N. 10 - Ottobre 2008
(XLI)
un attonito duce
il mussolini di
gargnano
di Alberto Bertotto
Al tempo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), delle
passate attività “rivoluzionarie” di Mussolini
erano rimaste soltanto le vestigia dei suoi anteriori
investimenti (un slancio creativo secondo lui
prolifico), disanimate reliquie che l’eco che indelebili
ricordi facevano risuonare con particolare incisività e
con pungente nostalgia. Nulla poteva eguagliare in
desolazione il contrasto tra la realtà miserevole
dell’oggi, un baroccume, ed i fastosi scenari
dell’immemorabile epoca imperiale di cui non restava
alcun segno tangibile anche se continuava a vivere
ancora nel lessico delle toccanti emozioni mussoliniane.
Una situazione nella quale non si poteva stabilire se
era maggiore il tritume odierno, una inarrestabile
decadenza dietro la facciata di un consunto splendore, o
la pretenziosa vanità di ieri.
Dopo aver suonato la gran
cassa della guerra con la baldanzosa prosopopea di un
baccelliere, l’amarezza del rimpianto per le cose
irrimediabilmente perdute (le colonie e non solo) era
disarmante: invano Mussolini, tenuto in piedi dal
labile collante di una allucinata disperazione mista ad
una patetica fede, si affannava sforzandosi per
scacciarne il penoso richiamo. In quei momenti di
sconforto il dittatore sentiva l’impellente bisogno di
biade e di rugiade, di sostegno, di pane fresco e di
sudore genuino derivato dalla fatica fisica e non dalla
paura. E ciò perché i giorni che aveva dinnanzi erano
una fila di candele accese pronte a spegnersi sia al
vento freddo di Aquilone che a quello tiepido di Ostro.
La memoria dell’esistenza anteriore gli procurava tonalità
emotive oscillanti dalla struggente malinconia alla
gioia contenuta, dall’orrore paralizzante alla moderata
euforia e dal vetrioleggiamento caricaturale all’iperbolizzazione
deformante. Gli stivali da sette leghe e l’orma pesante
erano solo le piacevoli rimembranze di quando sfilava
pettoruto come un bersagliere in parata o del tempo in
cui sorrideva soddisfatto come un tenore che intona la
romanza, accarezzandosi la storica mandibola senza
sapere che un’altra mitica mascella era già entrata da
un bel pezzo nelle pagine immutabili della leggenda
(quella d’asino brandita da Sansone). Ahimè, l’epoca in
cui credeva che per vincere le guerre bastava soltanto
dichiararle o quella in cui le stesse finivano prima
ancora di incominciare era definitivamente tramontata.
La retorica sulla quale il regime aveva costruito la
propria immagine appariva del tutto inconsistente. Tra i
sostenitori della RSI era pressoché assente il fascista
“galantuomo”, il detentore dei posti migliori
negli anni del “perbenismo” di regime, mente
emergeva la tipologia del militante di partito e si
rafforzava lo spirito residuo dello squadrismo
primigenio: giovanissimi spinti sulla ribalta della
scena da un conflitto generazionale e cariatidi della
vecchia guardia pronte sfruttare l’opportunità di
un’insperata rivalsa. Come la risacca riporta a riva, a
sua discrezione, i relitti di un naufragio, così, senza
un ordine apparente, la Storia restituiva al Duce pezzi
di fascismo consumati dall’uso ed erosi dalla salsedine.
Di certo è disagevole se non ostico reprimere i dispiaceri
ricoperti dai tegumenti elastici delle esacerbate
passioni. è altrettanto difficile distogliere la vista
dal prisma che racchiude visioni spettrali e non le
innocue fantasie o i sogni innocenti di un uomo maturo
soddisfatto del proprio conquistato appagante benessere.
Così lo è pure il rimettere le ragioni degli atti
compiuti, incapaci di una ragionata e coraggiosa
spiegazione, all’ipotecato arbitrio di non compiacenti
pronipoti che non capirebbero certe inconsuete
trasposizioni metaforiche. D’altronde le bastonate date
dai fatti all’ideologia ed alla politica fascista e
l’evoluzione del regime in forme sempre più sclerotiche,
militaresche ed operettistiche non potevano non far
meditare vista la gravità della situazione.
Mussolini
non si rendeva conto di essere schiacciato dalla
enormità della disfatta militare e del drammatico
arretramento della posizione internazionale dell’Italia
che ne era l’immediata conseguenza. Arretramento
puntualmente sminuito dalle apocrife malleverie della
concertata propaganda radiofonica e dalle fandonie
divulgate dalla sudata e logorroica stampa fascista con
l’intento di fare accettare alla gente una realtà
sconfortante con la quale doveva confrontarsi ogni
giorno senza poterla in alcun modo modificare.
L’ectoplasma provocatorio emanato dalle folle in adorazione
era rientrato nell’inconsistenza dell’evanescente atta a
stimolare la fantasia solo di coloro, che reputandosi
eletti, avevano seguito il Duce sulle umbratili rive del
Garda per restare vicini al loro idolo e per
festeggiarne l’immancabile apoteosi finale. Alcuni
epigoni, tuttavia, non si esentavano dall’esprimere un
dissenso sul modo con il quale veniva gestita la cosa
pubblica, dissenso, peraltro, sfumato ed esternato in
forme allusive o criptiche, ma mai con parole di acerba
ostilità che potevano essere ritenute l’espressione di
una aperta e conclamata ribellione. Restavano soltanto
alcune indecorose suggestioni, sparse a piene mani dal
fascismo, che i sacrifici della guerra, i legami
affettivi verso i caduti e i pericoli ai quali il Paese
era esposto non riuscivano ancora a far dimenticare.
La fama di invulnerabilità e di invincibilità che
circondava la figura del dittatore era stata riassorbita
dagli stereotipi che facevano leva su di lui solo quando
si voleva denigrarlo o posizionarlo sotto una cattiva
luce. Il leader fascista, esposto a critiche, a
postille ed anche ad irriverenze, si era rassegnato ad
ispirare rispetto solo perché non poteva più incutere il
timore necessario per mantenere a debita distanza i
gerarchi malintenzionati disposti ad usurpare anche solo
una piccola fetta del suo logorato potere. Con
supponente arroganza, essi infrangevano i marosi della
loro indignazione contro il tavolino del Duce e gli
imputavano, in un clima di vociferante esaltazione, la
mancata attuazione dei primordiali programmi del
fascismo al fine di instaurare una dittatura autoritaria
e conservatrice la quale aveva oscurato gli ideali e
buttato alla Geenna le ambizioni rivoluzionarie dei
fascisti accorsi entusiasti in piazza San Sepolcro
nell’ormai lontano 1919.
Mussolini (dopo aver fondato nel nord Italia una repubblica
neofascista con l’aiuto delle baionette tedesche,) non
disponeva di un piano né militare, né
politico-diplomatico, né economico a meno che non si
voglia far passare per tale l’estemporaneo espediente
delle mercuriali e dei calmieri che avevano portato al
tacito compromesso del binomio tesseramento-mercato
nero. Il capo del fascismo repubblicano, prigioniero di
un passato glorioso, ostaggio di un cupo presente e in
balia di un avvenire segnato, non aveva più i lampi
dell’antica genialità e la percezione esatta
dell’orizzonte che si dischiudeva davanti ai suoi occhi
affetti da un’ingravescente miopia. La tristezza del
Duce e la malinconia del lago stringevano un’alleanza
che accentuava i contorni sgradevoli delle cose,
mettendo in evidenza tutta la drammaticità dei recenti
avvenimenti.
L’antica baldanza era scomparsa e non era difficile
leggergli nel viso un penoso dilemma (ammiccare o
reagire?). La magrezza rendeva flosce e cadenti le sue
guance, profonde le sue occhiaie e dava una specie di
inquietudine al suo sguardo apprensivo che denotava
premonitrici visioni pestilenziali, incubi malefici e
ossessionanti turbamenti. L’energia del dittatore, un
tempo prorompente, aveva rari soprassalti seguiti da
improvvise assenze durante le quali si perdeva,
rincorrendo ragionamenti che sperava gli potessero
additare i mezzi per modificare un destino che solo lui
s’illudeva ancora di poter mutare. Non voleva avere i
tedeschi tra i piedi e sognava di chiudere una esistenza
tribolata senza averli come difensori o come testimoni
dato che non sapevano mettersi in ghingheri di amabilità
per compiacere chi li ospitava con malcelata
sopportazione. Alla fine, nel mare delle contraddizioni
in cui si era perso, si sarebbe affidato proprio a loro
e non agli italiani ai quali avrebbe rivolto solo dure
frasi di condanna.
Pur tentando di sollevare dalla sofferenza e dal dolore
alcune persone, Mussolini aveva perso la certezza che il
sacrificio impostogli dal destino malevolo servisse a
risollevare l’Italia dal baratro nel quale era
irreparabilmente caduta. Facilonerie, incongruenze,
incostanza, contraddizioni, ondeggiamenti di indirizzi,
alibi elusivi: con queste premesse veniva pilotata
quella parte della Nazione governata dalla RSI, una
guarnigione assediata, dove regnava l’effimero, il
precario e l’estemporaneo, che si reggeva in piedi per
dispetto o forse per una volgare scommessa fatta da
uomini che amavano non solo il rischio calcolato, ma
soprattutto quello fine a sé stesso.
Malinconicamente aperto alle confidenze del prossimo e
quasi ansioso nel cercare la comprensione altrui,
l’anziano leader del fascismo saloino agiva più
come un automa e non come un uomo cosciente delle
responsabilità e dei compiti che si era assunto.
