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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 158 / FEBBRAIO 2021 (CLXXXIX)


attualità

LA BREVE VITA DELLA DEMOCRAZIA BIRMANA

CAOS IN Myanmar

di Gian Marco Boellisi

 

Per quanto questo 2021 sia appena iniziato, ci sta fornendo non pochi avvenimenti di grande importanza dal punto di vista della politica internazionale. Uno di questi è sicuramente il recente colpo di stato militare in Myanmar avvenuto alle prime luci del 1° febbraio scorso.

 

Il golpe ha avuto luogo a valle di una serie di tensioni politiche e sociali all’interno del paese presenti sin dalle scorse elezioni e riconducibili a problematiche mai del tutto risolte negli ultimi decenni. Per quanto questo Paese possa sembrare lontano e distante dal nostro quotidiano, le dinamiche presenti in Birmania sono essenziali sia per capire il contesto del Sud-Est asiatico sia per comprendere alcune dinamiche internazionali di ben più ampio respiro.

 

Partiamo quindi dal contesto storico di questa affascinante quanto antica nazione. Posta in mezzo tra il gigante indiano e quello cinese, la Birmania può vantare una storia molto ricca e avvincente. Caduta sotto il giogo coloniale britannico come la maggior parte dei paesi dell’area nel 1886, essa se ne rese indipendente solamente nel 1948. Di lì a poco, ovvero nel 1962, il Myanmar sarebbe caduto nelle mani di una giunta militare, la quale avrebbe governato da quel giorno in avanti le sorti dell’intero Paese.

 

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 fece la sua prima apparizione una figura cardine nella storia recente birmana, ovvero Aung San Suu Kyi. Storica attivista contraria alla giunta militare al potere nonché figlia del generale ed eroe indipendentista Aung San, Aung San Suu Kyi è sempre stata considerata dalla comunità internazionale un faro di speranza per la democratizzazione del Paese.

 

Sin da tempi della Rivolta 8888 avvenuta nel 1988, anno in cui prese il potere il generale Saw Maung, ella ha sempre intrapreso un’intensa funzione di opposizione pacifista nei confronti dell’operato dei militari. Fu proprio in quest’anno che Aung San Suu Kyi fondò il partito Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), candidandosi alle elezioni del 1990. Il partito, ispirato ai principi propri della filosofia politica di Gandhi e a un’opposizione non violenta, ottenne un ottimo risultato alle elezioni, sebbene questo non si tramutò in nulla di pratico visto che i risultati non vennero riconosciuti dalla giunta al potere.

 

Insignita con il Nobel per la Pace nel 1991, Aung San Suu Kyi iniziò a diventare una figura scomoda all’interno delle dinamiche politiche birmane dell’epoca. Tanto più il suo attivismo e le sue parole suscitavano ammirazione e sostegno da parte della comunità internazionale, tanto più la giunta la vedeva come una crescente minaccia per la propria esistenza. Proprio per questo motivo fu sottoposta ad arresti domiciliari alternati per un periodo complessivo di 15 anni, ottenendo la piena libertà solamente nel 2010.

 

Da quel momento in avanti le sue attività politiche aumentarono nuovamente, anche in virtù della parziale apertura democratica che subì il Myanmar nel 2011. Tra le libertà concesse dalla giunta vi fu infatti la possibilità di organizzare elezioni parlamentari, cosa che il Nobel per la Pace birmano sfruttò pienamente. Alle elezioni del 2015 il partito NLD ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento. Da qui coprì svariati Ministeri nel nuovo Governo per poi giungere alla carica di Consigliere di Stato, ovvero una sorta di presidente de facto ma non de iure del paese.

 

Da allora sono passati 5 anni e, tra altalenanti tensioni con la giunta militare, il governo dell’NLD è arrivato alle elezioni dello scorso 8 novembre 2020. Qui il partito di Aung San Suu Kyi ha ottenuto una vittoria ancora più schiacciante rispetto a 5 anni prima, arrivando a prendere 920 seggi su 1.170.

 

Ovviamente questi risultati non sono piaciuti alla giunta, la quale ha contestato la legittimità delle elezioni sin dalle prime ore di scrutinio e ha reiterato accuse di brogli in tutto il Paese. Le tensioni tra governo e militari sono andate avanti per alcuni mesi fino ad arrivare al 1 febbraio 2021. Proprio in questa data ha avuto luogo il colpo di stato militare che ha dato il potere in mano ai militari a scapito del Governo eletto in novembre, data tra l’altro che era stata designata inizialmente per l’insediamento del nuovo esecutivo.

