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N. 10 - Ottobre 2008 (XLI)

un attonito duce
il mussolini di gargnano

di Alberto Bertotto

 

Al tempo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), delle passate attività “rivoluzionarie” di Mussolini erano rimaste soltanto le vestigia dei suoi anteriori investimenti (un slancio creativo secondo lui prolifico), disanimate reliquie che l’eco che indelebili ricordi facevano risuonare con particolare incisività e con pungente nostalgia. Nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà miserevole dell’oggi, un baroccume, ed i fastosi scenari dell’immemorabile epoca imperiale di cui non restava alcun segno tangibile anche se continuava a vivere ancora nel lessico delle toccanti emozioni mussoliniane.

 

Una situazione nella quale non si poteva stabilire se era maggiore il tritume odierno, una inarrestabile decadenza dietro la facciata di un consunto splendore, o la pretenziosa vanità di ieri.

 

Dopo aver suonato la gran cassa della guerra con la baldanzosa prosopopea di un baccelliere, l’amarezza del rimpianto per le cose irrimediabilmente perdute (le colonie e non solo) era disarmante: invano  Mussolini, tenuto in piedi dal labile collante di una allucinata disperazione mista ad una patetica fede, si affannava sforzandosi per scacciarne il penoso richiamo. In quei momenti di sconforto il dittatore sentiva l’impellente bisogno di biade e di rugiade, di sostegno, di pane fresco e di sudore genuino derivato dalla fatica fisica e non dalla paura. E ciò perché i giorni che aveva dinnanzi erano una fila di candele accese pronte a spegnersi sia al vento freddo di Aquilone che a quello tiepido di Ostro.

 La memoria dell’esistenza anteriore gli procurava tonalità emotive oscillanti dalla struggente malinconia alla gioia contenuta, dall’orrore paralizzante alla moderata euforia e dal vetrioleggiamento caricaturale all’iperbolizzazione deformante. Gli stivali da sette leghe e l’orma pesante erano solo le piacevoli rimembranze di quando  sfilava pettoruto come un bersagliere in parata o del tempo in cui sorrideva soddisfatto come un tenore che intona la romanza, accarezzandosi la storica mandibola senza sapere che un’altra mitica mascella era già entrata da un bel pezzo nelle pagine immutabili della leggenda (quella d’asino brandita da Sansone). Ahimè, l’epoca in cui credeva che per vincere le guerre bastava soltanto dichiararle o quella in cui le stesse finivano prima ancora di incominciare era definitivamente tramontata.  

La retorica sulla quale il regime aveva costruito la propria immagine appariva del tutto inconsistente. Tra i sostenitori della RSI era pressoché assente il fascista “galantuomo”, il detentore dei posti migliori negli anni del “perbenismo” di regime, mente emergeva la tipologia del militante di partito e si rafforzava lo spirito residuo dello squadrismo primigenio: giovanissimi spinti sulla ribalta della scena da un conflitto generazionale e cariatidi della vecchia guardia pronte sfruttare l’opportunità di un’insperata rivalsa. Come la risacca riporta a riva, a sua discrezione, i relitti di un naufragio, così, senza un ordine apparente, la Storia restituiva al Duce pezzi di fascismo consumati dall’uso ed erosi dalla salsedine.

Di certo è disagevole se non ostico reprimere i dispiaceri ricoperti dai tegumenti elastici delle esacerbate passioni. è altrettanto difficile distogliere la vista dal prisma che racchiude visioni spettrali e non le innocue fantasie o i sogni innocenti di un uomo maturo soddisfatto del proprio conquistato appagante benessere. Così lo è pure il rimettere le ragioni degli atti compiuti, incapaci di una ragionata e coraggiosa spiegazione, all’ipotecato arbitrio di non compiacenti pronipoti che non capirebbero certe inconsuete trasposizioni metaforiche. D’altronde le bastonate date dai fatti all’ideologia ed alla politica fascista e l’evoluzione del regime in forme sempre più sclerotiche, militaresche ed operettistiche non potevano non far meditare vista la gravità della situazione.

Mussolini non si rendeva conto di essere schiacciato dalla enormità della disfatta militare e del drammatico arretramento della posizione internazionale dell’Italia che ne era l’immediata conseguenza. Arretramento puntualmente sminuito dalle apocrife malleverie della concertata propaganda radiofonica e dalle fandonie divulgate dalla sudata e logorroica stampa fascista con l’intento di fare accettare alla gente una realtà sconfortante con la quale doveva confrontarsi ogni giorno senza poterla in alcun modo modificare.

L’ectoplasma provocatorio emanato dalle folle in adorazione era rientrato nell’inconsistenza dell’evanescente atta a stimolare la fantasia solo di coloro, che reputandosi eletti, avevano seguito il Duce sulle umbratili rive del Garda per restare vicini al loro idolo e per festeggiarne l’immancabile apoteosi finale. Alcuni epigoni, tuttavia, non si esentavano dall’esprimere un dissenso sul modo con il quale veniva gestita la cosa pubblica, dissenso, peraltro, sfumato ed esternato in forme allusive o criptiche, ma mai con parole di acerba ostilità che potevano essere ritenute l’espressione di una aperta e conclamata ribellione. Restavano soltanto alcune indecorose suggestioni, sparse a piene mani dal fascismo, che i sacrifici della guerra, i legami affettivi verso i caduti e i pericoli ai quali il Paese era esposto non riuscivano ancora a far dimenticare.

La fama di invulnerabilità e di invincibilità che circondava la figura del dittatore era stata riassorbita dagli stereotipi che facevano leva su di lui solo quando si voleva denigrarlo o posizionarlo sotto una cattiva luce. Il leader fascista, esposto a critiche, a postille ed anche ad irriverenze, si era rassegnato ad ispirare rispetto solo perché non poteva più incutere il timore necessario per mantenere a debita distanza i gerarchi malintenzionati disposti ad usurpare anche solo una piccola fetta del suo logorato potere. Con supponente arroganza, essi infrangevano i marosi della loro indignazione contro il tavolino del Duce e gli imputavano, in un clima di vociferante esaltazione, la mancata attuazione dei primordiali programmi del fascismo al fine di instaurare una dittatura autoritaria e conservatrice la quale aveva oscurato gli ideali e buttato alla Geenna le ambizioni rivoluzionarie dei fascisti accorsi entusiasti in piazza San Sepolcro nell’ormai lontano 1919.

Mussolini (dopo aver fondato nel nord Italia una repubblica neofascista con l’aiuto delle baionette tedesche,) non disponeva di un piano né militare, né politico-diplomatico, né economico a meno che non si voglia far passare per tale l’estemporaneo espediente delle mercuriali e dei calmieri che avevano portato al tacito compromesso del binomio tesseramento-mercato nero. Il capo del fascismo repubblicano, prigioniero di un passato glorioso, ostaggio di un cupo presente e in balia di un avvenire segnato, non aveva più i lampi dell’antica genialità e la percezione esatta dell’orizzonte che si dischiudeva davanti ai suoi occhi affetti da un’ingravescente miopia. La tristezza del Duce e la malinconia del lago stringevano un’alleanza che accentuava i contorni sgradevoli delle cose, mettendo in evidenza tutta la drammaticità dei recenti avvenimenti.

 L’antica baldanza era scomparsa e non era difficile leggergli nel viso un penoso dilemma (ammiccare o reagire?). La magrezza rendeva flosce e cadenti le sue guance, profonde le sue occhiaie e dava una specie di inquietudine al suo sguardo apprensivo che denotava premonitrici visioni pestilenziali, incubi malefici e ossessionanti turbamenti. L’energia del dittatore, un tempo prorompente, aveva rari soprassalti seguiti da improvvise assenze durante le quali si perdeva, rincorrendo ragionamenti che sperava gli potessero additare i mezzi per modificare un destino che solo lui s’illudeva ancora di poter mutare. Non voleva avere i tedeschi tra i piedi e sognava di chiudere una esistenza tribolata senza averli come difensori o come testimoni dato che non sapevano mettersi in ghingheri di amabilità per compiacere chi li ospitava con malcelata sopportazione. Alla fine, nel mare delle contraddizioni in cui si era perso, si sarebbe affidato proprio a loro e non agli italiani ai quali avrebbe rivolto solo dure frasi di condanna.