Certamente non si comportava come un capo, non come una
guida sicura o come un mentore credibile al quale
potersi affidare. Sulle rive di uno specchio d’acqua
lugubre, immoto perchè privo di onde, viveva
dolorosamente ripiegato su sé stesso in una parabola
autoreferenziale distante chilometri dal mondo
circostante, oscillando in un’altalena illusoria dove
apparivano e scomparivano spiragli di salvezza e barlumi
di fiduciosa attesa. Propenso alla riflessione impietosa
e al ricordo meditativo, era un perdente piegato e
travolto dalla macchina della Storia che si era vantato
di saper guidare verso mete sempre più radiose. Un
individuo svuotato, fragile, terreo, con gli zigomi
pronunciati sulle gote scavate e con lo sguardo
allucinato sperso nel vuoto: così appare il Duce
nell’immagine che lo ritrae mentre sta visitando, con
gli occhi di un toro cretese, il sacrario di Gabriele
D’Annunzio a Gardone. La coreografia non era da meno e
le corone d’alloro in onore del Vate fungevano da degna
cornice alle esequie di un uomo, una figura soltanto
ornamentale, che aveva l’espressione di colui che
assiste impotente al proprio funerale. L’unica cosa che
sapeva fare, per distrarsi, era quella di perdere
facilmente la pazienza con le tante Cassandre che
deambulavano per gli ambulacri del suo disadorno e
domestico palazzo, casa e bottega della confraternita
littoria. In tali occasioni, essendo tendenzialmente
tragico, non disdegnava le colleriche scenate,
espressione di una costernata disapprovazione. Ad esse
seguivano, di norma, crisi di completo abbandono e di
abulica rassegnazione che appalesavano un umore
sicuramente depresso.
Relegato su di un lago che lo isolava dal mondo, il
Mussolini posteriore all’8 Settembre del 1943, un essere
privo di volontà, era vittima dei nazisti che gli
imprigionavano anche i pensieri più intimi. Non aveva
più speranze, ma doveva dimostrare di averne, alcune
almeno, per non deludere le aspettative di chi lo aveva
seguito sulle sponde del Garda senza chiedere ricompense
né pretendere particolari privilegi.
La corte palatina del Duce era diventata il mercato della
trippa ed i tedeschi, con un portamento da litografia
storica, erano trasfigurati, dalla sua foga romagnola,
in creature isteriche, complicate e potenzialmente
ostili. Soffriva di una nevrosi persecutoria che un modo
di vivere convulso, in parte condizionato da quelli che
lo volevano usare come simbolo di una impossibile
riscossa, non contribuiva di certo ad alleviare. Non
riusciva a riannodare i rapporti con il prossimo e a
mettere a giorno le notizie e i dati indispensabili per
mantenere in funzione i vari servizi con cui si
articolava la macchinosa attività dello Stato. Gli elogi
che faceva, se ne faceva, erano vaghi e non consentivano
di trarre degli insegnamenti a cui ispirarsi. Nostalgico
irriducibile di un passato non ancora archiviato, si
sentiva prostrato ed avvilito per il giudizio espresso
su di lui dagli italiani che erano ormai insensibili
agli appelli della ridondante propaganda fascista. Era,
infatti, infastidito di essere continuamente
punzecchiato da malevole allusioni e da pesanti
insinuazioni delle quali sentiva, più degli altri, tutta
la insolente portata. Le esplosioni di gioia, i cortei
di esultanza, gli spensierati sbandieramenti e i
baccanali festanti si erano trasformati in uno squallido
ed avvilente spettacolo che coinvolgeva sia il vertice
che la base del Partito Fascista.
In questo periodo, paradossalmente, la oratoria di
Mussolini aveva prodotto un vero e proprio modello di
ortofonia per forma e contenuti: il discorso tenuto al
teatro Lirico di Milano il 16 Dicembre del 1944 al
termine del quale erano seguiti uno scrosciante applauso
e una roboante ovazione. Di fronte ad un pubblico di
fedelissimi, il Duce aveva ribadito a tutto campo le
accuse di tradimento, coinvolgendo il Re, la corte, i
circoli plutocratici delle classi medie, i generali
massoni degli stati maggiori e le forze clericali.
Disposto ad accettare le proposte dei sostenitori del “Fascismo
sociale” e a soddisfare le esigenze liberaleggianti
espresse da alcuni esponenti moderati, Mussolini aveva
promesso l’immediata attuazione delle leggi sulla
socializzazione delle imprese e la convocazione di
un’Assemblea Costituente non appena la guerra fosse
terminata. Il popolo milanese osannante aveva costruito
la lunga scala penitente dell’autoassoluzione,
predisponendo il luogo e il tempo della congiura
(piazzale Loreto) con il subdolo strumento
dell’applauso.
Dopo l’estemporaneo trionfo, il dittatore aveva incrociato
le braccia e con l’occhio fisso allo stellone
dell’Italia dimezzata aspettava il soffio chiarificatore
di un Dio sullo specchio appannato delle proprie
convinzioni o il portento che la dea Roma avrebbe dovuto
fare dopo essersi assisa su di un trono costituito non
da un tronco maestoso, ma soltanto da un cumulo di rupi
silvane. Nessuno poteva trattenersi dal condannare senza
indulgenza le incongruenze e gli errori politici del
Duce, mancanze di cui ognuno si poteva contristare
amaramente perché i loro riflessi incidevano senza
pietà su di un dominio più vasto e più profondo di
quello che la stessa immensità della guerra perduta
aveva abbracciato con la sua tragica violenza. Le
ventennali raccomandazioni mussoliniane si erano volte
in gramigna anziché in tenero frumento da macinare tra
le quattro mura di Gargnano da cui non si poteva
allontanare senza il beneplacito e la scorta dei soldati
tedeschi.
L’aver realizzato gigantesche opere pubbliche, l’aver
stroncato la corruzione e la mafia, l’aver vinto
battaglie come quella del grano e quelle contro
l’etilismo e la tubercolosi e l’aver messo ordine
nell’amministrazione dello Stato sembravano non contare
più di tanto o addirittura essere destinate a rimanere
nel novero delle conquiste ottenute ad un prezzo davvero
esorbitante. Una opinione che traspariva senza mezzi
termini da molte testimonianze coeve non influenzate
dallo spirito della fazione, ma dal desiderio non
ingiustificato di riconoscere sia i meriti che i
misfatti di Mussolini.
Alcune sensazioni reali, provate in altri tempi,
concorrevano a particolarizzare uno spettacolo già visto
sul quale era sconfortevole indugiare. Con un rimescolio
di autocompassione, di delusione, di amarezza, di
astratti furori e di riflessioni su quello che era
accaduto, i ricordi, soffusi da un sacro profumo di
lontananza, sorgevano in folla frantumati e le immagini
lontane riapparivano sbiadite come le vesti giovanili
rose dai tarli o come i resti del cerone nelle rughe di
una matura gaudente che non vuole arrendersi alla sua
incipiente ed inarrestabile vecchiaia. In un panorama di
rivendicazioni deluse e di ambizioni sfumate, le colonne
antiche del vigore virile e dell’eroismo erano infrante.
L’ardore al suon degli speroni era scomparso al momento
dell’amaro risveglio dall’ipnosi della fallace grandezza
che aveva contraddistinto l’epoca imperiale. Il Duce di
Gargnano, dove le giornate scorrevano mute, uniformi e
silenziosamente disperate, era ormai solo un simbolo
vuoto: viveva tanto per vivere, trascinandosi senza
gioia in attesa di improbabili tempi migliori.
Sicuramente pensava alla morte come se fosse un gradito,
sospirato e meritato sollievo.
E’ significativo a questo riguardo un fatto. Ha scritto
Marcello Trinali: “Verso la fine del 1944 Mussolini
chiamò presso di se il prof. Goffredo Coppola,
Rettore dell’Università di Bologna, e gli consegnò uno
scritto da pubblicarsi su “Critica Fascista”, di di cui
Coppola era il direttore. Quel componimento era
una giustificazione morale del suicidio, con riferimenti
storici e filosofici. Dal tono accorato di
Mussolini, dalla sua espressione triste e severa,
Coppola ebbe l’impressione che il Duce avesse meditato
sull’eventualità di un suicidio in caso di sconfitta e
che volesse lasciare un documento dal quale risultasse
che egli considerava quell’atto non come una
manifestazione di viltà, ma un gesto necessario, quasi
doveroso, in determinate circostanze”.
Il Duce era un mito scalzato dal piedistallo in cerca di
spiegazioni per giustificare una tribolata esistenza
sconvolta dal disorientamento prodotto da tutto ciò che
era per lui fittizio e privo di contenuti. I dubbi gli
tormentavano la mente, l’esasperazione non gli concedeva
tregua e le complicate difficoltà lo irritavano più del
dovuto. Talvolta interrompeva bruscamente un discorso,
un’altra era paralizzato per un attimo da una temporanea
amnesia, un’altra ancora si estraniava improvvisamente e
guardava incantato fuori dalla finestra dello studio in
cui lavorava stancamente. Rivivendo sé stesso nel
turbinio di una serie infinita di prodigiose avventure,
si esaminava, si analizzava e si giudicava, annaspando
tra le onde del bene e dell’inevitabile male, una
partita sempre attiva nel bilancio dell’uomo qualunque
come pure in quello del genio incompreso o di chi si
ritiene presuntuosamente di essere tale. La caduta
dell’astro mussoliniano era la fine di uno stordimento,
l’eclissi di ogni rumore di gloria, il crollo delle
illusioni che avevano perfidamente cullato le notti di
coloro che avevano fatto del fascismo una vitale ragione
di vita.
