesso i Ministeri
più significativi, ovvero Difesa,
Interni e Controllo delle Frontiere.
Come se ciò non bastasse, i militari al
comando hanno anche potere assoluto
sugli investimenti esteri così come
beneficiano di ampie libertà politiche.
Quindi un cambiamento politico radicale
in Myanmar potrà essere fatto solo se
tale Carta Costituzionale verrà rivista,
cosa che richiede una maggioranza non
raggiungibile al momento vista la
composizione del Parlamento.
Nell’effettuare il colpo di stato,
l’esercito ha usato come base
legislativa la sezione 417 della
Costituzione, la quale permette alle
forze armate di prendere il controllo
del Paese per indagare su presunte
irregolarità elettorali. Irregolarità
che di fatto ci sono state.
Infatti già mesi prima delle elezioni
fece molto discutere la decisione del
Governo dell’NLD di cancellare il voto
in alcune aree geografiche, dove a detta
del Governo si sarebbero potute
registrare scontri tra le forze armate e
alcuni gruppi etnici con organizzazione
paramilitare. Ciò ha portato ad esempio
alla privazione del voto per più di un
milione di persone nello Stato del
Rakhine, così come anche in ampie
zone degli Stati Shan e Kachin.
Sebbene sia indubbio che il movimento
politico di Aung San Suu Kyi abbia
raggiunto una notorietà e un consenso
popolare tale dall’aver ottenuto
comunque una vittoria alle elezioni di
novembre, è risultato allo stesso modo
sospetto un simile atteggiamento, anche
ai più democratici sostenitori esteri
del Premio Nobel.
D’altro canto vi è anche il parziale
ridimensionamento subito dalla figura
stessa di Aung San Suu Kyi causato dalla
vicenda dell’etnia Rohingya. I
Rohingya sono una minoranza
musulmana risiedente in Myanmar sin da
metà del 1400 circa, su cui si sono
riversate ripetutamente le violenze e le
discriminazioni da parte delle autorità
centrali. La giunta militare infatti ha
sempre sostenuto l’identità religiosa
buddhista del paese, anche a scapito
delle diverse minoranze presenti entro i
propri confini.
Secondo alcune stime, dagli anni ’70 a
oggi circa 2 milioni e mezzo di Rohingya
sono stati costretti ad abbandonare il
paese. Oltre alla fuga forzata,
funzionari delle Nazioni Unite hanno
riportato che le forze armate abbiano
messo in atto un vero e proprio
genocidio ai danni dei Rohingya, con
ripetuti episodi di pulizia etnica
e incendi di massa di villaggi.
Vista la gravità della vicenda, è stata
aperta un’inchiesta da parte del Gambia
nei confronti del Myanmar alla Corte
Penale Internazionale dell’Aja con
l’accusa di genocidio da parte delle
forze armate birmane e del relativo
Governo verso l’etnia Rohingya. È
importante sottolineare che, per quanto
le violenze abbiano avuto origine
diversi decenni fa, anche sotto il
governo di Aung San Suu Kyi i Rohingya
hanno continuato a essere
arbitrariamente perseguitati, nonché
privati della cittadinanza, del diritto
di voto e di qualsivoglia altro diritto
basilare.
La Corte si è espressa il 23 gennaio del
2020 sulla questione, affermando che lo
Stato del Myanmar deve fare tutto ciò
che è in suo potere per fermare le
atrocità contro i Rohingya e garantirne
il rispetto dei diritti umani anche a
fronte della Convenzione sul Genocidio
del 1948. Aung San Suu Kyi stessa è
stata chiamata a testimoniare di fronte
alla Corte Penale e proprio qui, a
dispetto di quanto la comunità
internazionale riteneva, ha tenacemente
difeso a spada tratta l’operato del
proprio paese e del suo governo,
descrivendo quanto citato nell’inchiesta
come un “quadro fuorviante e incompleto”
e asserendo che le accuse mosse al suo
Paese fossero inconsistenti. Tali
affermazioni hanno subito destato
sconcerto e stupore tra le fila anche
dei suoi sostenitori di lungo corso,
tanto da domandarsi se l’idolo tanto
osannato della democrazia birmana non
sia stato altro che solo un altro grande
falso.