Pur tentando di sollevare dalla sofferenza e dal dolore alcune persone, Mussolini aveva perso la certezza che il sacrificio impostogli dal destino malevolo servisse a risollevare l’Italia dal baratro nel quale era irreparabilmente caduta. Facilonerie, incongruenze, incostanza, contraddizioni, ondeggiamenti di indirizzi, alibi elusivi: con queste premesse veniva pilotata quella parte della Nazione governata dalla RSI, una guarnigione assediata, dove regnava l’effimero, il precario e l’estemporaneo, che si reggeva in piedi per dispetto o forse per una volgare scommessa fatta da uomini che amavano non solo il rischio calcolato, ma soprattutto quello fine a sé stesso.

Malinconicamente aperto alle confidenze del prossimo e quasi ansioso nel cercare la comprensione altrui, l’anziano leader del fascismo saloino agiva più come un automa e non come un uomo cosciente delle responsabilità e dei compiti che si era assunto. Certamente non si comportava come un capo, non come una guida sicura o come un mentore credibile al quale potersi affidare. Sulle rive di uno specchio d’acqua lugubre, immoto perchè privo di onde, viveva dolorosamente ripiegato su sé stesso in una parabola autoreferenziale distante chilometri dal mondo circostante, oscillando in un’altalena illusoria dove apparivano e scomparivano spiragli di salvezza e barlumi di fiduciosa attesa. Propenso alla riflessione impietosa e al ricordo meditativo, era un perdente piegato e travolto dalla macchina della Storia che si era vantato di saper guidare verso mete sempre più radiose. Un individuo svuotato, fragile, terreo, con gli zigomi pronunciati sulle gote scavate e con lo sguardo allucinato sperso nel vuoto: così appare il Duce nell’immagine che lo ritrae mentre sta visitando, con gli occhi di un toro cretese, il sacrario di Gabriele D’Annunzio a Gardone. La coreografia non era da meno e le corone d’alloro in onore del Vate fungevano da degna cornice alle esequie di un uomo, una figura soltanto ornamentale, che aveva l’espressione di colui che assiste impotente al proprio funerale. L’unica cosa che sapeva fare, per distrarsi, era quella di perdere facilmente la pazienza con le tante Cassandre che deambulavano per gli ambulacri del suo disadorno e domestico palazzo, casa e bottega della confraternita littoria. In tali occasioni, essendo tendenzialmente tragico, non disdegnava le colleriche scenate, espressione di una costernata disapprovazione. Ad esse seguivano, di norma, crisi di completo abbandono e di abulica rassegnazione che appalesavano un umore sicuramente depresso.

Relegato su di un lago che lo isolava dal mondo, il Mussolini posteriore all’8 Settembre del 1943, un essere privo di volontà, era vittima dei nazisti che gli imprigionavano anche i pensieri più intimi. Non aveva più speranze, ma doveva dimostrare di averne, alcune almeno, per non deludere le aspettative di chi lo aveva seguito sulle sponde del Garda senza chiedere ricompense né pretendere particolari privilegi.

 La corte palatina del Duce era diventata il mercato della trippa ed i tedeschi, con un portamento da litografia storica, erano trasfigurati, dalla sua foga romagnola, in creature isteriche, complicate e potenzialmente ostili. Soffriva di una nevrosi persecutoria che un modo di vivere convulso, in parte condizionato da quelli che lo volevano usare come simbolo di una impossibile riscossa, non contribuiva di certo ad alleviare. Non riusciva a riannodare i rapporti con il prossimo e a mettere a giorno le notizie e i dati indispensabili per mantenere in funzione i vari servizi con cui si articolava la macchinosa attività dello Stato. Gli elogi che faceva, se ne faceva, erano vaghi e non consentivano di trarre degli insegnamenti a cui ispirarsi. Nostalgico irriducibile di un passato non ancora archiviato, si sentiva prostrato ed avvilito per il giudizio espresso su di lui dagli italiani che erano ormai insensibili agli appelli della ridondante propaganda fascista. Era, infatti, infastidito di essere continuamente punzecchiato da malevole allusioni e da pesanti insinuazioni delle quali sentiva, più degli altri, tutta la insolente portata. Le esplosioni di gioia, i cortei di esultanza, gli spensierati sbandieramenti e i baccanali festanti si erano trasformati in uno squallido ed avvilente spettacolo che coinvolgeva sia il vertice che la base del Partito Fascista.

In questo periodo, paradossalmente, la oratoria di Mussolini aveva prodotto un vero e proprio modello di ortofonia per forma e contenuti: il discorso tenuto al teatro Lirico di Milano il 16 Dicembre del 1944 al termine del quale erano seguiti uno scrosciante applauso e una roboante ovazione. Di fronte ad un pubblico di fedelissimi, il Duce aveva ribadito a tutto campo le accuse di tradimento, coinvolgendo il Re, la corte, i circoli plutocratici delle classi medie, i generali massoni degli stati maggiori e le forze clericali. Disposto ad accettare le proposte dei sostenitori del “Fascismo sociale” e a soddisfare le esigenze liberaleggianti espresse da alcuni esponenti moderati, Mussolini aveva promesso l’immediata attuazione delle leggi sulla socializzazione delle imprese e la convocazione di un’Assemblea Costituente non appena la guerra fosse terminata. Il popolo milanese osannante aveva costruito la lunga scala penitente dell’autoassoluzione, predisponendo il luogo e il tempo della congiura (piazzale Loreto) con il subdolo strumento dell’applauso.

Dopo l’estemporaneo trionfo, il dittatore aveva incrociato le braccia e con l’occhio fisso allo stellone dell’Italia dimezzata aspettava il soffio chiarificatore di un Dio sullo specchio appannato delle proprie convinzioni o il portento che la dea Roma avrebbe dovuto fare dopo essersi assisa su di un trono costituito non da un tronco maestoso, ma soltanto da un cumulo di rupi silvane. Nessuno poteva trattenersi dal condannare senza indulgenza le incongruenze e gli errori politici del Duce, mancanze di cui ognuno si poteva contristare amaramente perché i loro riflessi incidevano senza pietà  su di un dominio più vasto e più profondo di quello che la stessa immensità della guerra perduta aveva abbracciato con la sua tragica violenza. Le ventennali raccomandazioni mussoliniane si erano volte in gramigna anziché in tenero frumento da macinare tra le quattro mura di Gargnano da cui non si poteva allontanare senza il beneplacito e la scorta dei soldati tedeschi.

L’aver realizzato gigantesche opere pubbliche, l’aver stroncato la corruzione e la mafia, l’aver vinto battaglie come quella del grano e quelle contro l’etilismo e la tubercolosi e l’aver messo ordine nell’amministrazione dello Stato sembravano non contare più di tanto o addirittura essere destinate a rimanere nel novero delle conquiste ottenute ad un prezzo davvero esorbitante. Una opinione che traspariva senza mezzi termini da molte testimonianze coeve non influenzate dallo spirito della fazione, ma dal desiderio non ingiustificato di riconoscere sia i meriti che i misfatti di Mussolini.

Alcune sensazioni reali, provate in altri tempi, concorrevano a particolarizzare uno spettacolo già visto sul quale era sconfortevole indugiare. Con un rimescolio di autocompassione, di delusione, di amarezza, di astratti furori e di riflessioni su quello che era accaduto, i ricordi, soffusi da un sacro profumo di lontananza, sorgevano in folla frantumati e le immagini lontane riapparivano sbiadite come le vesti giovanili rose dai tarli o come i resti del cerone nelle rughe di una matura gaudente che non vuole arrendersi alla sua incipiente ed inarrestabile vecchiaia. In un panorama di rivendicazioni deluse e di ambizioni sfumate, le colonne antiche del vigore virile e dell’eroismo erano infrante. L’ardore al suon degli speroni era scomparso al momento dell’amaro risveglio dall’ipnosi della fallace grandezza che aveva contraddistinto l’epoca imperiale. Il Duce di Gargnano, dove le giornate scorrevano mute, uniformi e silenziosamente disperate, era ormai solo un simbolo vuoto: viveva tanto per vivere, trascinandosi senza gioia in attesa di improbabili tempi migliori. Sicuramente pensava alla morte come se fosse un gradito, sospirato e meritato sollievo.