A causa della vacillante volontà, il proconsole di Salò non
trovava altro rifugio e conforto se non in quello
rappresentato dalle ingannevoli chimere della sua
fervida immaginazione. Gli ideali di un tempo avevano
perso giorno dopo giorno lo smalto di prima. Erano
diventati un sogno, calpestato dai fatti avversi, che
doveva essere coltivato affinché non svanisse come la
neve al sole di un limpido mattino. A venir meno era la
carica di energia vitale necessaria quando si deve
continuare a lottare con l’impegno profuso in
precedenza. Costretto a fare continuamente i conti con
l’alleato-occupante, inconsciamente attivava un processo
mentale il quale lo portava ad adeguarsi senza fare
troppi sforzi alla precarietà della situazione
contingente. Cercando colpe da addossare a sé stesso,
risaliva a Noè che, fermentando l’uva, era il diretto
responsabile di tutti gli alcolismi a venire.
Con lo stato d’animo dell’agnello a Pasqua, con lo sguardo
ansioso di chi teme di scoprirsi escluso e con
l’apprensione di un ragioniere a cui non tornano i
conti, sembrava avere una sorta di filosofia per la
quale il non fare niente, il minore dei mali, diventava
il modo migliore per non precludersi la possibilità di
scegliere tra più strade e, forse, per trovare ad un
certo punto quella, del tutto inattesa, che si sarebbe
improvvisamente aperta per motivi casuali. Quelli che lo
frequentavano in quei giorni ne notavano la trasparente
tensione emotiva, una specie di distacco dalla realtà e
di fatalismo che si traduceva nella incapacità di
scegliere, di decidere e di comandare con l’imperio di
un tempo.
Mussolini parlava del passato, del presente e del futuro
fondendoli in un pensiero solo, in un unico rammarico.
Era convinto che l’ideologia fascista fosse per l’Italia
un lusso che gli italiani non potevano permettersi, un
qualcosa di troppo grande e fuori di misura. Il suo
pensiero era questo: se è vero che il fascismo era stato
un fatto squisitamente autoctono nella sua ragion
d’essere storica e nel suo divenire fenomenologico, era
altrettanto vero che quello italiano era certamente il
contesto meno idoneo a gestire la spinta sociale che ne
costituiva il presupposto ideologico. Un limite e una
penalizzazione antropologica di carattere fisico e
culturale che non avrebbe tardato a rivelarsi non appena
fosse cessato il clamore dei trionfalismi, dei momenti
facili e della romanità fatta di cartapesta, quando cioè
sarebbe giunto il momento impietoso delle prove senza
possibilità d’appello.
Balenii di sfasate reminiscenze si rincorrevano nei
chiaroscuri dell’angosciata mente del dittatore per
ricomporsi in un diorama di scene da lui vissute in una
epoca di cui aveva un struggente rimpianto e una
appassionata memoria. Intorno al Duce e con il Duce
viveva un popolo percosso dalla sconfitta, incattivito
dalla lotta fratricida e sbalordito dal fatto di aver
visto crollare tutte le sue illusioni. Roma antica era
morta tra le braccia dei gladiatori, la Grecia tra
quelle dei sofisti, Bisanzio tra le grinfie degli
eunuchi, la RSI stava morendo tra le spire avvolgenti
dei partigiani pronti a disperderne le ceneri nel
momento in cui si sarebbe diradata la mortifera caligine
che oscurava la loro orgia degradante, una miserabile
beccheria calata sull’Italia come un sudario, una lotta
senza esclusione di colpi ed uno spurio lavacro
vermiglio dove scorreva a fiumi il sangue fraterno.
A dispetto di ciò il leader fascista ricercava
nell’amato rumore della folla l’assordante silenzio
della sua clausura, forgiava anadiplosi, artifici
retorici che pensava potessero risolvere i suoi
problemi, qualificava le sue asserzioni come simboli o
come apologhi e accampava arzigogoli e cavilli con
l’illusione di adonestare la propria avvilente
condizione rispetto agli equilibrati giudizi del popolo
italiano e, fors’anche, di fronte alla sua resipiscente
coscienza. Sebbene sentisse lo starnazzare sinistro del
dodicesimo avvoltoio di Roma, nemmeno l’approssimarsi
dell’infausto annunciatore della rovina della Patria, e
la melopea ad esso collegata, riusciva a sollevarlo da
quella tetra abulia ed a disincantarlo da una
fatalistica e rassegnata attesa dell’ineluttabile
epilogo finale, tragica parodia di un incantesimo che
sembrava averlo catafratto in un vortice di ferali
presentimenti.
Chiuso nel ruolo autocommiseratorio di “Prigioniero del
Garda”, invischiato ancor più nella ossessiva
disamina degli incartamenti, il Duce era preso da
scrupoli esasperati e maniacali per faccende del tutto
insignificanti rispetto alla dramma di una guerra che
aveva coperto la Nazione di lutti e di rovine. Era in
balia di una mistica concezione per la quale non poteva
immaginare di restare superstite allo sfacelo di ideali,
di situazioni e di strutture coincidenti con il suo
mondo interiore: aveva ormai lucido il presentimento
della morte che lo aspettava alle porte di Giulino di
Mezzegra. Sul Garda si rincorrevano, ammantati di una
serietà fittizia, Ministri, gerarchi, funzionari,
nostalgici e avventurieri consciamente concordi di
vivere in un mondo irreale, un mondo dove esisteva solo
l’angoscia di ciascuno e l’impegno profuso da tutti nel
tentativo disperato di sfuggirla per non doverne subire
le disastrose conseguenze.
Per sopravvivere bisognava accantonare le incertezze,
vincere le paure, essere insensibili a qualsivoglia
richiamo nostalgico, decisi sul da farsi e, soprattutto,
sinceri con sé stessi e con i compatrioti maldisposti a
tollerare ulteriori infingimenti e gratuiti quanto
inutili soprusi. Mussolini si era, invece, asserragliato
ancor più in un deprimente isolamento spirituale,
abbassando ogni mattina una nuova saracinesca e
continuando a delirare sulla utilità della “Guerra
ideale del fascismo”, un criterio con il quale il
regime voleva soddisfare le proprie ambizioni
rivoluzionarie e vedere riconosciuto quel ruolo
civilizzatore che si vantava di aver ricoperto. Il
conflitto armato era ormai sostenuto da una sparuta
combriccola di pochi uomini risucchiati dal funereo
clamore della sconfitta ed accodatisi alle salmerie
dell’esercito nazista sotto la cui egida intollerante
erano costretti a combattere per difendere il loro
onore.
Invece di blaterare sul significato recondito di “Guerra
fascista” e su quello ancor meno comprensibile di “Patria
fascista” avrebbe dovuto fare una estrema e vibrante
invocazione alla concordia nazionale, un appello che
doveva scaturire dalla fiamma del rogo dove erano stati
inceneriti i diplomi delle prerogative di parte e le
ipoteche dei vecchi rancori. Viceversa, le decisioni
prese da Mussolini non avevano forza propositiva e
persuasiva perché mancavano del requisito essenziale:
l’aderenza ad una finalità che fosse sia pur
lontanamente conseguibile. Rinnegando antiche
consuetudini, ignorava l’arte sottile del negoziato, il
fascino offerto dalla oculata diplomazia e l’ebbrezza
provocata dal rischio calcolato, espedienti che di
norma sono utilizzati da chi gestisce abilmente il
proprio potere. I discorsi del Duce erano un artificioso
sussulto oratorio, un guizzo di demagogia pronunciato
senza enfasi e senza convinzione.
Dopo aver salito i gradini più alti della scala sociale, il
Duce, segnato dalle impronte di un sepolcrale destino,
con un salto era quasi tornato alle sue umili origini
anagrafiche. Intorno al leader fascista regnava
una incomprensione assoluta ed un vuoto esasperante
perché le manifestazioni di riconoscenza e di cortesia,
qualora le avesse meritate, non rientravano più nelle
consuetudini quotidiane. Non si può revocare il dubbio
che il dittatore era solo, che sapeva di esserlo e che
faceva della solitudine l’unica forza su cui poter
contare. Immobile come una trave, non dava confidenza a
nessuno, era succube delle turbolenze domestiche e
sentimentali per una priapica e morganatica carnalità
inesausta, amministrava la Repubblica di Salò per gradi
di prossimità, si inabissava in un delirio di
sopravvivenza ad ogni costo, si eccitava a fare il
violento davanti allo specchio, era costretto ad
accettare uno stillicidio di contestazioni, suscitava la
riverenza al posto dell’intimità, l’affettazione invece
della spontaneità ed il dispetto anziché la cortese
attenzione.
In un silenzio carico di tensioni, recitava sommessamente
il Confiteor con il Mea Culpa senza essere
attorniato dai consoci del sodalizio fascista ai quali
dava ad intendere che non avrebbe mai pregato. Il tutto
tra scaramucce al di qua e al di là del lago, tra
squallidi allineamenti e coraggiose sortite, tra
contributi pregevoli e piaggerie accademiche, echi di
una battaglia senza quartiere che pretendeva di essere
il nerbo di una scuola di moralità. Sullo sfondo di
questo contesto sociale prendeva sempre più corpo una
piccola borghesia rampante, sempre verde in ogni periodo
storico, che traduceva in soldo sonante ogni gesto
esteriore di supina obbedienza e di volontaria
subordinazione.
Trascorso il periodo più o meno acuto delle nostalgie, dei
rimpianti e dei rimorsi, Mussolini si abbandonava al
conformismo delle idee, dei pensieri e delle abitudini,
si adattava alla monotona routine ordinaria e si
adeguava svogliatamente alla realtà per inserirsi senza
sforzo nel poco edificante quadro generale. Il trapasso
volubile da un’idea all’altra dimostrava l’instabilità
del suo carattere indeciso. L’animi mobilitas,
il difetto maggiore che doveva trarlo a rovina e
portarlo a morte, lo condizionava senza dargli un attimo
di tregua. Era in pratica un uomo deluso dai cocenti
disinganni sulla giustizia, sull’equità, sul ruolo della
dottrina e sul rigore della prassi. Poteva ribellarsi o
tacere. Non si ribellava essendogli venuto meno il
coraggio o perché non era disposto a sacrificarsi per la
salvezza e le libertà comuni. Non sapeva tacere e
serbarsi puro ed intatto per gli scontri futuri perché
era più facile secondare i facili compromessi piuttosto
che dimostrare una rigida intransigenza. Convinto di
essere un trastullo della sorte nato nel posto
sbagliato, si era aggiogato al carro dei meschini di
spirito e ogni idea che gli veniva in mente aveva ora un
prezzo di mercato. Non aveva capito che il destino
adatta l’ordito della sua trama a quello che l’uomo fa
per sopravvivere decorosamente.