Al netto di queste considerazioni, si
può comprendere come il Myanmar presenti
delle dinamiche molto complesse al suo
interno e di come sia estremamente
difficile estrapolare dal proprio
contesto avvenimenti e fatti inerenti a
una realtà tanto particolare quanto
contraddittoria. Nonostante ciò, il
colpo di stato non è stato un qualcosa
che fosse prevedibile, né dalla comunità
internazionale né tanto meno dalla
popolazione locale. A prova di ciò,
nelle settimane immediatamente
successive si sono susseguite una serie
di proteste pacifiche contro il golpe in
tutto il paese. Un esempio sono stati
medici e operatori sanitari hanno dato
il via a una protesta di disobbedienza
civile nei rispettivi luoghi di lavoro.
Nonostante ciò, il nuovo governo
militare ha cercato di sabotare la
coesione della società civile, bloccando
linee telefoniche, trasmissioni tv e
spegnendo i social nel paese.
La popolazione in Myanmar ancora oggi
sta reagendo in maniera molto diversa e
disuniforme. Infatti è importante
ricordare che lo stato del Sud-Est
asiatico non è formato da un unico
popolo, ma da un insieme molto variegato
di etnie e popoli, in alcuni casi anche
molto diversi tra loro. Ed è proprio
questo uno dei fattori che preoccupa
maggiormente gli osservatori
internazionali. Molti di questi gruppi
etnici hanno un’organizzazione
indipendente dallo stato centrale, e in
alcuni casi essi sono la base di vere e
proprie organizzazioni paramilitari.
Per molte di queste etnie il colpo di
stato militare non è la strada che il
Myanmar deve intraprendere, motivo per
il quale non si sa bene come reagiranno
nelle prossime settimane. Infatti tutti
questi gruppi hanno contribuito negli
ultimi anni, insieme al governo di Aung
San Suu Kyi, al processo di pace in
Myanmar e ancora più in generale alla
creazione di una Federazione Birmana,
progetto a lungo sognato ma finora
ancora non realizzato. Il primo passo di
questa lunga trattativa era stato
ottenuto con l’adesione di tutte le
parti al Nationwide Ceasefire
Agreement (NCA), il quale aveva
praticamente interrotto le ostilità in
tutto il Myanmar.
È infatti importante sottolineare come
da sempre in Myanmar siano presenti
molti gruppi autonomisti che hanno in
diverse occasioni acceso una vera e
propria lotta armata contro l’autorità
centrale da cui ottenerne
l’indipendenza. Grazie a questo lungo
processo di pace le divergenze erano
state parzialmente appianate, mentre ora
il destino del progetto federale
ritornerà incerto.
Qualora questo fragile equilibrio
dovesse rompersi a causa della mancanza
di tatto dei militari nel gestire le
controparti etniche presenti nel paese,
si potrebbe riassistere a un
riaccendersi generale delle spinte
secessioniste, le quali non solo
causerebbero enormi danni al Myanmar, ma
minerebbero anche la stabilità regionale
coinvolgendo etnie e popolazioni degli
Stati confinanti. Tuttavia alcuni
analisti non credono che si arriverà a
tanto necessariamente. Infatti i
militari potrebbero giocare d’astuzia e
agire d’anticipo. Al posto di escludere
i gruppi etnici dalla vita politica del
paese, essi potrebbero sfruttarne il
malcontento.
Il sistema elettorale maggioritario
infatti non permetteva alle piccole
formazioni di entrare in parlamento,
mentre con una nuova legge elettorale
proporzionale molti dei gruppi
minoritari esclusi in passato potrebbero
tornare a essere rappresentati. Vista
infatti l’avversità del NLD di Aung San
Suu Kyi a questo tipo di riforma, la
giunta militare potrebbe in un colpo
solo eliminare la maggior fonte di
instabilità interna a seguito del golpe
e garantirsi la sopravvivenza nei mesi a
venire.
Dal punto di vista del contesto
internazionale, le reazioni al colpo di
stato non si sono fatte di certo
attendere. Europa e Stati Uniti si sono
subito schierati contro la giunta
militare, condannando aspramente le
azioni dei golpisti e chiedendo la
liberazione immediata dei prigionieri
politici arrestati. Dall’altro lato
invece vi sono Cina e Russia, le quali
definiscono le dinamiche in Myanmar come
“sviluppi interni al paese” e si dicono
pronte a osservare e monitorare la
situazione con attenzione per il bene
del Myanmar stesso. Il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato
di emettere una posizione comune di
condanna al colpo di stato. Tuttavia
anche qui Russia e Cina, che godono di
diritto di veto, insieme a India e
Vietnam hanno impedito che questo
accadesse.