 

A seguito delle azioni dei generali, sono stati arrestati Aung San Suu Kyi in qualità di Consigliere di Stato uscente così come diversi esponenti e attivisti politici nonché critici delle forze armate. La presidenza è stata affidata al generale Myint Swe, il quale ha imposto lo stato di emergenza per la durata di un anno al termine del quale saranno indette libere elezioni. Nel frattempo tutti i poteri sono stati trasferiti al generale Min Aung Hlaing, ovvero il capo delle forze armate.

 

Nonostante questo sembri un colpo di stato da manuale e la distinzione tra buoni e cattivi sembri netta, è doveroso analizzare alcuni retroscena sia sulle leggi vigenti in Myanmar sia sulla figura della stessa Aung San Suu Kyi, la cui amministrazione e politica non è certo priva di ombre.

 

In primis è importante sottolineare che, nonostante l’apertura democratica del 2011 da parte del regime, i militari non hanno mai abbandonato il potere completamente. Infatti, in base alla costituzione del 2008, il 25% dei seggi in parlamento spetta di diritto al Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo (USP), ovvero il partito vicino alla giunta militare. Questa inoltre ha in suo possesso i Ministeri più significativi, ovvero Difesa, Interni e Controllo delle Frontiere. Come se ciò non bastasse, i militari al comando hanno anche potere assoluto sugli investimenti esteri così come beneficiano di ampie libertà politiche. Quindi un cambiamento politico radicale in Myanmar potrà essere fatto solo se tale Carta Costituzionale verrà rivista, cosa che richiede una maggioranza non raggiungibile al momento vista la composizione del Parlamento.

 

Nell’effettuare il colpo di stato, l’esercito ha usato come base legislativa la sezione 417 della Costituzione, la quale permette alle forze armate di prendere il controllo del Paese per indagare su presunte irregolarità elettorali. Irregolarità che di fatto ci sono state.

 

Infatti già mesi prima delle elezioni fece molto discutere la decisione del Governo dell’NLD di cancellare il voto in alcune aree geografiche, dove a detta del Governo si sarebbero potute registrare scontri tra le forze armate e alcuni gruppi etnici con organizzazione paramilitare. Ciò ha portato ad esempio alla privazione del voto per più di un milione di persone nello Stato del Rakhine, così come anche in ampie zone degli Stati Shan e Kachin.

 

Sebbene sia indubbio che il movimento politico di Aung San Suu Kyi abbia raggiunto una notorietà e un consenso popolare tale dall’aver ottenuto comunque una vittoria alle elezioni di novembre, è risultato allo stesso modo sospetto un simile atteggiamento, anche ai più democratici sostenitori esteri del Premio Nobel.

 

D’altro canto vi è anche il parziale ridimensionamento subito dalla figura stessa di Aung San Suu Kyi causato dalla vicenda dell’etnia Rohingya. I Rohingya sono una minoranza musulmana risiedente in Myanmar sin da metà del 1400 circa, su cui si sono riversate ripetutamente le violenze e le discriminazioni da parte delle autorità centrali. La giunta militare infatti ha sempre sostenuto l’identità religiosa buddhista del paese, anche a scapito delle diverse minoranze presenti entro i propri confini.

 

Secondo alcune stime, dagli anni ’70 a oggi circa 2 milioni e mezzo di Rohingya sono stati costretti ad abbandonare il paese. Oltre alla fuga forzata, funzionari delle Nazioni Unite hanno riportato che le forze armate abbiano messo in atto un vero e proprio genocidio ai danni dei Rohingya, con ripetuti episodi di pulizia etnica e incendi di massa di villaggi.

 

Vista la gravità della vicenda, è stata aperta un’inchiesta da parte del Gambia nei confronti del Myanmar alla Corte Penale Internazionale dell’Aja con l’accusa di genocidio da parte delle forze armate birmane e del relativo Governo verso l’etnia Rohingya. È importante sottolineare che, per quanto le violenze abbiano avuto origine diversi decenni fa, anche sotto il governo di Aung San Suu Kyi i Rohingya hanno continuato a essere arbitrariamente perseguitati, nonché privati della cittadinanza, del diritto di voto e di qualsivoglia altro diritto basilare.