E’ significativo a questo riguardo un fatto. Ha scritto Marcello Trinali: “Verso la fine del 1944 Mussolini chiamò presso di se il prof. Goffredo Coppola, Rettore dell’Università di Bologna, e gli consegnò uno scritto da pubblicarsi su “Critica Fascista”, di di cui Coppola era il direttore. Quel componimento era una giustificazione morale del suicidio, con riferimenti storici e filosofici. Dal tono accorato di Mussolini, dalla sua espressione triste e severa, Coppola ebbe l’impressione che il Duce avesse meditato sull’eventualità di un suicidio in caso di sconfitta e che volesse lasciare un documento dal quale risultasse che egli considerava quell’atto non come una manifestazione di viltà, ma un gesto necessario, quasi doveroso, in determinate circostanze”.

Il Duce era un mito scalzato dal piedistallo in cerca di spiegazioni per giustificare una tribolata esistenza sconvolta dal disorientamento prodotto da tutto ciò che era per lui fittizio e privo di contenuti. I dubbi gli tormentavano la mente, l’esasperazione non gli concedeva tregua e le complicate difficoltà lo irritavano più del dovuto. Talvolta interrompeva bruscamente un discorso, un’altra era paralizzato per un attimo da una temporanea amnesia, un’altra ancora si estraniava improvvisamente e guardava incantato fuori dalla finestra dello studio in cui lavorava stancamente. Rivivendo sé stesso nel turbinio di una serie infinita di prodigiose avventure, si esaminava, si analizzava e si giudicava, annaspando tra le onde del bene e dell’inevitabile male, una partita sempre attiva nel bilancio dell’uomo qualunque come pure in quello del genio incompreso o di chi si ritiene presuntuosamente di essere tale. La caduta dell’astro mussoliniano era la fine di uno stordimento, l’eclissi di ogni rumore di gloria, il crollo delle illusioni che avevano perfidamente cullato le notti di coloro che avevano fatto del fascismo una vitale ragione di vita.

A causa della vacillante volontà, il proconsole di Salò non trovava altro rifugio e conforto se non in quello rappresentato dalle ingannevoli chimere della sua fervida immaginazione. Gli ideali di un tempo avevano perso giorno dopo giorno lo smalto di prima. Erano diventati un sogno, calpestato dai fatti avversi, che doveva essere coltivato affinché non svanisse come la neve al sole di un limpido mattino. A venir meno era la carica di energia vitale necessaria quando si deve continuare a lottare con l’impegno profuso in precedenza. Costretto a fare continuamente i conti con l’alleato-occupante, inconsciamente attivava un processo mentale il quale lo portava ad adeguarsi senza fare troppi sforzi alla precarietà della situazione contingente. Cercando colpe da addossare a sé stesso, risaliva a Noè che, fermentando l’uva, era il diretto responsabile di tutti gli alcolismi a venire.

Con lo stato d’animo dell’agnello a Pasqua, con lo sguardo ansioso di chi teme di scoprirsi escluso e con l’apprensione di un ragioniere a cui non tornano i conti, sembrava avere una sorta di filosofia per la quale il non fare niente, il minore dei mali, diventava il modo migliore per non precludersi la possibilità di scegliere tra più strade e, forse, per trovare ad un certo punto quella, del tutto inattesa, che si sarebbe improvvisamente aperta per motivi casuali. Quelli che lo frequentavano in quei giorni ne notavano la trasparente tensione emotiva, una specie di distacco dalla realtà e di fatalismo che si traduceva nella incapacità di scegliere, di decidere e di comandare con l’imperio di un tempo.

Mussolini parlava del passato, del presente e del futuro fondendoli in un pensiero solo, in un unico rammarico. Era convinto che l’ideologia fascista fosse per l’Italia un lusso che gli italiani non potevano permettersi, un qualcosa di troppo grande e fuori di misura. Il suo pensiero era questo: se è vero che il fascismo era stato un fatto squisitamente autoctono nella sua ragion d’essere storica e nel suo divenire fenomenologico, era altrettanto vero che quello italiano era certamente il contesto meno idoneo a gestire la spinta sociale che ne costituiva il presupposto ideologico. Un limite e una penalizzazione antropologica di carattere fisico e culturale che non avrebbe tardato a rivelarsi non appena fosse cessato il clamore dei trionfalismi, dei momenti facili e della romanità fatta di cartapesta, quando cioè sarebbe giunto il momento impietoso delle prove senza possibilità d’appello.

Balenii di sfasate reminiscenze si rincorrevano nei chiaroscuri dell’angosciata mente del dittatore per ricomporsi in un diorama di scene da lui vissute in una epoca di cui aveva un struggente rimpianto e una appassionata memoria. Intorno al Duce e con il Duce viveva un popolo percosso dalla sconfitta, incattivito dalla lotta fratricida e sbalordito dal fatto di aver visto crollare tutte le sue illusioni. Roma antica era morta tra le braccia dei gladiatori, la Grecia tra quelle dei sofisti, Bisanzio tra le grinfie degli eunuchi, la RSI stava morendo tra le spire avvolgenti dei partigiani pronti a disperderne le ceneri nel momento in cui si sarebbe diradata la mortifera caligine che oscurava la loro orgia degradante, una miserabile beccheria calata sull’Italia come un sudario, una lotta senza esclusione di colpi ed uno spurio lavacro vermiglio dove scorreva a fiumi il sangue fraterno.

A dispetto di ciò il leader fascista ricercava nell’amato rumore della folla l’assordante silenzio della sua clausura, forgiava anadiplosi, artifici retorici che pensava potessero risolvere i suoi problemi, qualificava le sue asserzioni come simboli o come apologhi e accampava arzigogoli e cavilli con l’illusione di adonestare la propria avvilente condizione rispetto agli equilibrati giudizi del popolo italiano e, fors’anche, di fronte alla sua resipiscente coscienza. Sebbene sentisse lo starnazzare sinistro del dodicesimo avvoltoio di Roma, nemmeno l’approssimarsi dell’infausto annunciatore della rovina della Patria, e la melopea ad esso collegata, riusciva a sollevarlo da quella tetra abulia ed a disincantarlo da una fatalistica e rassegnata attesa dell’ineluttabile epilogo finale, tragica parodia di un incantesimo che sembrava averlo catafratto in un vortice di ferali presentimenti.

Chiuso nel ruolo autocommiseratorio di “Prigioniero del Garda”, invischiato ancor più nella ossessiva disamina degli incartamenti, il Duce era preso da scrupoli esasperati e maniacali per faccende del tutto insignificanti rispetto alla dramma di una guerra che aveva coperto la Nazione di lutti e di rovine. Era in balia di una mistica concezione per la quale non poteva immaginare di restare superstite allo sfacelo di ideali, di situazioni e di strutture coincidenti con il suo mondo interiore: aveva ormai lucido il presentimento della morte che lo aspettava alle porte di Giulino di Mezzegra. Sul Garda si rincorrevano, ammantati di una serietà fittizia, Ministri, gerarchi, funzionari, nostalgici e avventurieri consciamente concordi di vivere in un mondo irreale, un mondo dove esisteva solo l’angoscia di ciascuno e l’impegno profuso da tutti nel tentativo disperato di sfuggirla per non doverne subire le disastrose conseguenze.

Per sopravvivere bisognava accantonare le incertezze, vincere le paure, essere insensibili a qualsivoglia richiamo nostalgico, decisi sul da farsi e, soprattutto, sinceri con sé stessi e con i compatrioti maldisposti a tollerare ulteriori infingimenti e gratuiti quanto inutili soprusi. Mussolini si era, invece, asserragliato ancor più in un deprimente isolamento spirituale, abbassando ogni mattina una nuova saracinesca e continuando a delirare sulla utilità della “Guerra ideale del fascismo”, un criterio con il quale il regime voleva soddisfare le proprie ambizioni rivoluzionarie e vedere riconosciuto quel ruolo civilizzatore che si vantava di aver ricoperto. Il conflitto armato era ormai sostenuto da una sparuta combriccola di pochi uomini risucchiati dal funereo clamore della sconfitta ed accodatisi alle salmerie dell’esercito nazista sotto la cui egida intollerante erano costretti a combattere per difendere il loro onore.