Scansando gli apostrofi scurrili, timidamente e
stentatamente contestava o chiariva con poche parole
qualche particolarità asserita da chi lo interloquiva,
giungendo a delle conclusioni quasi sempre
contraddittorie e formulate in modo inappropriato. Se
compilava una cronaca o un promemoria scartava la verità
ed in sua vece assumeva a fonte informativa e probativa
l’ipotesi, dimostrando di appartenere a quella “scuola”
gnoseologica del pensiero che nega la reale conoscenza
del tempo trascorso, sostituendovi a tutti gli effetti
la supposizione di un fatto immaginario che si sarebbe
dovuto compiere qualora il vero accaduto non si fosse
realmente verificato. Una protasica interpolazione
derivante dall’idea fissa di voler modificare a suo
piacimento ciò che era stato per il solo fatto di non
averlo affatto gradito.
Era abituato a seguire alcuni attaccagnoli sentimentali
(l’affinità di ideali politici con i nazisti) che a
seconda dei casi rivolgeva a proprio profitto o metteva
in dimenticanza, sempre convinto che l’opinione pubblica
lo seguisse condiscendente nei suoi andirivieni. Nutriva
una inestinguibile avversione ed una torturante gelosia
per il regime di Adolf Hitler con il quale si era
alleato in un patto di vita o di morte, ma del quale
aveva paventato la potenza egemonica ed invidiato le
esaltanti vittorie militari. A Gargnano vedeva nemici
dappertutto: nel cupo sepolcrale silenzio della loggia
massonica, nell’incerta luce della sinagoga,
nell’abbagliante luccichio dell’oro degli industriali e
nelle fredde sale del Vaticano. Costretto a combattere
ipocritamente con bassi interessi, con volgari ambizioni
e con congreghe sospette, era incapace di disancorarsi
dalle ripetitive usanze giornaliere e di compiere
qualsiasi sforzo di volontà. Ripiegava abitualmente
nella critica cavillosa per giustificare in qualche modo
questa sua organica inettitudine operativa. Abbattuto e
stanco, non desiderava altro che impiccarsi ad un aratro
al tempo della semina.
Poiché qualche residuo demiurgico covava ancora nella mente
del capo del fascismo repubblicano, oggi recriminava il
quietismo degli strati sociali più elevati, domani il
nichilismo psicologico dei ceti rurali ed il giorno dopo
l’assenteismo poco patriottico delle masse operaie che
reclamavano con un coro di critiche e di proteste
l’adeguamento dei loro stipendi alle modificate
condizioni della vita. Al colmo delle deprecazioni per
le sventure subite, finiva sempre per trovare un motivo
che gli impediva di ristabilire la fiducia nelle qualità
del popolo italiano. Declinante nello spirito e nel
corpo, aveva abdicato verso una clientela di famiglia e,
alla fine, verso quella di un gabinetto privato al quale
non doveva rendere conto delle decisioni prese e di
quelle che avrebbe maturato in un futuro. Infatti, non
cercava più collaboratori, ma si affannava per trovare
solo dei complici consenzienti. Reclamare un aiuto da
chi non lo poteva dare significava tentare di
esorcizzare la propria impotenza e di mascherare
l’immagine di un Duce sconfitto e votato all’abbandono.
Spesso ascendeva a generalizzazioni risultanti dal confuso
affastellamento di elementi eterogenei, incompleti od
inesatti, su cui ostinatamente si impuntava sospinto
sulla posticcia ribalta della scena da un coro di voci
discordi. Allora si affannava per rettificare, volgendo
gli occhi in giro per trovare un appoggio, e si esauriva
nella ricerca di ulteriori espedienti idonei a
sorreggere e ad omologare gli asserti contestati.
Deleteria deficienza se si considera che non di rado
siffatte empiriche e sconclusionate elucubrazioni
mentali venivano elevate a guida del suo operato
politico o intronizzate a postulati di un dogma
generale. Con il medesimo metodo sommario ed arbitrario
perveniva, a volte, a considerazioni incompatibili con
quelle precedenti. Con assoluta indifferenza esigeva che
queste venissero accettate, al pari delle prime, come
rivelazioni veritiere. Era restio alle lunghe e
metodiche riflessioni, agli scandagli di fondo ed alla
costanza e freddezza dell’indagine. Ciò gli impediva di
sceverare, nella disamina dei problemi, le cause vere da
quelle occasionali e di coglierne i significati
essenziali. Il che era la spia di uno stato d’animo
contrastante ed altalenante che oscillava tra pessimismo
e ottimismo (moderato), tra attivismo (modesto) e
passività, tra autoillusione e scarso realismo. Non
sapendo cosa sarebbe accaduto sperava soltanto che non
avvenisse il peggio senza rendersi conto che il peggio
era proprio il conformarsi ad aspettare indolentemente
il tutto o il niente.
Oltre a cambiare opinione, come mutano la loro direzione i
galletti segnavento, Mussolini era solito mentire e la
sua menzogna era così smaccata che chi lo ascoltava
stentava a credere anche il contrario di quello che lui
aveva detto. Volubile ed insicuro, goffamente ricascava
nei e si impuntava ostinatamente sui grossolani errori
in cui era incespicato anni addietro, non essendo capace
di fare un uso proficuo delle esperienze vissute. Era
del tutto privo di quell’accenno di metodo che anche un
cieco riesce ad intravedere nelle follie di Amleto. Da
qui le autoaccuse con sprazzi di disgusto, di
sarcasmo e di disprezzo che, riaffiorando da sentine
borboniche, sommergevano i sentimenti risorgimentali i
quali lo vincolavano al passato. Un modo di fare che
sconcertava ed irritava i circoli politici e quelli
militari, ne deprimeva la fiducia e l’operosità e
forniva concludenti motivi all’alleato tedesco per
sospettare della lealtà del governo della RSI.
Tuttavia, i mesi passavano ed obliteravano, lasciando per
la strada i trasalimenti della memoria di chi non sapeva
dimenticare o di chi non voleva rinunciare alla
straziante sovrapposizione del presente con il ricordo
di un passato difficile da accantonare. Tutto era
naufragato in una atmosfera dozzinale, da romanzo
d’appendice, con personaggi più o meno banali incerti
tra la magniloquenza dannunziana e la vacuità borghese
dei “telefoni bianchi”. Un disorientato
vagabondaggio tracciato sulle peste di tortili ricordi
che l’aguzzata attesa di prelibati sapori e di
ineffabili aromi (una vittoria militare) non riusciva a
dissipare del tutto. Sotto la pressione degli
avvenimenti esterni, bellici e politici, e sotto i colpi
della disillusione interiore, il comportamento del
Borgomastro di Gargnano denotava un’atonia intellettuale
e rivelava il disorientamento, facilmente percettibile,
che gli impediva di comunicare con coloro dai quali si
aspettava se non solidarietà almeno un poco di calore
umano.
Al termine di un “prometeico” cammino, gli si
addebitavano tutti i vizi con la stessa grossolana
faciloneria con cui, nel ventennio, gli erano state
invidiate tutte le virtù. Per inettitudine del vertice e
per proterve incapacità dei collaboratori più stretti,
il Duce, abituato ad ottenere un grande successo perché
capitalizzava le aspettative di un intero popolo, si era
ormai rivelato un prodotto di cattiva qualità,
inconsistente, ingannevole e rammollito dalle trascorse
esperienze, incluse quelle amorose che non erano mai
state gratificanti dal punto di vista sentimentale.
Per molti secoli chi credeva di possedere il segreto di
un’arte veniva considerato uno stregone e rischiava di
finire sul rogo, nello stesso modo qualsiasi filosofo
che avesse osato distaccarsi dal gergo rituale o dalle
consolidate figurazioni dei miti correva il rischio di
incappare nella accusa di sacrilegio. Così tutti i
fascisti, brachicefali o dolicocefali, ricchi o poveri,
perseguitati o aguzzini, erano messi alla berlina,
bersaglio di rabbiose vendette, per il solo fatto di
avere la camicia nera o la tessera del partito:
Quisquis adversariae factionis fascium ille fauctor.
L’ottenebrante incubo di un lugubre pervertimento del
senso logico e della ragione.
Nonostante la propensione protagonistica, la natura
mercuriale, lo spietato atteggiamento di
autoaffermazione ed il ruolo coriaceo che aveva assunto
per confondere le apparenze (l’antitesi fra l’entità del
carisma e la stabilità del potere), il fondatore
dell’impero era un istintivo immalinconito dall’ambiente
lacustre che, con l’occhio da disoccupato, si
scortecciava e si struggeva uggiolando nel compiangere
le proprie sventure. Irenico e non bellicoso, pretendeva
che gli venissero riconosciute le stimmate del martire.
Pur distaccandosi naturalmente dalle cose, stentava ad
allontanarsi da esse. Pur essendo oppresso dal disgusto,
non riusciva a rinunciare a tutto ciò che lo disgustava.