 

La Corte si è espressa il 23 gennaio del 2020 sulla questione, affermando che lo Stato del Myanmar deve fare tutto ciò che è in suo potere per fermare le atrocità contro i Rohingya e garantirne il rispetto dei diritti umani anche a fronte della Convenzione sul Genocidio del 1948. Aung San Suu Kyi stessa è stata chiamata a testimoniare di fronte alla Corte Penale e proprio qui, a dispetto di quanto la comunità internazionale riteneva, ha tenacemente difeso a spada tratta l’operato del proprio paese e del suo governo, descrivendo quanto citato nell’inchiesta come un “quadro fuorviante e incompleto” e asserendo che le accuse mosse al suo Paese fossero inconsistenti. Tali affermazioni hanno subito destato sconcerto e stupore tra le fila anche dei suoi sostenitori di lungo corso, tanto da domandarsi se l’idolo tanto osannato della democrazia birmana non sia stato altro che solo un altro grande falso.

 

Al netto di queste considerazioni, si può comprendere come il Myanmar presenti delle dinamiche molto complesse al suo interno e di come sia estremamente difficile estrapolare dal proprio contesto avvenimenti e fatti inerenti a una realtà tanto particolare quanto contraddittoria. Nonostante ciò, il colpo di stato non è stato un qualcosa che fosse prevedibile, né dalla comunità internazionale né tanto meno dalla popolazione locale. A prova di ciò, nelle settimane immediatamente successive si sono susseguite una serie di proteste pacifiche contro il golpe in tutto il paese. Un esempio sono stati medici e operatori sanitari hanno dato il via a una protesta di disobbedienza civile nei rispettivi luoghi di lavoro. Nonostante ciò, il nuovo governo militare ha cercato di sabotare la coesione della società civile, bloccando linee telefoniche, trasmissioni tv e spegnendo i social nel paese.

 

La popolazione in Myanmar ancora oggi sta reagendo in maniera molto diversa e disuniforme. Infatti è importante ricordare che lo stato del Sud-Est asiatico non è formato da un unico popolo, ma da un insieme molto variegato di etnie e popoli, in alcuni casi anche molto diversi tra loro. Ed è proprio questo uno dei fattori che preoccupa maggiormente gli osservatori internazionali. Molti di questi gruppi etnici hanno un’organizzazione indipendente dallo stato centrale, e in alcuni casi essi sono la base di vere e proprie organizzazioni paramilitari.

 

Per molte di queste etnie il colpo di stato militare non è la strada che il Myanmar deve intraprendere, motivo per il quale non si sa bene come reagiranno nelle prossime settimane. Infatti tutti questi gruppi hanno contribuito negli ultimi anni, insieme al governo di Aung San Suu Kyi, al processo di pace in Myanmar e ancora più in generale alla creazione di una Federazione Birmana, progetto a lungo sognato ma finora ancora non realizzato. Il primo passo di questa lunga trattativa era stato ottenuto con l’adesione di tutte le parti al Nationwide Ceasefire Agreement (NCA), il quale aveva praticamente interrotto le ostilità in tutto il Myanmar.

 

È infatti importante sottolineare come da sempre in Myanmar siano presenti molti gruppi autonomisti che hanno in diverse occasioni acceso una vera e propria lotta armata contro l’autorità centrale da cui ottenerne l’indipendenza. Grazie a questo lungo processo di pace le divergenze erano state parzialmente appianate, mentre ora il destino del progetto federale ritornerà incerto.

 

Qualora questo fragile equilibrio dovesse rompersi a causa della mancanza di tatto dei militari nel gestire le controparti etniche presenti nel paese, si potrebbe riassistere a un riaccendersi generale delle spinte secessioniste, le quali non solo causerebbero enormi danni al Myanmar, ma minerebbero anche la stabilità regionale coinvolgendo etnie e popolazioni degli Stati confinanti. Tuttavia alcuni analisti non credono che si arriverà a tanto necessariamente. Infatti i militari potrebbero giocare d’astuzia e agire d’anticipo. Al posto di escludere i gruppi etnici dalla vita politica del paese, essi potrebbero sfruttarne il malcontento.

 

Il sistema elettorale maggioritario infatti non permetteva alle piccole formazioni di entrare in parlamento, mentre con una nuova legge elettorale proporzionale molti dei gruppi minoritari esclusi in passato potrebbero tornare a essere rappresentati. Vista infatti l’avversità del NLD di Aung San Suu Kyi a questo tipo di riforma, la giunta militare potrebbe in un colpo solo eliminare la maggior fonte di instabilità interna a seguito del golpe e garantirsi la sopravvivenza nei mesi a venire.

 

Dal punto di vista del contesto internazionale, le reazioni al colpo di stato non si sono fatte di certo attendere. Europa e Stati Uniti si sono subito schierati contro la giunta militare, condannando aspramente le azioni dei golpisti e chiedendo la liberazione immediata dei prigionieri politici arrestati. Dall’altro lato invece vi sono Cina e Russia, le quali definiscono le dinamiche in Myanmar come “sviluppi interni al paese” e si dicono pronte a osservare e monitorare la situazione con attenzione per il bene del Myanmar stesso. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato di emettere una posizione comune di condanna al colpo di stato. Tuttavia anche qui Russia e Cina, che godono di diritto di veto, insieme a India e Vietnam hanno impedito che questo accadesse.