Invece di blaterare sul significato recondito di “Guerra fascista” e su quello ancor meno comprensibile di “Patria fascista” avrebbe dovuto fare una estrema e vibrante invocazione alla concordia nazionale, un appello che doveva scaturire dalla fiamma del rogo dove erano stati inceneriti i diplomi delle prerogative di parte e le ipoteche dei vecchi rancori. Viceversa, le decisioni prese da Mussolini non avevano forza propositiva e persuasiva perché mancavano del requisito essenziale: l’aderenza ad una finalità che fosse sia pur lontanamente conseguibile. Rinnegando antiche consuetudini, ignorava l’arte sottile del negoziato, il fascino offerto dalla oculata diplomazia e l’ebbrezza provocata  dal rischio calcolato, espedienti che di norma sono utilizzati da chi gestisce abilmente il proprio potere. I discorsi del Duce erano un artificioso sussulto oratorio, un guizzo di demagogia pronunciato senza enfasi e senza convinzione.

Dopo aver salito i gradini più alti della scala sociale, il Duce, segnato dalle impronte di un sepolcrale destino, con un salto era quasi tornato alle sue umili origini anagrafiche. Intorno al leader fascista regnava una incomprensione assoluta ed un vuoto esasperante perché le manifestazioni di riconoscenza e di cortesia, qualora le avesse meritate, non rientravano più nelle consuetudini quotidiane. Non si può revocare il dubbio che il dittatore era solo, che sapeva di esserlo e che faceva della solitudine l’unica forza su cui poter contare. Immobile come una trave, non dava confidenza a nessuno, era succube delle turbolenze domestiche e sentimentali per una priapica e morganatica carnalità inesausta, amministrava la Repubblica di Salò per gradi di prossimità, si inabissava in un delirio di sopravvivenza ad ogni costo, si eccitava a fare il violento davanti allo specchio, era costretto ad accettare uno stillicidio di contestazioni, suscitava la riverenza al posto dell’intimità, l’affettazione invece della spontaneità ed il dispetto anziché la cortese attenzione.

In un silenzio carico di tensioni, recitava sommessamente il Confiteor con il Mea Culpa senza essere attorniato dai consoci del sodalizio fascista ai quali dava ad intendere che non avrebbe mai pregato. Il tutto tra scaramucce al di qua e al di là del lago, tra squallidi allineamenti e coraggiose sortite, tra contributi pregevoli e piaggerie accademiche, echi di una battaglia senza quartiere che pretendeva di essere il nerbo di una scuola di moralità. Sullo sfondo di questo contesto sociale prendeva sempre più corpo una piccola borghesia rampante, sempre verde in ogni periodo storico, che traduceva in soldo sonante ogni gesto esteriore di supina obbedienza e di volontaria subordinazione.

Trascorso il periodo più o meno acuto delle nostalgie, dei rimpianti e dei rimorsi, Mussolini si abbandonava al conformismo delle idee, dei pensieri e delle abitudini, si adattava alla monotona routine ordinaria e si adeguava svogliatamente alla realtà per inserirsi senza sforzo nel poco edificante quadro generale. Il trapasso volubile da un’idea all’altra dimostrava l’instabilità del suo carattere indeciso. L’animi mobilitas, il difetto maggiore che doveva trarlo a rovina e portarlo a morte, lo condizionava senza dargli un attimo di tregua. Era in pratica un uomo deluso dai cocenti disinganni sulla giustizia, sull’equità, sul ruolo della dottrina e sul rigore della prassi. Poteva ribellarsi o tacere. Non si ribellava essendogli venuto meno il coraggio o perché non era disposto a sacrificarsi per la salvezza e le libertà comuni. Non sapeva tacere e serbarsi puro ed intatto per gli scontri futuri perché era più facile secondare i facili compromessi piuttosto che dimostrare una rigida intransigenza. Convinto di essere un trastullo della sorte nato nel posto sbagliato, si era aggiogato al carro dei meschini di spirito e ogni idea che gli veniva in mente aveva ora un prezzo di mercato. Non aveva capito che il destino adatta l’ordito della sua trama a quello che l’uomo fa per sopravvivere decorosamente.

Scansando gli apostrofi scurrili, timidamente e stentatamente contestava o chiariva con poche parole qualche particolarità asserita da chi lo interloquiva, giungendo a delle conclusioni quasi sempre contraddittorie e formulate in modo inappropriato. Se compilava una cronaca o un promemoria scartava la verità ed in sua vece assumeva a fonte informativa e probativa l’ipotesi, dimostrando di appartenere a quella “scuola” gnoseologica del pensiero che nega la reale conoscenza del tempo trascorso, sostituendovi a tutti gli effetti la supposizione di un fatto immaginario che si sarebbe dovuto compiere qualora il vero accaduto non si fosse realmente verificato. Una protasica interpolazione derivante dall’idea fissa di voler modificare a suo piacimento ciò che era stato per il solo fatto di non averlo affatto gradito.  

Era abituato a seguire alcuni attaccagnoli sentimentali (l’affinità di ideali politici con i nazisti) che a seconda dei casi rivolgeva a proprio profitto o metteva in dimenticanza, sempre convinto che l’opinione pubblica lo seguisse condiscendente nei suoi andirivieni. Nutriva una inestinguibile avversione ed una torturante gelosia per il regime di Adolf Hitler con il quale si era alleato in un patto di vita o di morte, ma del quale aveva paventato la potenza egemonica ed invidiato le esaltanti vittorie militari. A Gargnano vedeva nemici dappertutto: nel cupo sepolcrale silenzio della loggia massonica, nell’incerta luce della sinagoga, nell’abbagliante luccichio dell’oro degli industriali e nelle fredde sale del Vaticano. Costretto a combattere ipocritamente con bassi interessi, con volgari ambizioni e con congreghe sospette, era incapace di disancorarsi dalle ripetitive usanze giornaliere e di compiere qualsiasi sforzo di volontà. Ripiegava abitualmente nella critica cavillosa per giustificare in qualche modo questa sua organica inettitudine operativa. Abbattuto e stanco, non desiderava altro che impiccarsi ad un aratro al tempo della semina.

Poiché qualche residuo demiurgico covava ancora nella mente del capo del fascismo repubblicano, oggi recriminava il quietismo degli strati sociali più elevati, domani il nichilismo psicologico dei ceti rurali ed il giorno dopo l’assenteismo poco patriottico delle masse operaie che reclamavano con un coro di critiche e di proteste l’adeguamento dei loro stipendi alle modificate condizioni della vita. Al colmo delle deprecazioni per le sventure subite, finiva sempre per trovare un motivo che gli impediva di ristabilire la fiducia nelle qualità del popolo italiano. Declinante nello spirito e nel corpo, aveva abdicato verso una clientela di famiglia e, alla fine, verso quella di un gabinetto privato al quale non doveva rendere conto delle decisioni prese e di quelle che avrebbe maturato in un futuro. Infatti, non cercava più collaboratori, ma si affannava per trovare solo dei complici consenzienti. Reclamare un aiuto da chi non lo poteva dare significava tentare di esorcizzare la propria impotenza e di mascherare l’immagine di un Duce sconfitto e votato all’abbandono.

Spesso ascendeva a generalizzazioni risultanti dal confuso affastellamento di elementi eterogenei, incompleti od inesatti, su cui ostinatamente si impuntava sospinto sulla posticcia ribalta della scena da un coro di voci discordi. Allora si affannava per rettificare, volgendo gli occhi in giro per trovare un appoggio, e si esauriva nella ricerca di ulteriori espedienti idonei a sorreggere e ad omologare gli asserti contestati. Deleteria deficienza se si considera che non di rado siffatte empiriche e sconclusionate elucubrazioni mentali venivano elevate a guida del suo operato politico o intronizzate a postulati di un dogma generale. Con il medesimo metodo sommario ed arbitrario perveniva, a volte, a considerazioni incompatibili con quelle precedenti. Con assoluta indifferenza esigeva che queste venissero accettate, al pari delle prime, come rivelazioni veritiere. Era restio alle lunghe e metodiche riflessioni, agli scandagli di fondo ed alla costanza e freddezza dell’indagine. Ciò gli impediva di sceverare, nella disamina dei problemi, le cause vere da quelle occasionali e di coglierne i significati essenziali. Il che era la spia di uno stato d’animo contrastante ed altalenante che oscillava tra pessimismo e ottimismo (moderato), tra attivismo (modesto) e passività, tra autoillusione e scarso realismo. Non sapendo cosa sarebbe accaduto sperava soltanto che non avvenisse il peggio senza rendersi conto che il peggio era proprio il conformarsi ad aspettare indolentemente il tutto o il niente.