Pur non volendo fare la fine del sorcio in trappola,
confezionava lui stesso i bocconi con il topicida. Pur
non essendoci tetto di cui non conosceva i gatti, si
sentiva spaesato e fuori dal suo ambiente. Pur sapendo
di essere ingannato, era disposto ad ingannare non solo
gli altri, ma, soprattutto, sé stesso. Alla realtà aveva
sostituito il sogno, all’azione l’inerzia e al fardello
della vita le labili suggestioni della fantasticheria.
Tali erano le monadi di quel dramma cupo e profondo. Da
ciò derivavano le incontenibili contraddizioni che
compromettevano il regime e debilitavano il rendimento
del Governo repubblicano.
La mano che un giorno aveva saputo reggere le discordanti
forze nazionali, costringendole vigorosamente a
collegarsi tra loro, ora ricadeva inerte, stringendo un
pugno pieno solo di mosche. Chiuso nel sacrario di villa
delle Orsoline a Gargnano si gingillava nel tran tran
monotono e metodico dell’ordinaria amministrazione ed in
un abitudinario e modesto mondo di udienze e di
commissioni alternate agli omaggi da ricevere ed alle
istruzioni da impartire a coloro che professavano una
inconcussa fedeltà al regime.
La vita di Mussolini era stata una successione di casi
imprevisti. Ora che il disastroso epilogo della guerra
aveva scacciato il caso non ci potevano più essere
sorprese piacevoli. Accasciato dalle preoccupazioni e
non ancora immunizzato dai biechi impulsi del livore nei
confronti della Monarchia, si sentiva schiacciato dal
peso di responsabilità che non riusciva a sopportare da
solo. Alcune le poteva condividere con qualche persona
fidata. Quelle più gravose, però, pesavano tutte sulle
spalle del Duce, spalle non diritte ma bensì ricurve
perché piegate dall’usura. Come un fesso caricava sul
proprio basto anche le impertinenze degli altri,
riprotestava con un frasario generico propositi di
resistenza, chiedeva consigli anche alle ombre e si
tratteneva da gesti audaci, così accetti al suo
carattere, per tema di deludere i camerati della vecchia
guardia i quali, in verità, non aspettavano altro che
quello. Costoro, oscillando tra finzioni vetero-fasciste
e simboliche pulsioni omoerotiche, non costituivano che
sparuti nuclei dispersi nella massa labile ed inoperante
della tesserata conglobazione. Ciò nondimeno la loro
voce critica si faceva sentire con una intonazione
bellicosa che sconfessava le inesattezze d’apposizione,
analogiche ed estimative, su cui poggiava la strategia
del capo diventato vecchio prima del dovuto.
I contestatori non parlavano sottovoce e non agivano con
sorniona circospezione. Certi sorrisetti e la mimica che
tradivano l’esistenza di pericolose perplessità erano
più eloquenti delle indigeste parole con le quali
esternavano il loro aspro dissenso. Allora il dittatore
accettava la pubblica ammenda pur di mondare il paese
dalle colpe commesse dal popolo per demerito di chi
amministrava gli interessi del Paese. L’autorappresentazione
nel ruolo di capro espiatorio e di cosciente vittima
sacrificale di una situazione che passava sopra la sua
testa era uno dei topoi a cui non sapeva
rinunciare e del quale è giusto dargli il meritato
riconoscimento. Cercava ogni pretesto per abbandonare la
scena senza avere l’aria del disertore, ma avendo, anzi,
quella del perseguitato incolpevole pronto a
sacrificarsi sull’altare degli eroi indigeti.
A volte impassibile come una statua di cera, a volte con
una espressione di trasecolata meraviglia, Mussolini non
giudicava gli altri, non risolveva i problemi, indugiava
aspettando quello che per lui era inatteso, non meditava
su ciò che poteva sollevare la gente dall’imbarazzo
penoso del momento, non reagiva alle aggressioni
ripetute e premeditate dei tedeschi, alternava fugaci
atteggiamenti euforici, nonostante le delusioni, ad un
realistico pessimismo, trasgrediva le leggi da lui
stesso promulgate, non si rendeva conto che lo
scollamento tra la popolazione ed il regime era un fatto
compiuto, dava soltanto dei titoli riassuntivi alle
opinioni che professava, lasciava i pensieri disperdersi
con aria di compatimento e le residue forze svanire nel
buio di una deprimente apatia alla quale avrebbe posto
fine la truce vendetta della consorteria resistenziale.
Con un’aria da furiere azzimato, per non creare allarmismo,
taceva quelle verità che avrebbe voluto ignorare o
perlomeno conoscere il più tardi possibile (il
voltafaccia dei tedeschi). Sempre più incerto e
disorientato esaminava i vari piani d’azione elaborati
dalle persone che per una ragione o per l’altra gli
stavano vicino. Quelli che prevedevano un suo riparo
all’estero al momento opportuno erano il più delle volte
inaffidabili per la mancanza di un’oggettiva concretezza
organica o perché privi di adeguati supporti logistici.
Assistito da una schiera di auguri più o meno faziosi,
tra i sordi brontolii dell’agitata atmosfera gardesana,
esplorava, come gli antichi, le viscere fumanti degli
animali immolati sugli altari idolatri per attingervi
presagi, utili ammonimenti e divine profezie. Forse si
compiaceva di vivere l’ultimo atto del ruolo che
l’immaginazione aveva assegnato a quel grand’uomo che
ancora si credeva di essere.
In contemporanea, ruminava l’erba sardonica scuotendo la
testa sconsolato; scagliava invano, accalorandosi, i
fulmini della propria indignazione che si manifestava
con assordanti (fatue) imprecazioni e futili anatemi;
permetteva al rimpianto di prevalere sul desiderio; si
abbandonava ad un progressivo e colpevole declino votato
alla catastrofe; teneva bordone alle malefatte dei
gerarchi più riottosi; macinava laboriosamente la farina
della sconfitta; menava botte oratorie, lanciando strali
contro la borghesia, contro gli industriali, contro il
conformismo del fascismo curiale e contro il partito
stesso; si atteneva alla fattispecie sussiegosa dei
formulari; si lasciava suggestionare dai canti delle
sirene lacustri; era abbagliato dai simulacri di
cartapesta e dai falli posticci (le armi segrete dei
nazisti); lanciava appelli di ispirazione nazionalistica
e di sapore mazziniano; non sopportava le domande alle
quali non sapeva rispondere e si nascondeva esitando
sotto il grigio di un umore senza scatti e senza slanci
per non uscire dal perimetro di una disarmante
desolazione che lo confinava in un lacerante disagio
esistenziale. Si comportava come l’asino di Giovanni
Buridano morto di fame per non aver saputo scegliere se
gli conveniva prima bere e poi mangiare o viceversa.
Infilatasi la giornea, parlava utilizzando le solite
allitterazioni con i cui bisticci dialettici era
convinto di sgrovigliare qualsiasi intricata faccenda,
di ribaltare ogni ostacolo insormontabile, di superare
le barriere più frontali e di controbattere le accuse di
coloro che lo biasimavano di condurre un doppio gioco
sleale nei confronti dell’alleato tedesco, il quale non
avrebbe tardato a ripagarlo con la stessa perfida
moneta. Ormai si stava inoltrando in un deserto di
doppiezze, di intrighi e di slealtà che non era più
capace di dominare con la autorità che derivava
dall’incarico che ricopriva. Il vecchio amor proprio,
retaggio della vita disagiata di Dovia e delle randagie
giornate svizzere quando doveva pagarsi un amore
mercenario e dormire all’adiaccio avvolto nel cappotto,
era scomparso come lo erano pure gli sforzi allora fatti
per sopravvivere dignitosamente in quella situazione.
Quotidianamente, cercava di combattere l’ostinata
persistenza nell’errore (la guerra) o la pervicace
adesione a fisime fossilizzate o per lo meno scarsamente
aderenti all’ambiente circostante (il potere più che
dimezzato). Cupi periodi di accasciamento e di
costernazione, peraltro preminenti, si alternavano ad
estri di rinfrancata fiducia, di improvvisi recuperi e
di bruschi ritorni ad irrigidimenti risoluti.
L’irrompere di tali ravvedimenti, di tali emendati
atteggiamenti e di tali tendenze non sintonizzabili tra
loro era, tuttavia, di breve durata, essendo
condizionato più dall’umore passeggero che non dal
desiderio di un effettivo e radicale cambiamento. Non
era in grado di riprendere la guida della compagine
nazionale disorientata e disgregata, di ristabilire una
efficace rete di comando e di prendere delle decisioni
meditate.
Gli interrogativi sul domani e le loro incognite erano
molti, ma, purtroppo, erano destinate a rimanere tali.
Mussolini si rifiutava accettare le situazioni nel modo
con il quale esse si verificavano, solo quelle a lui
favorevoli sembravano attrarre la sua attenzione, una
attenzione, peraltro, sfuggevole ed incostante. Il
destino, tuttavia, vendeva a caro prezzo ciò che
sembrava avergli regalato con doviziosa generosità
quando era convinto di non aver lasciato niente
all’imprevisto e di non aver fatto nulla con una
frettolosa e superficiale approssimazione. In quei
giorni si potevano incontrare facilmente fascisti, di
grande o piccolo calibro, che inveivano contro il Duce,
incolpandolo della rovina in cui versava l’Italia
repubblicana.
Una fittizia concitazione intellettuale gli metteva un
certo citrato nel sangue e mutava gli aspetti delle
circostanze, anche di quelle più banali. Una
irrequietezza psicologica la quale non riusciva ad
esprimersi liberamente per meglio individuarsi,
correggersi e temperarsi. Il senso tragico della vita lo
occupava in toto, lasciando trasparire
inevitabilmente tutta la sofferenza da cui era compreso.
Se sorrideva, fatto raro, sembrava che per portare alle
labbra quel sorriso avesse dovuto trarlo faticosamente
dal fondo di un abisso. A volte negli occhi sgranati gli
si poteva leggere un’allarmante apprensione, se non una
vera e propria paura, che rispecchiava l’incertezza del
comportamento e la scarsa attenzione indagatrice con cui
osservava gli uomini e le cose che popolavano il suo
squallido mondo esteriore.