In questo particolare contesto, la Cina
merita un’analisi a parte. Oltre a
essere il secondo investitore straniero
dopo Singapore, Pechino è sempre stata a
favore della giunta militare al potere.
Sebbene vi sia stato un parziale
allontanamento dalla Cina quando il
Paese ha aperto alla democrazia, i
rapporti tra i due paesi sono sempre
stati molto forti. In questo momento
Pechino ha quindi tutto l’interesse a
mantenere lo status quo in
Myanmar.
Il Global Times, che sarebbe la versione
inglese del Quotidiano del Popolo, ha
definito i fatti del Myanmar come “un
profondo rimpasto di governo”.
Dall’altro lato vi è invece l’Occidente,
e in particolare gli Stati Uniti, il
quale ha paura di perdere un potenziale
alleato prezioso come il Myanmar, specie
in virtù della sua posizione confinante
con la Cina. Un riavvicinamento a
Pechino quindi sarebbe quello si
definisce in gergo come il “worst case
scenario”.
Proprio pochi giorni prima del golpe il
Ministro degli Esteri cinese Wang Yi
aveva incontrato le più alte cariche
dello stato birmano: l’ex-presidente Win
Myint, Aung San Suu Kyi e anche il capo
dell’esercito, anche se separatamente.
Ciò non vuole dire probabilmente nulla
rispetto al colpo di stato, tuttavia è
sicuramente un indice importante
dell’interesse di Pechino verso il
proprio vicino. Vista l’importanza
economica indiscussa che il Myanmar
ricopre negli schemi regionali di
Pechino, avere un regime militare al
potere rende il controllo dell’area
sicuramente più facile.
A dimostrazione di ciò, Pechino ha
ideato il China Myanmar Economic
Corridor (Cmec), ovvero un progetto
infrastrutturale che rientra nel più
ampio piano della Nuova Via della Seta
per collegare la provincia cinese dello
Yunan con la Baia del Bengala. Questo
corridoio ha due scopi principali. Il
primo è quello di importare il petrolio
cinese tramite questo passaggio,
riducendo così sensibilmente il transito
del greggio dallo Stretto di Malacca, il
quale è ancora oggi una potenziale
debolezza delle forniture energetiche
della Cina, specie contro una Marina
sviluppata e avanzata come quella
statunitense. Il secondo obiettivo
invece è quello di isolare e circondare
l’India, escludendola dai commerci
sempre più frequenti dell’area.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti,
essi hanno paventato l’applicazione di
sanzioni economiche alla nuova giunta
militare. Per quanto questa possa
sembrare la classica mossa all’indomani
di un colpo di stato, eventuali sanzioni
potrebbero non far altro che spostare
ancora maggiormente il Myanmar nel caldo
abbraccio di Pechino.
All’interno della questione pesa molto
anche il rinnovamento del QUAD, ovvero
l’alleanza navale tra Stati Uniti,
India, Giappone e Australia, costruita
sulla carta per la salvaguardia del
Pacifico ma de-facto un’alleanza
anti-cinese tra le maggiori potenze
navali della zona. Questa infatti
potrebbe essere stata la ragione per cui
Pechino, avendo bisogno di una rotta
navale alternativa per le proprie
risorse energetiche, avrebbe alimentato
le paranoie dei militari birmani
spingendoli a effettuare il colpo di
stato e quindi a far tornare la nazione
confinante all’ovile.
In conclusione, il recente colpo di
stato in Myanmar risulta essere un
grande passo indietro per la democrazia
birmana, specialmente alla luce di un
così arduo percorso fatto negli ultimi
decenni. Nonostante la gravità di queste
azioni da parte dei militari, il governo
degli ultimi 5 anni di Aung San Suu Kyi
ha perso molto la faccia a causa della
vicenda dei Rohingya, motivo per cui non
gode più del supporto internazionale di
appena 10 anni fa.
Tuttavia l’ex Consigliere di Stato
potrebbe riacquisire di nuovo credito
internazionale, quasi per magia, alla
luce della mancanza totale di
alternative per contrastare dall’interno
la giunta militare reinstauratasi al
potere.
Nondimeno vi è da considerare che la
Cina abbia finalmente rimesso mani sul
Myanmar, quindi è molto difficile che
lasci la presa dopo tanto duro lavoro,
specie in virtù della competizione
internazionale con gli Stati Uniti che,
nell’era della ripresa dal Covid-19,
entrerà nel suo vivo e necessiterà di
ogni asset e alleanza disponibile
per poter raggiungere la tanto agognata
supremazia internazionale. |