Oltre a cambiare opinione, come mutano la loro direzione i galletti segnavento, Mussolini era solito mentire e la sua menzogna era così smaccata che chi lo ascoltava stentava a credere anche il contrario di quello che lui aveva detto. Volubile ed insicuro, goffamente ricascava nei e si impuntava ostinatamente sui grossolani errori in cui era incespicato anni addietro, non essendo capace di fare un uso proficuo delle esperienze vissute. Era del tutto privo di quell’accenno di metodo che anche un cieco riesce ad intravedere nelle follie di Amleto. Da qui le autoaccuse con sprazzi di disgusto, di sarcasmo e di  disprezzo che, riaffiorando da sentine borboniche, sommergevano i sentimenti risorgimentali i quali lo vincolavano al passato. Un modo di fare che sconcertava ed irritava i circoli politici e quelli militari, ne deprimeva la fiducia e l’operosità e forniva concludenti motivi all’alleato tedesco per sospettare della lealtà del governo della RSI.

Tuttavia, i mesi passavano ed obliteravano, lasciando per la strada i trasalimenti della memoria di chi non sapeva dimenticare o di chi non voleva rinunciare alla straziante sovrapposizione del presente con il ricordo di un passato difficile da accantonare. Tutto era naufragato in una atmosfera dozzinale, da romanzo d’appendice, con personaggi più o meno banali incerti tra la magniloquenza dannunziana e la vacuità borghese dei “telefoni bianchi”. Un disorientato vagabondaggio tracciato sulle peste di tortili ricordi che l’aguzzata attesa di prelibati sapori e di ineffabili aromi (una vittoria militare) non riusciva a dissipare del tutto. Sotto la pressione degli avvenimenti esterni, bellici e politici, e sotto i colpi della disillusione interiore, il comportamento del Borgomastro di Gargnano denotava un’atonia intellettuale e rivelava il disorientamento, facilmente percettibile, che gli impediva di comunicare con coloro dai quali si aspettava se non solidarietà almeno un poco di calore umano.

 Al termine di un “prometeico” cammino, gli si addebitavano tutti i vizi con la stessa grossolana faciloneria con cui, nel ventennio, gli erano state invidiate tutte le virtù. Per inettitudine del vertice e per proterve incapacità dei collaboratori più stretti, il Duce, abituato ad ottenere un grande successo perché capitalizzava le aspettative di un intero popolo, si era ormai rivelato un prodotto di cattiva qualità, inconsistente, ingannevole e rammollito dalle trascorse esperienze, incluse quelle amorose che non erano mai state gratificanti dal punto di vista sentimentale.

Per molti secoli chi credeva di possedere il segreto di un’arte veniva considerato uno stregone e rischiava di finire sul rogo, nello stesso modo qualsiasi filosofo che avesse osato distaccarsi dal gergo rituale o dalle consolidate figurazioni dei miti correva il rischio di incappare nella accusa di sacrilegio. Così tutti i fascisti, brachicefali o dolicocefali, ricchi o poveri, perseguitati o aguzzini, erano messi alla berlina, bersaglio di rabbiose vendette, per il solo fatto di avere la camicia nera o la tessera del partito: Quisquis adversariae factionis fascium ille fauctor. L’ottenebrante incubo di un lugubre pervertimento del senso logico e della ragione.

Nonostante la propensione protagonistica, la natura mercuriale, lo spietato atteggiamento di autoaffermazione ed il  ruolo coriaceo che aveva assunto per confondere le apparenze (l’antitesi fra l’entità del carisma e la stabilità del potere), il fondatore dell’impero era un istintivo immalinconito dall’ambiente lacustre che, con l’occhio da disoccupato, si scortecciava e si struggeva uggiolando nel compiangere le proprie sventure. Irenico e non bellicoso, pretendeva che gli venissero riconosciute le stimmate del martire. Pur distaccandosi naturalmente dalle cose, stentava ad allontanarsi da esse. Pur essendo oppresso dal disgusto, non riusciva a rinunciare a tutto ciò che lo disgustava. Pur non volendo fare la fine del sorcio in trappola, confezionava lui stesso i bocconi con il topicida. Pur non essendoci tetto di cui non conosceva i gatti, si sentiva spaesato e fuori dal suo ambiente. Pur sapendo di essere ingannato, era disposto ad ingannare non solo gli altri, ma, soprattutto, sé stesso. Alla realtà aveva sostituito il sogno, all’azione l’inerzia e al fardello della vita le labili suggestioni della fantasticheria. Tali erano le monadi di quel dramma cupo e profondo. Da ciò derivavano le incontenibili contraddizioni che compromettevano il regime e debilitavano il rendimento del Governo repubblicano.

La mano che un giorno aveva saputo reggere le discordanti forze nazionali, costringendole vigorosamente a collegarsi tra loro, ora ricadeva inerte, stringendo un pugno pieno solo di mosche. Chiuso nel sacrario di villa delle Orsoline a Gargnano si gingillava nel tran tran monotono e metodico dell’ordinaria amministrazione ed in un abitudinario e modesto mondo di udienze e di commissioni alternate agli omaggi da ricevere ed alle istruzioni da impartire a coloro che professavano una inconcussa fedeltà al regime.

 La vita di Mussolini era stata una successione di casi imprevisti. Ora che il disastroso epilogo della guerra aveva scacciato il caso non ci potevano più essere sorprese piacevoli. Accasciato dalle preoccupazioni e non ancora immunizzato dai biechi impulsi del livore nei confronti della Monarchia, si sentiva schiacciato dal peso di responsabilità che non riusciva a sopportare da solo. Alcune le poteva condividere con qualche persona fidata. Quelle più gravose, però, pesavano tutte sulle spalle del Duce, spalle non diritte ma bensì ricurve perché piegate dall’usura. Come un fesso caricava sul proprio basto anche le impertinenze degli altri, riprotestava con un frasario generico propositi di resistenza, chiedeva consigli anche alle ombre e si tratteneva da gesti audaci, così accetti al suo carattere, per tema di deludere i camerati della vecchia guardia i quali, in verità, non aspettavano altro che quello. Costoro, oscillando tra finzioni vetero-fasciste e simboliche pulsioni omoerotiche, non costituivano che sparuti nuclei dispersi nella massa labile ed inoperante della tesserata conglobazione. Ciò nondimeno la loro voce critica si faceva sentire con una intonazione bellicosa che sconfessava le inesattezze d’apposizione, analogiche ed estimative, su cui poggiava la strategia del capo diventato vecchio prima del dovuto.

I contestatori non parlavano sottovoce e non agivano con sorniona circospezione. Certi sorrisetti e la mimica che tradivano l’esistenza di pericolose perplessità erano più eloquenti delle indigeste parole con le quali esternavano il loro aspro dissenso. Allora il dittatore accettava la pubblica ammenda pur di mondare il paese dalle colpe commesse dal popolo per demerito di chi amministrava gli interessi del Paese. L’autorappresentazione nel ruolo di capro espiatorio e di cosciente vittima sacrificale di una situazione che passava sopra la sua testa era uno dei topoi a cui non sapeva rinunciare e del quale è giusto dargli il meritato riconoscimento. Cercava ogni pretesto per abbandonare la scena senza avere l’aria del disertore, ma avendo, anzi, quella del perseguitato incolpevole pronto a sacrificarsi sull’altare degli eroi indigeti.