Sommerso da un castello di sogni infranti, rimpannucciato
con un abito usato, consumato dai conflitti interiori,
scosso dall’evidenza dei fatti negativi, preso da un
profondo turbamento affettivo a causa dei dissapori
famigliari (l’astio viperino della figlia prediletta
Edda moglie del futuro condannato a morte Galeazzo
Ciano) e minacciato dal pugno di un vincitore
inesorabile il quale lo voleva spedire sul tamburo
battente all’altro mondo, era così fragile tanto da far
pensare che la sua pelle serviva per ricoprire delle
ossa fatte di vetro. Le braccia abbandonate lungo i
fianchi ondeggiavano pigramente ad ogni passo come i
rosari appesi alla cintura di un frate afflitto da un
malessere importuno o da una scontentezza molesta, segni
di un preoccupante sbandamento morale o di una indegnità
interiore. Le aggressive tendenze del carattere di
Mussolini avevano ormai lasciato il posto ad un
sentimento di mortificata sopportazione.
Poco fiducioso nell’oggettività dell’analisi e sospettoso
della soggettività della sintesi, il dittatore non era
più in grado di rivendicare diritti né di assumere
obblighi, di impartire ordini e di dare consigli
appropriati perché non riusciva a rompere la crisalide
di una scontata ripetizione, avendo perso ogni residua
capacità decisionale. Di facile contentatura, rimaneva
aggrappato alle cose così come si presentavano senza
aver la forza di modificarle quando gli tornavano
sgradevoli o dannose. Faceva a tutti le stesse promesse,
ma non ne manteneva nessuna, non risolveva le
controversie che appesantiva ed ingarbugliava come se
non lo fossero già abbastanza e lasciava che le stesse
ambiguità si ripresentassero come prima pur di non
metterci le mani per renderle meno equivoche o meno
sibilline. Pur essendo in prossimità con tanta gente,
dava confidenza solo a pochissime persone delle quali, a
ragion veduta, si poteva ciecamente fidare.
Tali manifestazioni sono tipiche di coloro che si sentono
vinti, emarginati, minacciati e diffamati o di chi si
vede puntare contro l’indice accusatore della Storia.
Mancava quella passione accalorata ed insieme
disciplinata che anima la voglia di fare, quella
adesione sincera alla causa comune, quella volontà che
fosse il centro di convergenza di tutte le forze di cui
uno dispone, quella serietà e quello zelo nell’operare
che la gravità dell’ora richiedeva. Dando retta ai
fascisti intransigenti, privilegiava l’alleanza con i
tedeschi i quali continuavano imperterriti a tramare di
nascosto le loro arrendevoli mene con gli
angloamericani. Una serie di accordi che contemplavano,
tra le altre cose, anche il trattamento da riservare
alle residue forze fasciste repubblicane.
Prestava orecchio solo alle richieste del giornalista Carlo
Silvestri impostosi la missione di riconvertire il Duce
ai principi della sua gioventù. Mussolini doveva
rimettere i poteri al Partito Socialista d’Unità
Proletaria al quale si sentiva legato da una pregressa
comunanza ideologica che pensava di sfruttare, a
consegna avvenuta, per ottenere salvacondotti ed
impunità. Queste eclettiche vergolate orditure
restavano, tuttavia, prive di ogni forza conclusiva,
come di qualsiasi capacità di persuasione e di
penetrazione nella costellazione politica avversaria. I
socialisti costituivano, infatti, solo una minoranza se
paragonati al numero dei comunisti i quali erano i reali
fautori delle strategie politiche di una sinistra pronta
ad essere democraticamente integrata nelle istituzioni
(la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti).
Nel Borgomastro di Gargnano, la narcisistica vanagloria e
l’autoincensamento che si traducevano nella burbanza un
po’ grottesca tipica del megalomane baciato dal successo
erano completamente scomparse. Attento a non deragliare
dai binari del cerimoniale, costretto a celarsi, a
mascherarsi e a pentirsi di ogni iniziativa, recitava un
copione sempre più in precario equilibrio tra il
desiderio di trasgredire e la necessità dell’ossequio al
canovaccio. Non riuscendo ad afferrare una realtà così
composita e mutevole o avendo della stessa una
conoscenza mistificata, era travolto dagli eventi che si
susseguivano vorticosamente senza provocare in lui il
benché minimo interesse. Sembrava un Duce al seguito dei
gerarchi piuttosto che alla loro guida, rassegnato
piuttosto che invasato, pacifista piuttosto che
bellicoso, povero cristiano anzichè che tetragono
fascista, ingenuo più che lucido, patetico più che
insidioso, sentimentale prima ancora che politico.
Abdicare sè stessi significava scontare duramente questo
sconsiderato tentativo il quale non poteva portare ad
altro se non ad acuire la propria alienazione. Le
pulsioni ed gli sforzi fatti per contenerla non si erano
ancora equilibrati per annullarsi nello zero della
quiete spirituale che da pace all’animo e sollievo al
tormento provocato dalle continue e amare delusioni.
Per giustificare il fallimento di una vita cercava di
vivere su di una pianta della quale negava i frutti dopo
averne tagliato le radici. Quando discuteva, gli
argomenti addotti erano scuciti e senza i nessi della
convinzione necessari per persuadere: le sue
affermazioni erano inesatte, non provate e prive della
dovuta conoscenza di causa. Ormai la dèbacle
aveva definitivamente estenuato un concetto romantico
(arcaico) di eroe ed il fato, arbitro indiscusso della
situazione, faceva il resto completando l’opera. Nel
fare una rielaborazione espiatoria delle pregresse
esperienze per dare alle stesse una impostazione
giustificativa, si comportava come quei mendicanti che
rubano ai veri poveri o come Bertoldo il quale, invitato
dal Granduca a farlo, aveva solo chiesto ed ottenuto di
scegliere l’albero al quale impiccarsi senza trovarlo
mai.
Su temperamenti simili (il cui poco malleabile universo
mentale è nutrito di riferimenti all’antico e di cultura
spiritualista, la cui sensibilità, sempre pronta ad
origliare ed a spiare alla porta inaccessibile
dell’anima, avvizzisce nell’arido esercizio
dell’intelletto, la cui libertà è asservita
all’intelligenza e la cui ragione impone di fare solo
ciò che l’istinto dice) le combinazioni del caso e gli
scherzi del destino hanno ripercussioni gravi in special
modo se la vita coronata di ieri, la virile affermazione
della volontà, della assidua applicazione, della
instancabile pazienza e della tenace laboriosità, e lo
splendore dei turbinosi anni trionfali, un iperuranio
fastoso e menzognero dal tetro splendore cobaltico, sono
destinati ad essere confinati in un calcolato oblio o
nella soporifera banalità.
Senza un’ora di tregua la vita del Duce, un tempo epicentro
di molteplici attività, era inquinata dall’affanno e
piegata dalla trepidazione, limitazioni che, secondo
lui, offuscavano con una serie di disvalori il suo
comportamento, ne tarpavano le qualità ed appannavano la
avveduta lungimiranza, la esemplare longanimità e
l’accorta consapevolezza con la quale credeva di
governare una Repubblica imposta da Hitler più con il
ricatto che con la persuasione.
Durante la RSI, Mussolini spendeva tutto il peso politico
rimastogli per controbilanciare le assurde
rivendicazioni dei nazisti i quali, non privi di sale
attico, lo spedivano a letto da assassino e lo
svegliavano da Cesare di Carnevale. Aveva sempre
interpretato l’alleanza con la Germania non in termini
ideologici, ma in quelli geopolitici e militari,
ritenendo che l’alleato cobelligerante colato nel bronzo
prussiano fosse uno strumento per sostenere la politica
italiana di espansione in Africa e nel bacino del
Mediterraneo, il mare delle soleggiate fantasie e dei
tragici risvegli. Una opinione non peregrina sosteneva:
meglio perdere la guerra con gli inglesi che vincerla
con il Terzo Reich.
Gli insuccessi nella conduzione del conflitto avevano,
tuttavia, rivelato il carattere largamente velleitario
di un totalitarismo il quale si era assegnato il compito
velleitario di trasformare militarmente l’intera
struttura sociale del Paese. Era certamente dimentico di
quello che aveva detto Ugo Foscolo: “Chiunque
ripiglia lo scettro per forza d’armi straniere, non sarà
mai temuto da chi l’aiutò, né rispettato da chi gli deve
ubbidire”.
Dopo aver tracciato con l’immaginazione il ricamo di una
esistenza predestinata con la precisione di una mimesi
assoluta, il dittatore, rassegnato alla sconfitta,
scalzato dal basamento dove lo avevano collocato i tanti
esergo della narcotizzante retorica marziale fascista,
continuamente scavalcato dai fatti e dalle circostanze,
costretto a riconoscere la forza della legge altrui e
straniato da un’epoca che aveva distrutto le sue maliose
conquiste, doveva confrontarsi con una oggettività, ben
diversa da quella immaginata, che voleva per forza
trascendere: una violenta concitazione degna di un
notturno druidico per la raccolta del vischio.
La sensazione della catastrofe infronteggiabile, le
amarezze e gli insuccessi che ridimensionavano le sue
poche rinfocolate aspirazioni, le suggestioni, i
capricci artificiosi e le esigenze inottemperabili del
suo carattere andavano viste come incidenti di percorso
dai quali pensava di potersi affrancare per non sentirsi
vulnerabile ed emotivamente compromesso. Le recenti
disastrose esperienze belliche e la pesante ipoteca (la
sudditanza nei confronti dell’alleato tedesco) che
gravava sulle sue decisioni non potevano non portarlo a
considerazioni meno pessimistiche di quelle che
solitamente soleva fare. Tutto ciò era la diretta
conseguenza del prevalere nelle scelte del Duce di un
atteggiamento mentale inconciliabile con quelle regole
che dovevano essere rispettate e con quelle norme che
dovevano essere applicate affinché la conduzione della
RSI fosse perlomeno accorta e non la risultante di
decisioni improvvisate sulla scorta di repentini
ripensamenti e di decisioni affrettate.