 

In questo particolare contesto, la Cina merita un’analisi a parte. Oltre a essere il secondo investitore straniero dopo Singapore, Pechino è sempre stata a favore della giunta militare al potere. Sebbene vi sia stato un parziale allontanamento dalla Cina quando il Paese ha aperto alla democrazia, i rapporti tra i due paesi sono sempre stati molto forti. In questo momento Pechino ha quindi tutto l’interesse a mantenere lo status quo in Myanmar.

 

Il Global Times, che sarebbe la versione inglese del Quotidiano del Popolo, ha definito i fatti del Myanmar come “un profondo rimpasto di governo”. Dall’altro lato vi è invece l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, il quale ha paura di perdere un potenziale alleato prezioso come il Myanmar, specie in virtù della sua posizione confinante con la Cina. Un riavvicinamento a Pechino quindi sarebbe quello si definisce in gergo come il “worst case scenario”.

 

Proprio pochi giorni prima del golpe il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva incontrato le più alte cariche dello stato birmano: l’ex-presidente Win Myint, Aung San Suu Kyi e anche il capo dell’esercito, anche se separatamente. Ciò non vuole dire probabilmente nulla rispetto al colpo di stato, tuttavia è sicuramente un indice importante dell’interesse di Pechino verso il proprio vicino. Vista l’importanza economica indiscussa che il Myanmar ricopre negli schemi regionali di Pechino, avere un regime militare al potere rende il controllo dell’area sicuramente più facile.

 

A dimostrazione di ciò, Pechino ha ideato il China Myanmar Economic Corridor (Cmec), ovvero un progetto infrastrutturale che rientra nel più ampio piano della Nuova Via della Seta per collegare la provincia cinese dello Yunan con la Baia del Bengala. Questo corridoio ha due scopi principali. Il primo è quello di importare il petrolio cinese tramite questo passaggio, riducendo così sensibilmente il transito del greggio dallo Stretto di Malacca, il quale è ancora oggi una potenziale debolezza delle forniture energetiche della Cina, specie contro una Marina sviluppata e avanzata come quella statunitense. Il secondo obiettivo invece è quello di isolare e circondare l’India, escludendola dai commerci sempre più frequenti dell’area.

 

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, essi hanno paventato l’applicazione di sanzioni economiche alla nuova giunta militare. Per quanto questa possa sembrare la classica mossa all’indomani di un colpo di stato, eventuali sanzioni potrebbero non far altro che spostare ancora maggiormente il Myanmar nel caldo abbraccio di Pechino.

 

 All’interno della questione pesa molto anche il rinnovamento del QUAD, ovvero l’alleanza navale tra Stati Uniti, India, Giappone e Australia, costruita sulla carta per la salvaguardia del Pacifico ma de-facto un’alleanza anti-cinese tra le maggiori potenze navali della zona. Questa infatti potrebbe essere stata la ragione per cui Pechino, avendo bisogno di una rotta navale alternativa per le proprie risorse energetiche, avrebbe alimentato le paranoie dei militari birmani spingendoli a effettuare il colpo di stato e quindi a far tornare la nazione confinante all’ovile.

 

In conclusione, il recente colpo di stato in Myanmar risulta essere un grande passo indietro per la democrazia birmana, specialmente alla luce di un così arduo percorso fatto negli ultimi decenni. Nonostante la gravità di queste azioni da parte dei militari, il governo degli ultimi 5 anni di Aung San Suu Kyi ha perso molto la faccia a causa della vicenda dei Rohingya, motivo per cui non gode più del supporto internazionale di appena 10 anni fa.

 

Tuttavia l’ex Consigliere di Stato potrebbe riacquisire di nuovo credito internazionale, quasi per magia, alla luce della mancanza totale di alternative per contrastare dall’interno la giunta militare reinstauratasi al potere.

 

Nondimeno vi è da considerare che la Cina abbia finalmente rimesso mani sul Myanmar, quindi è molto difficile che lasci la presa dopo tanto duro lavoro, specie in virtù della competizione internazionale con gli Stati Uniti che, nell’era della ripresa dal Covid-19, entrerà nel suo vivo e necessiterà di ogni asset e alleanza disponibile per poter raggiungere la tanto agognata supremazia internazionale.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]