 A volte impassibile come una statua di cera, a volte con una espressione di trasecolata meraviglia, Mussolini non giudicava gli altri, non risolveva i problemi, indugiava aspettando quello che per lui era inatteso, non meditava su ciò che poteva sollevare la gente dall’imbarazzo penoso del momento, non reagiva alle aggressioni ripetute e premeditate dei tedeschi, alternava fugaci atteggiamenti euforici, nonostante le delusioni, ad un realistico pessimismo, trasgrediva le leggi da lui stesso promulgate, non si rendeva conto che lo scollamento tra la popolazione ed il regime era un fatto compiuto, dava soltanto dei titoli riassuntivi alle opinioni che professava, lasciava i pensieri disperdersi con aria di compatimento e le residue forze svanire nel buio di una deprimente apatia alla quale avrebbe posto fine la truce vendetta della consorteria resistenziale.

Con un’aria da furiere azzimato, per non creare allarmismo, taceva quelle verità che avrebbe voluto ignorare o perlomeno conoscere il più tardi possibile (il voltafaccia dei tedeschi). Sempre più incerto e disorientato esaminava i vari piani d’azione elaborati dalle persone che per una ragione o per l’altra gli stavano vicino. Quelli che prevedevano un suo riparo all’estero al momento opportuno erano il più delle volte inaffidabili per la mancanza di un’oggettiva concretezza organica o perché privi di adeguati supporti logistici. Assistito da una schiera di auguri più o meno faziosi, tra i sordi brontolii dell’agitata atmosfera gardesana, esplorava, come gli antichi, le viscere fumanti degli animali immolati sugli altari idolatri per attingervi presagi, utili ammonimenti e divine profezie. Forse si compiaceva di vivere l’ultimo atto del ruolo che l’immaginazione aveva assegnato a quel grand’uomo che ancora si credeva di essere.

In contemporanea, ruminava l’erba sardonica scuotendo la testa sconsolato; scagliava invano, accalorandosi, i fulmini della propria indignazione che si manifestava con assordanti (fatue) imprecazioni e futili anatemi; permetteva al rimpianto di prevalere sul desiderio; si abbandonava ad un progressivo e colpevole declino votato alla catastrofe; teneva bordone alle malefatte dei gerarchi più riottosi; macinava laboriosamente la farina della sconfitta; menava botte oratorie, lanciando strali contro la borghesia, contro gli industriali, contro il conformismo del fascismo curiale e contro il partito stesso; si atteneva alla fattispecie sussiegosa dei formulari; si lasciava suggestionare dai canti delle sirene lacustri; era abbagliato dai simulacri di cartapesta e dai falli posticci (le armi segrete dei nazisti); lanciava appelli di ispirazione nazionalistica e di sapore mazziniano; non sopportava le domande alle quali non sapeva rispondere e si nascondeva esitando sotto il grigio di un umore senza scatti e senza slanci per non uscire dal perimetro di una disarmante desolazione che lo confinava in un lacerante disagio esistenziale. Si comportava come l’asino di Giovanni Buridano morto di fame per non aver saputo scegliere se gli conveniva prima bere e poi mangiare o viceversa.

Infilatasi la giornea, parlava utilizzando le solite allitterazioni con i cui bisticci dialettici era convinto di sgrovigliare qualsiasi intricata faccenda, di ribaltare ogni ostacolo insormontabile, di superare le barriere più frontali e di controbattere le accuse di coloro che lo biasimavano di condurre un doppio gioco sleale nei confronti  dell’alleato tedesco, il quale non avrebbe tardato a ripagarlo con la stessa perfida moneta. Ormai si stava inoltrando in un deserto di doppiezze, di intrighi e di slealtà che non era più capace di dominare con la autorità che derivava dall’incarico che ricopriva. Il vecchio amor proprio, retaggio della vita disagiata di Dovia e  delle randagie giornate svizzere quando doveva pagarsi un amore mercenario e dormire all’adiaccio avvolto nel cappotto, era scomparso come lo erano pure gli sforzi allora fatti per sopravvivere dignitosamente in quella situazione.

Quotidianamente, cercava di combattere l’ostinata persistenza nell’errore (la guerra) o la pervicace adesione a fisime fossilizzate o per lo meno scarsamente aderenti all’ambiente circostante (il potere più che dimezzato). Cupi periodi di accasciamento e di costernazione, peraltro preminenti, si alternavano ad estri di rinfrancata fiducia, di improvvisi recuperi e di bruschi ritorni ad irrigidimenti risoluti. L’irrompere di tali ravvedimenti, di tali emendati atteggiamenti e di tali tendenze non sintonizzabili tra loro era, tuttavia, di breve durata, essendo condizionato più dall’umore passeggero che non dal desiderio di un effettivo e radicale cambiamento. Non era in grado di riprendere la guida della compagine nazionale disorientata e disgregata, di ristabilire una efficace rete di comando e di prendere delle decisioni meditate.

Gli interrogativi sul domani e le loro incognite erano molti, ma, purtroppo, erano destinate a rimanere tali. Mussolini si rifiutava accettare le situazioni nel modo con il quale esse si verificavano, solo quelle a lui favorevoli sembravano attrarre la sua attenzione, una attenzione, peraltro, sfuggevole ed incostante. Il destino, tuttavia, vendeva a caro prezzo ciò che sembrava avergli regalato con doviziosa generosità quando era convinto di non aver lasciato niente all’imprevisto e di non aver fatto nulla con una frettolosa e superficiale approssimazione. In quei giorni si potevano incontrare facilmente fascisti, di grande o piccolo calibro, che inveivano contro il Duce, incolpandolo della rovina in cui versava l’Italia repubblicana.

Una fittizia concitazione intellettuale gli metteva un certo citrato nel sangue e mutava gli aspetti delle circostanze, anche di quelle più banali. Una irrequietezza psicologica la quale non riusciva ad esprimersi liberamente per meglio individuarsi, correggersi e temperarsi. Il senso tragico della vita lo occupava in toto, lasciando trasparire inevitabilmente tutta la sofferenza da cui era compreso. Se sorrideva, fatto raro, sembrava che per portare alle labbra quel sorriso avesse dovuto trarlo faticosamente dal fondo di un abisso. A volte negli occhi sgranati gli si poteva leggere un’allarmante apprensione, se non una vera e propria paura, che rispecchiava l’incertezza del comportamento e la scarsa attenzione indagatrice con cui osservava gli uomini e le cose che popolavano il suo squallido mondo esteriore.

Sommerso da un castello di sogni infranti, rimpannucciato con un abito usato, consumato dai conflitti interiori, scosso dall’evidenza dei fatti negativi, preso da un profondo turbamento affettivo a causa dei dissapori famigliari (l’astio viperino della figlia prediletta Edda moglie del futuro condannato a morte Galeazzo Ciano) e minacciato dal pugno di un vincitore inesorabile il quale lo voleva spedire sul tamburo battente all’altro mondo, era così fragile tanto da far pensare che la sua pelle serviva per ricoprire delle ossa fatte di vetro. Le braccia abbandonate lungo i fianchi ondeggiavano pigramente ad ogni passo come i rosari appesi alla cintura di un frate afflitto da un malessere importuno o da una scontentezza molesta, segni di un preoccupante sbandamento morale o di una indegnità interiore. Le aggressive tendenze del carattere di Mussolini avevano ormai lasciato il posto ad un sentimento di mortificata sopportazione.

Poco fiducioso nell’oggettività dell’analisi e sospettoso della soggettività della sintesi, il dittatore non era più in grado di rivendicare diritti né di assumere obblighi, di impartire ordini e di dare consigli appropriati perché non riusciva a rompere la crisalide di una scontata ripetizione, avendo perso ogni residua capacità decisionale. Di facile contentatura, rimaneva aggrappato alle cose così come si presentavano senza aver la forza di modificarle quando gli tornavano sgradevoli o dannose. Faceva a tutti le stesse promesse, ma non ne manteneva nessuna, non risolveva le controversie che appesantiva ed ingarbugliava come se non lo fossero già abbastanza e lasciava che le stesse ambiguità si ripresentassero come prima pur di non metterci le mani per renderle meno equivoche o meno sibilline. Pur essendo in prossimità con tanta gente, dava confidenza solo a pochissime persone delle quali, a ragion veduta, si poteva ciecamente fidare.