L’animo esacerbato ed ipersensibile, abituato in passato a
dibattersi tra assoluti sconvolgenti o a lottare contro
le soverchianti avversità, non riusciva tollerare
l’impossibilità di confessarsi con un amico che poteva
rasserenarlo, con il confidente che non aveva mai avuto
o con il complice stimolante che sperava ancora di
trovare lungo il cammino tortuoso ormai giunto alla
svolta finale, quella più impegnativa. Ciò lo
addolorava, lo sorprendeva, lo scoraggiava ed era il
motivo per il quale si tratteneva dall’agire più
speditamente. In un clima di abbandono, nessuno poteva
realizzare le utopistiche pretese accampate da Mussolini
con sempre meno ferma convinzione.
Attediate dalla lunga consuetudine con la tristezza, le
pupille sconsolate di un uomo cresciuto nel mito della
rivoluzione, forgiatosi nelle trincee della grande
guerra e diventato capo indiscusso di una Nazione che
avrebbe dovuto rinverdire i fasti sontuosi dell’antica
Roma, scrutavano, ammiccavano e seducevano, ma non
abbagliavano più. Le orecchie, abituate al frastuono di
una voce con la pienezza di un coro, soffrivano
nell’ascoltare il petulante e stereotipato borbottio con
cui dialogava in solitaria meditazione, usando
metaforiche parole congeniali al clima crepuscolare
dell’Italia governata dal fascismo repubblicano.
Sottoposto ad un incessante logoramento emotivo,
indispettito da Didoni incontentabili (Claretta Petacci,
amante malinconica) e da Agrippine spietate (Rachele
Mussolini Guidi, moglie gelosa), bersaglio polemico di
infiniti risentimenti e di indignate reprimende e
frastornato da calunnie ritenute ingiuste cercava
comprensione e sostegno con la speranza di trovare
conforto e solidarietà. In una sorta di esistenzialismo
sui generis, il mondo esterno, ostile ed avverso,
viveva spettrale nella sua fervida immaginazione.
Sperduto nel buio del sesto decennio di vita e
desintonizzato dalla propria inquietudine, aspettava che
una piccola felicità imprevista lo potesse distogliere
dall’ieri e dal domani. Nel fare ciò soggiaceva
inevitabilmente ai capricci retorici che avevano
contraddistinto certi decadenti e certi ermetici dei
quali non si ricordava più il nome. Come un turista
intento a guardare solo i ponti e non il fiume, le
facciate e non gli interni, san Pietro e non Trastevere,
non sospettava di trovare il guinzaglio o la frusta
dietro i riccioli rococò.
A volte era magnanimo, mite e generoso, altre volte
angusto, inutilmente spietato, intollerante e privo di
umana comprensione. Altero nei rari momenti fortunati,
si smarriva nella sventura che invece di fortificarlo lo
mortificava. L’uomo fattosi costruire piazze e monumenti
non riusciva più a vincere la solitudine ed il senso di
provvisorio che era ad essa conseguenziale.
Non potendo attingere ad alcuna conoscenza per chiarire i
suoi assillanti dubbi e desideroso di riscattare ogni
impulsiva sconsideratezza, voleva cancellare con un
colpo di spugna, in un disperato duello con la propria
coscienza, i torti e le insoddisfazioni che le derisorie
manie di grandezza gli avevano infallibilmente
procurato. Per fare ciò rimestava baloccandosi nelle
melensaggini bozzettistiche, faceva discorsi senza la
dovuta conoscenza di causa, raccontava le solite bagole
trite e ritrite, si dilettava a distillare i succhi
estetici della Storia nazionale, vagheggiava sulle
banalità più uggiose durante le pause d’ozio che
suscitavano il disprezzo e la compassione dei filistei
(i nazisti), si gingillava tra seleucidi moralisti
(Alessandro Pavolini) e cartaginesi pentiti (gli
irregolari del fascismo C. Silvestri e Nicola Bombacci),
ammirando, con vena materica, orizzonti teorici
sconfinanti indistintamente nell’illuminismo asburgico o
nell’idealismo borbonico.
Anche se i vinti che il dolore ha reso simili ai veggenti
levitici non hanno difficoltà a fare l’autoanalisi ed a
spogliarsi della loro individualità quando gli
avvenimenti congiurano o quando acquisiscono la certezza
assoluta della amara disfatta, il dittatore, pur essendo
esercitato ad una approfondita introspezione, non
riconosceva i marchiani errori che aveva commesso ed i
cui disastrosi effetti avrebbero potuto essere evitati
con adeguati sacrifici. Pur oggettivando sé stesso, non
riusciva a fornire una risposta plausibile agli
interrogativi che lo ossessionavano, a trovare una
spiegazione che giustificasse i sospetti che lo
perseguitavano, a identificare l’origine remota della
paura che lo attanagliava e a dare un senso alla marcia
solitaria che stava facendo tra le nude pareti della
propria castigata intimità.
In passato gli si attribuivano opere e meriti degli altri,
ora, per la legge del compenso, sbagli ed errori non
suoi. Se agiva lo faceva svogliatamente per orgoglio,
per ambizione o per conservare la stima altrui e non per
il rispetto dovuto a quello che era l’effettivo compito
istituzionale impostogli dal destino: far da cuscinetto
tra gli epigoni di Hitler, che seminava odio e
diffidenza con imposizioni e coartazioni di ogni genere,
e i patrioti a cui il Duce avrebbe lasciato in eredità
le sostanziali modifiche, in parte già attuate, nel
campo delle rivendicazioni sociali.
Poiché ci sono individui audaci dotati di una immaginazione
tale da riuscire a scorgere oltre i limiti
dell’esistenza sociale regolata dalla consuetudine e dal
buon senso tribale, il Mussolini padrone incontrastato
della sala del Mappamondo di palazzo Venezia, schietto
rampollo di popolo dal ricco ingegno demagogico e dalla
statura politica disadatta ai corti panni del reale,
aveva tentato di dare alla vita un senso perspicuo ed
una dimensione ogni volta diversa fatta di input
originali, di traguardi da raggiungere e di cime da
scalare. A guidarlo per fare l’apologia di sé stesso era
stato una specie d’amore sacerdotale per la perfezione
che lo portava a bandire le distrazioni (non quelle
sessuali in cui cercava una via di fuga dalla politica),
la superbia, i vizi pubblici e la decadenza morale ormai
diffusa ovunque. L’abitudine a misurare le proprie
azioni sulla base delle loro conseguenze concrete lo
rendeva aggressivo, volitivo e, soprattutto, sempre
sicuro di sé stesso. Le conferme e gli attestati di
fiducia erano per lui cose superflue. Nella sfera della
praxis possedeva certamente le influenze delle
quali si vantava, frutto di accorgimenti mentali che lo
avevano fatto oggetto di un’ammirazione universale.
Questo momento sublime di equilibrio e di appagamento,
questo stato esaustivo di esaltazione, di continua
ricerca del successo, di bramosia di gloria, di
narcisistica gratificazione di essere ammirato da tutti
e di premeditato rifiuto di immedesimarsi negli altri
per aggrapparsi alla propria sublime identità avevano
provocato in Mussolini un tormento contrito che tentava
di eliminare per calarsi nella situazione odierna dove
le oscure prospettive non lasciavano spazio
all’immaginazione, alle deliranti fantasie, agli
espedienti dell’iperbole e dell’enfasi, alle perentorie
intimazioni di grandezza, alle estrose bizzarrie e men
che meno alle cambiali in bianco impossibili da onorare
e di cui si era ampiamente servito quando teneva il
piede in più scarpe di una calzoleria.
L’avere le idee confuse, il voler abbreviare il suo
golgotha, l’essere coinvolto in un intrigo di antilogie
psichiche, l’essere condizionato dal pessimismo,
immobilizzato dall’indecisione, invischiato in enigmi
insolubili e il conformare tutto ai suoi schemi
grossolani, dividendo gli uomini in gigantesche schiere
di eletti e di reprobi come farebbe un manicheo dèmodè,
gli faceva “Temere quello che sperava e sperare
quello che temeva” e spesso “Dire quello che non
pensava e pensare quello che non diceva”. Voleva,
perciò, rimuovere dalla memoria vecchi ed ingombranti
binomi (domande pragmatiche e risposte dogmatiche) per
rigenerare il suo animo dalle fondamenta, per puntellare
e consolidare la traballante e logora fiducia nelle
proprie forze, per reagire alla morta gora sperando di
poter recuperare l’ascendente sui collaboratori più
stretti, per assimilare con disponibilità e tolleranza
elementi estranei ad un certo modo di vedere le cose e
per riacquistare il senso delle giuste proporzioni onde
considerare, con spirito pratico e senza pregiudiziali,
proposte ragionevoli che in altri momenti gli avrebbero
consentito di adottare dei provvedimenti non
inopportuni, ma bensì provvidenziali e tempestivi come
richiedeva la situazione di quel particolare momento.
Alla fine della sua avventura, Mussolini avrebbe dovuto
puntare sul dannunzianesimo piuttosto che sul
machiavellismo. Il primo forse non lo avrebbe salvato,
il secondo sicuramente ha fatto di tutto per perderlo
nel peggiore dei modi: fucilato davanti ad un cancello
insieme all’amante che urlava: “No! Il Duce non deve
morire”.