Tali manifestazioni sono tipiche di coloro che si sentono vinti, emarginati, minacciati e diffamati o di chi si vede puntare contro l’indice accusatore della Storia. Mancava quella passione accalorata ed insieme disciplinata che anima la voglia di fare, quella adesione sincera alla causa comune, quella volontà che fosse il centro di convergenza di tutte le forze di cui uno dispone, quella serietà e quello zelo nell’operare che la gravità dell’ora richiedeva. Dando retta ai fascisti intransigenti, privilegiava l’alleanza con i tedeschi i quali continuavano imperterriti a tramare di nascosto le loro arrendevoli mene con gli angloamericani. Una serie di accordi che contemplavano, tra le altre cose, anche il trattamento da riservare alle residue forze fasciste repubblicane.

Prestava orecchio solo alle richieste del giornalista Carlo Silvestri impostosi la missione di riconvertire il Duce ai principi della sua gioventù. Mussolini doveva rimettere i poteri al Partito Socialista d’Unità Proletaria al quale si sentiva legato da una pregressa comunanza ideologica che pensava di sfruttare, a consegna avvenuta, per ottenere salvacondotti ed impunità. Queste eclettiche vergolate orditure restavano, tuttavia, prive di ogni forza conclusiva, come di qualsiasi capacità di persuasione e di penetrazione nella costellazione politica avversaria. I socialisti costituivano, infatti, solo una minoranza se paragonati al numero dei comunisti i quali erano i reali fautori delle strategie politiche di una sinistra pronta ad essere democraticamente integrata nelle istituzioni (la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti).

Nel Borgomastro di Gargnano, la narcisistica vanagloria e l’autoincensamento che si traducevano nella burbanza un po’ grottesca tipica del megalomane baciato dal successo erano completamente scomparse. Attento a non deragliare dai binari del cerimoniale, costretto a celarsi, a mascherarsi e a pentirsi di ogni iniziativa, recitava un copione sempre più in precario equilibrio tra il desiderio di trasgredire e la necessità dell’ossequio al canovaccio. Non riuscendo ad afferrare una realtà così composita e mutevole o avendo della stessa una conoscenza mistificata, era travolto dagli eventi che si susseguivano vorticosamente senza provocare in lui il benché minimo interesse. Sembrava un Duce al seguito dei gerarchi piuttosto che alla loro guida, rassegnato piuttosto che invasato, pacifista piuttosto che bellicoso, povero cristiano anzichè che tetragono fascista, ingenuo più che lucido, patetico più che insidioso, sentimentale prima ancora che politico. Abdicare sè stessi significava scontare duramente questo sconsiderato tentativo il quale non poteva portare ad altro se non ad acuire la propria alienazione. Le pulsioni ed gli sforzi fatti per contenerla non si erano ancora equilibrati per annullarsi nello zero della quiete spirituale che da pace all’animo e sollievo al tormento provocato dalle continue e amare delusioni.

Per giustificare il fallimento di una vita cercava di vivere su di una pianta della quale negava i frutti dopo averne tagliato le radici. Quando discuteva, gli argomenti addotti erano scuciti e senza i nessi della convinzione necessari per persuadere: le sue affermazioni erano inesatte, non provate e prive della dovuta conoscenza di causa. Ormai la dèbacle aveva definitivamente estenuato un concetto romantico (arcaico) di eroe ed il fato, arbitro indiscusso della situazione, faceva il resto completando l’opera. Nel fare una rielaborazione espiatoria delle pregresse esperienze per dare alle stesse una impostazione giustificativa, si comportava come quei mendicanti che rubano ai veri poveri o come Bertoldo il quale, invitato dal Granduca a farlo, aveva solo chiesto ed ottenuto di scegliere l’albero al quale impiccarsi senza trovarlo mai.

Su temperamenti simili (il cui poco malleabile universo mentale è nutrito di riferimenti all’antico e di cultura spiritualista, la cui sensibilità, sempre pronta ad origliare ed a spiare alla porta inaccessibile dell’anima, avvizzisce nell’arido esercizio dell’intelletto, la cui libertà è asservita all’intelligenza e la cui ragione impone di fare solo ciò che l’istinto dice) le combinazioni del caso e gli scherzi del destino hanno ripercussioni gravi in special modo se la vita coronata di ieri, la virile affermazione della volontà, della assidua applicazione, della instancabile pazienza e della tenace laboriosità, e lo splendore dei turbinosi anni trionfali, un iperuranio fastoso e menzognero dal tetro splendore cobaltico, sono destinati ad essere confinati in un calcolato oblio o nella soporifera banalità.

Senza un’ora di tregua la vita del Duce, un tempo epicentro di molteplici attività, era inquinata dall’affanno e piegata dalla trepidazione, limitazioni che, secondo lui, offuscavano con una serie di disvalori il suo comportamento, ne tarpavano le qualità ed appannavano la avveduta lungimiranza, la esemplare longanimità e l’accorta consapevolezza con la quale credeva di governare una Repubblica imposta da  Hitler più con il ricatto che con la persuasione.

Durante la RSI, Mussolini spendeva tutto il peso politico rimastogli per controbilanciare le assurde rivendicazioni dei nazisti i quali, non privi di sale attico, lo spedivano a letto da assassino e lo svegliavano da Cesare di Carnevale. Aveva sempre interpretato l’alleanza con la Germania non in termini ideologici, ma in quelli geopolitici e militari, ritenendo che l’alleato cobelligerante colato nel bronzo prussiano fosse uno strumento per sostenere la politica italiana di espansione in Africa e nel bacino del Mediterraneo, il mare delle soleggiate fantasie e dei tragici risvegli. Una opinione non peregrina sosteneva: meglio perdere la guerra con gli inglesi che vincerla con il Terzo Reich.

Gli insuccessi nella conduzione del conflitto avevano, tuttavia, rivelato il carattere largamente velleitario di un totalitarismo il quale si era assegnato il compito velleitario di trasformare militarmente l’intera struttura sociale del Paese. Era certamente dimentico di quello che aveva detto Ugo Foscolo: “Chiunque ripiglia lo scettro per forza d’armi straniere, non sarà mai temuto da chi l’aiutò, né rispettato da chi gli deve ubbidire”.

Dopo aver tracciato con l’immaginazione il ricamo di una esistenza predestinata con la precisione di una mimesi assoluta, il dittatore, rassegnato alla sconfitta, scalzato dal basamento dove lo avevano collocato i tanti esergo della narcotizzante retorica marziale fascista, continuamente scavalcato dai fatti e dalle circostanze, costretto a riconoscere la forza della legge altrui e straniato da un’epoca che aveva distrutto le sue maliose conquiste, doveva confrontarsi con una oggettività, ben diversa da quella immaginata, che voleva per forza trascendere: una violenta concitazione degna di un notturno druidico per la raccolta del vischio.

La sensazione della catastrofe infronteggiabile, le amarezze e gli insuccessi che ridimensionavano le sue poche rinfocolate aspirazioni, le suggestioni, i capricci artificiosi e le esigenze inottemperabili del suo carattere andavano viste come incidenti di percorso dai quali pensava di potersi affrancare per non sentirsi vulnerabile ed emotivamente compromesso. Le recenti disastrose esperienze belliche e la pesante ipoteca (la sudditanza nei confronti dell’alleato tedesco) che gravava sulle sue decisioni non potevano non portarlo a considerazioni meno pessimistiche di quelle che solitamente soleva fare. Tutto ciò era la diretta conseguenza del prevalere nelle scelte del Duce di un atteggiamento mentale inconciliabile con quelle regole che dovevano essere rispettate e con quelle norme che dovevano essere applicate affinché la conduzione della RSI fosse perlomeno accorta e non la risultante di decisioni improvvisate sulla scorta di repentini ripensamenti e di decisioni affrettate.

L’animo esacerbato ed ipersensibile, abituato in passato a dibattersi tra assoluti sconvolgenti o a lottare contro le soverchianti avversità, non riusciva tollerare l’impossibilità di confessarsi con un amico che poteva rasserenarlo, con il confidente che non aveva mai avuto o con il complice stimolante che sperava ancora di trovare lungo il cammino tortuoso ormai giunto alla svolta finale, quella più impegnativa. Ciò lo addolorava, lo sorprendeva, lo scoraggiava ed era il motivo per il quale si tratteneva dall’agire più speditamente. In un clima di abbandono, nessuno  poteva realizzare le utopistiche pretese accampate da Mussolini con sempre meno ferma convinzione.