Riferimenti bibliografici:
AA.
VV. Repubblica Sociale Italiana. C. E. N., 1959.
AA.
VV., Mussolini. La più grande biografia del
Duce. Peruzzo Editore, 1994.
AA.
VV, Repubblica Sociale Italiana 1943-1945.
Ritter, 2004.
AA.
VV. La repubblica di Salò. Rusconi, 2006.
ACCOLLA, F., Lotta su tre fronti. Introduzione
alla storia della Repubblica Sociale Italiana. Greco
& Greco, 1991.
ALFASSIO GRIMALDI, U., La stampa di Salò.
Bompiani, 1979.
ALFIERI, D., Due dittatori di fronte. Rizzoli,
1948.
AMICUCCI, E., I 600 giorni di Mussolini. Faro,
1948.
ANDRIOLA, F., Mussolini nemico segreto di Hitler.
Piemme, 1997.
ANFUSO,
F., Roma, Berlino, Salò 1936-1945. Garzanti,
1950.
ASCHELTER, A., Intransigenti e moderati a Salò.
Società Editrice Barbarossa, 2006.
BADALONI, A., Fascisti 1943-1945. Edizioni
Settimo Sigillo, 1993.
BALISTI, F., Da Bir el Gobi alla Repubblica Sociale
Italiana. Piovan, 1986.
BERTOLDI, S., Mussolini tale e quale. Longanesi,
1973.
BERTOLDI, S., Salò. Vita e morte della
Repubblica Sociale Italiana. Rizzoli, 1976.
BERTOLDI, S., Piazzale Loreto. BUR, 2004.
BIAGI,
E., Il crepuscolo degli dei. Rizzoli,
1961.
BIAGI,
E., Anni di guerra 1939-1945. Rizzoli, 1995.
BIANCHI, G., Perché e come cadde il fascismo.
Mursia, 1970.
BOCCA,
G., La Repubblica di Mussolini. Mondadori, 1997.
BOLLA,
L., Perché a Salò. Diario della Repubblica
Sociale Italiana. Bompiani, 1982.
BOMBACCI, A., Nicola Bombacci. Santerno, 1983.
BONGIOVANNI, A., La guerra in casa. Settembre
1943 Aprile 1945. Mursia, 1967.
BONINO, A., Mussolini mi ha detto. Memorie del
vicesegretario del partito fascista repubblicano.
Edizioni Settimo Sigillo, 1995.
CAUDANA, M., Processo a Mussolini. C. E. N.,
1968.
CELLI,
M., Le metamorfosi di Mussolini. Grafica
Artigiana, 1995.
CIANO,
E., La mia testimonianza. Rusconi, 1975.
CIANO,
F., Quando mio nonno fece fucilare papà.
Mondadori, 1991.
CIONE,
E., Storia della Repubblica Sociale Italiana.
Latinità, 1951.
CONTI,
A. (a cura di), Repubblica Sociale. Lo Scarabeo,
1996.
CORTESI, L., Mussolini e il fascismo alla vigilia del
crollo. Editrice Cooperativa, 1975.
CUCCO,
A., Non volevamo perdere. Cappelli, 1950.
D’AGOSTINI, B., Colloqui con Rachele Mussolini.
OET, 1946.
DEAKIN,
F. W., Storia della Repubblica di Salò. Einaudi,
1970.
DE
FELICE, R., Mussolini l’alleato. La guerra
civile (1943-1945). Einaudi, 1997.
DINALE, O., Quarant’anni di discorsi con lui.
Ciarrocca, 1962.
DOLFIN, G., Con Mussolini nella tragedia.
Garzanti, 1949.
DULLES, A., La resa segreta. Garzanti, 1967.
ERCOLANI, A., Gli ultimi giorni di Mussolini.
Edizioni Apes, 1989.
FALASCHI, G., Gli ultimi giorni del fascismo.
Editori Riuniti, 1973.
FRA
GINEPRO, Ho confessato il Duce. Grafiche Rivera,
1973.
FRANCIA, S., L’altro volto della Repubblica Sociale
Italiana. Società Editrice Barbarossa, 1988.
FRANCIA, S., La Repubblica Sociale Italiana e il
contesto internazionale. Società Editrice
Barbarossa, 1995.
FRANZOLIN, U., I vinti di Salò. Edizioni Settimo
Sigillo, 1995.
GABRIELLI, G., Carlo Silvestri. Socialista,
antifascista, mussoliniano. Franco Angeli, 1992.
GALEOTTI, C., Mussolini ha sempre ragione.
Garzanti, 2000.
GANAPINI, L. La repubblica delle camicie nere.
Garzanti, 2002.
GEROSA, G., La repubblica di Salò. Alberto
Peruzzo Editore, 1982.
GIANNINI, F., Dal 25 luglio a piazzale Loreto.
Edizioni Settimo Sigillo, 2004.
GOLDONI, L., SERMASI, E. Benito contro Mussolini.
Rizzoli, 1993.
GRAVELLI, A., Mussolini aneddotico. Latinità, s.
d.
GUERRI, G. B., Un amore fascista. Benito, Edda
e Galeazzo. Mondadori, 2005.
INNOCENTI, M., L’Italia del 1945. Mursia, 1994.
INNOCENTI, M., Mussolini a Salò. Il tramonto
di un uomo. Mursia, 1996.
INNOCENTI, M., Le signore del fascismo. Mursia,
2001.
LANDOLFI, E., Ciao, rossa Salò. Edizioni
dell’Oleandro, 1996.
LEPRE,
A., La storia della repubblica di Mussolini.
Salò: il tempo dell’odio e della violenza.
Mondadori, 1999.
MELDI,
D., La Repubblica di Salò. Rusconi, 2006.
MELLINI PONCE DE LEON, A., Guerra diplomatica a Salò.
Cappelli, 1950.
MEZZASOMA, A., Budapest, Roma, Salò. Edizioni
Settimo Sigillo, 2005.
MILZA,
P., Mussolini. La Biblioteca di Repubblica, 2005.
MONICELLI, M., La Repubblica di Salò. Newton,
1995.
MONTAGNA, R., Mussolini e il processo di Verona.
Omnia, 1949.
MOSELEY, R., Mussolini. I giorni di Salò.
Lindau, 2006.
MUSSOLINI, B., Dalla liberazione di Mussolini
all’epilogo. La Repubblica Sociale Italiana.
La Fenice, 1964.
MUSSOLINI, E., Mio fratello Benito. La Fenice,
1957.
MUSSOLINI, R., La mia vita con Benito. Mondadori,
1948.
MUSSOLINI, R., Mussolini privato. Risconi, 1979.
MUSSOLINI, R., Il Duce mio padre. Rizzoli, 2004.
MUSSOLINI, V., Vita con mio padre. Mondadori,
1957.
MUSSOLINI, V., Mussolini e gli uomini del suo tempo.
Ciarrapico, 1977.
OLIVA,
G., I seicento giorni di Salò. Giunti, 1996.
OLIVA,
G., La Repubblica di Salò. Giunti, 1997.
OLIVA,
G., La resa dei conti. Aprile-Maggio 1945.
Mondadori, 1999.
OSTI
GUERRAZZI, A., La Repubblica necessaria. Il
fascismo repubblicano a Roma. 1943-1944.
Franco Angeli, 2004.
PARLATO, G., La questione sociale e sindacale nella
memorialistica della RSI. In A.,
PERTICONE, G., La repubblica di Salò. Leonardo,
1947.
PINI,
G., SUSMEL, D., Mussolini, l’uomo e l’opera. La
Fenice, 1957.
PISENTI, P., Una Repubblica necessaria. Volpe,
1977.
RAHN,
R., Ambasciatore di Hitler a Vichy e a Salò.
Garzanti, 1950.
RAUSCHER, W., Hitler e Mussolini. Newton &
Compton, 2004.
ROMUALDI, P., Fascismo repubblicano. Sugarco,
1992.
RUINAS,
S., Pioggia sulla repubblica. Corso, 1964.
SALOTTI, G., Nicola Bombacci da Mosca a Salò.
Bonacci Editore, 1986.
SARACISTA, V., Con la Repubblica Sociale Italiana al
servizio del paese. Cerea Manara, 1950.
SCHUSTER, I., Gli ultimi tempi di un regime.
Piemme, 1996.
SETTIMELLI, E., Edda contro Benito. Casa
Editrice Libraria Corso, 1952.
SICILIANO, E., Morte di Galeazzo Ciano. Einaudi,
1998.
SILVESTRI, C., Mussolini, Graziani e l’antifascismo.
Longanesi, 1949.
SPAMPANATO, B., Contromemoriale. C. E. N., 1974.
TAMARO, A., Due anni di storia 1943-1945. Tosi,
1948.
TARCHI,
A., La Repubblica Sociale Italiana. C. E. N.,
1959.
TARCHI,
A., Teste dure. S. E. L. C., 1967.
TROTA,
E., SULLA, G., La propaganda nella Repubblica Sociale
Italiana. I volantini. Edizioni il
Fiorino, 2006.
VENE’,
G. F., Il processo di Verona. Mondadori, 1967.
VENE’,
G. F., La condanna di Mussolini. Fabbri, 1973.
UBOLDI,
R., 25 aprile 1945. I giorni dell’odio e della
libertà. Mondadori, 2004.
VICINI, S., DOSSENA, P., A., Lupo vigliacco.
Vita di Roberto Farinacci. Hobby & Work, 2006.
VINCETI, S., Salò capitale. Armando, 2003.
ZACHARIAE, G., Mussolini si confessa. BUR, 2004.
ZUCCONI, E., Autobiografia della Repubblica Sociale
Italiana. Uomini, fatti, idee. Edizioni RA.
RA, 1999.
ZUCCONI, E., La Repubblica Sociale. I
manifesti. Ritter, 2002. |