Attediate dalla lunga consuetudine con la tristezza, le pupille sconsolate di un uomo cresciuto nel mito della rivoluzione, forgiatosi nelle trincee della grande guerra e diventato capo indiscusso di una Nazione che avrebbe dovuto rinverdire i fasti sontuosi dell’antica Roma, scrutavano, ammiccavano e seducevano, ma non abbagliavano più. Le orecchie, abituate al frastuono di una voce con la pienezza di un coro, soffrivano nell’ascoltare il petulante e stereotipato borbottio con cui dialogava in solitaria meditazione, usando metaforiche parole congeniali al clima crepuscolare dell’Italia governata dal fascismo repubblicano.

Sottoposto ad un incessante logoramento emotivo, indispettito da Didoni incontentabili (Claretta Petacci, amante malinconica) e da Agrippine spietate (Rachele Mussolini Guidi, moglie gelosa), bersaglio polemico di infiniti risentimenti e di indignate reprimende e frastornato da calunnie ritenute ingiuste cercava comprensione e sostegno con la speranza di trovare conforto e solidarietà. In una sorta di esistenzialismo sui generis, il mondo esterno, ostile ed avverso, viveva spettrale nella sua fervida immaginazione. Sperduto nel buio del sesto decennio di vita e desintonizzato dalla propria inquietudine, aspettava che una piccola felicità imprevista lo potesse distogliere dall’ieri e dal domani. Nel fare ciò soggiaceva inevitabilmente ai capricci retorici che avevano contraddistinto certi decadenti e certi ermetici dei quali non si ricordava più il nome. Come un turista intento a guardare solo i ponti e non il fiume, le facciate e non gli interni, san Pietro e non Trastevere, non sospettava di trovare il guinzaglio o la frusta dietro i riccioli rococò.

A volte era magnanimo, mite e generoso, altre volte angusto, inutilmente spietato, intollerante e privo di umana comprensione. Altero nei rari momenti fortunati, si smarriva nella sventura che invece di fortificarlo lo mortificava. L’uomo fattosi costruire piazze e monumenti non riusciva più a vincere la solitudine ed il senso di provvisorio che era ad essa conseguenziale.

Non potendo attingere ad alcuna conoscenza per chiarire i suoi assillanti dubbi e desideroso di riscattare ogni impulsiva sconsideratezza, voleva cancellare con un colpo di spugna, in un disperato duello con la propria coscienza, i torti e le insoddisfazioni che le derisorie manie di grandezza gli avevano infallibilmente procurato. Per fare ciò rimestava baloccandosi nelle melensaggini bozzettistiche, faceva discorsi senza la dovuta conoscenza di causa, raccontava le solite bagole trite e ritrite, si dilettava a distillare i succhi estetici della Storia nazionale, vagheggiava sulle banalità più uggiose durante le pause d’ozio che suscitavano il disprezzo e la compassione dei filistei (i nazisti), si gingillava tra seleucidi moralisti (Alessandro Pavolini) e cartaginesi pentiti (gli irregolari del fascismo C. Silvestri e Nicola Bombacci), ammirando, con vena materica, orizzonti teorici sconfinanti indistintamente nell’illuminismo asburgico o nell’idealismo borbonico.

 Anche se i vinti che il dolore ha reso simili ai veggenti levitici non hanno difficoltà a fare l’autoanalisi ed a spogliarsi della loro individualità quando gli avvenimenti congiurano o quando acquisiscono la certezza assoluta della amara disfatta, il dittatore, pur essendo esercitato ad una approfondita introspezione, non riconosceva i marchiani errori che aveva commesso ed i cui disastrosi effetti avrebbero potuto essere evitati con adeguati sacrifici. Pur oggettivando sé stesso, non riusciva a fornire una risposta plausibile agli interrogativi che lo ossessionavano, a trovare una spiegazione che giustificasse i sospetti che lo perseguitavano, a identificare l’origine remota della paura che lo attanagliava e a dare un senso alla marcia solitaria che stava facendo tra le nude pareti della propria castigata intimità.

 In passato gli si attribuivano opere e meriti degli altri, ora, per la legge del compenso, sbagli ed errori non suoi. Se agiva lo faceva svogliatamente per orgoglio, per ambizione o per conservare la stima altrui e non per il rispetto dovuto a quello che era l’effettivo compito istituzionale impostogli dal destino: far da cuscinetto tra gli epigoni di Hitler, che seminava odio e diffidenza con imposizioni e coartazioni di ogni genere, e i patrioti a cui il Duce avrebbe lasciato in eredità le sostanziali modifiche, in parte già attuate, nel campo delle rivendicazioni sociali.

Poiché ci sono individui audaci dotati di una immaginazione tale da riuscire a scorgere oltre i limiti dell’esistenza sociale regolata dalla consuetudine e dal buon senso tribale, il Mussolini padrone incontrastato della sala del Mappamondo di palazzo Venezia, schietto rampollo di popolo dal ricco ingegno demagogico e dalla statura politica disadatta ai corti panni del reale, aveva tentato di dare alla vita un senso perspicuo ed una dimensione ogni volta diversa fatta di input originali, di traguardi da raggiungere e di cime da scalare. A guidarlo per fare l’apologia di sé stesso era stato una specie d’amore sacerdotale per la perfezione che lo portava a bandire le distrazioni (non quelle sessuali in cui cercava una via di fuga dalla politica), la superbia, i vizi pubblici e la decadenza morale ormai diffusa ovunque. L’abitudine a misurare le proprie azioni sulla base delle loro conseguenze concrete lo rendeva aggressivo, volitivo e, soprattutto, sempre sicuro di sé stesso. Le conferme e gli attestati di fiducia erano per lui cose superflue. Nella sfera della praxis possedeva certamente le influenze delle quali si vantava, frutto di accorgimenti mentali che lo avevano fatto oggetto di un’ammirazione universale.

Questo momento sublime di equilibrio e di appagamento, questo stato esaustivo di esaltazione, di continua ricerca del successo, di bramosia di gloria, di narcisistica gratificazione di essere ammirato da tutti e di premeditato rifiuto di immedesimarsi negli altri per aggrapparsi alla propria sublime identità avevano provocato in Mussolini un tormento contrito che tentava di eliminare per calarsi nella situazione odierna dove le oscure prospettive non lasciavano spazio all’immaginazione, alle deliranti fantasie, agli espedienti dell’iperbole e dell’enfasi, alle perentorie intimazioni di grandezza, alle estrose bizzarrie e men che meno alle cambiali in bianco impossibili da onorare e di cui si era ampiamente servito quando teneva il piede in più scarpe di una calzoleria.

   L’avere le idee confuse, il voler abbreviare il suo golgotha, l’essere coinvolto in un intrigo di antilogie psichiche, l’essere condizionato dal pessimismo, immobilizzato dall’indecisione, invischiato in enigmi insolubili e il conformare tutto ai suoi schemi grossolani, dividendo gli uomini in gigantesche schiere di eletti e di reprobi come farebbe un manicheo dèmodè, gli faceva “Temere quello che sperava e sperare quello che temeva” e spesso “Dire quello che non pensava e pensare quello che non diceva”. Voleva, perciò, rimuovere dalla memoria vecchi ed ingombranti binomi (domande pragmatiche e risposte dogmatiche) per rigenerare il suo animo dalle fondamenta, per puntellare e consolidare la traballante e logora fiducia nelle proprie forze, per reagire alla morta gora sperando di poter recuperare l’ascendente sui collaboratori più stretti, per assimilare con disponibilità e tolleranza elementi estranei ad un certo modo di vedere le cose e per riacquistare il senso delle giuste proporzioni onde considerare, con spirito pratico e senza pregiudiziali, proposte ragionevoli che in altri momenti gli avrebbero consentito di adottare dei provvedimenti non inopportuni, ma bensì provvidenziali e tempestivi come richiedeva la situazione di quel particolare momento.

Alla fine della sua avventura, Mussolini avrebbe dovuto puntare sul dannunzianesimo piuttosto che sul machiavellismo. Il primo forse non lo avrebbe salvato, il secondo sicuramente ha fatto di tutto per perderlo nel peggiore dei modi: fucilato davanti ad un cancello insieme all’amante che urlava: “No!  Il Duce non deve morire”.

 

 

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