N. 31 - Luglio 2010
(LXII)
MUSEO EBRAICO DI BERLINO
un Esempio di “architettura emozionale”
di Alessia Alasso
“Architecture
is a
language”
è
questo
il
concept
che
nutre
l’architettura
di
Daniel
Libeskind
e
che
viene
concretizzato
attraverso
una
delle
sue
più
importanti
opere:
il
Jüdisches
Museum
(inaugurato
nel
2001).
Originariamente,
il
progetto
nasce
per
ampliare
il
preesistente
edificio
storico
del
Museo
di
Berlino,
inserendosi
nel
quartiere
barocco,
il
Friedrichstadt
sud,
distrutto
dalla
guerra.
Ma
Libeskind
non
si
lascia
influenzare
dall’architettura
che
avvolge
il
“vuoto”
che
andrà
a
colmare
con
la
sua
opera,
negando
il
tessuto
urbano
esistente;
l’originaria
idea
di
ampliamento
e di
integrazione
al
Museo
preesistente
viene
stravolta
da
un
progetto
che
riassume
la
storia
degli
ebrei
in
Germania.
L’architetto
ha
definito
il
suo
progetto
“between
the
lines”
perché
è
proprio
tra
una
serie
di
intersezioni
di
linee
che
dà
vita
a un
corpo
edilizio
scultoreo,
dal
profilo
drammaticamente
spezzato,
che
riprende
la
forma
geometrica
di
una
saetta;
da
qui
il
soprannome
blitz,
che
in
tedesco
significa
fulmine.
Un
taglio,
una
ferita
che
scolpisce,
graffia
il
disegno
urbano
della
città;
un
segno
forte
percepibile
dall’osservatore
esclusivamente
attraverso
una
vista
aerea,
che
si
materializza
anche
tramite
il
rivestimento
esterno
in
zinco,
anch’esso
“squarciato”
da
aperture
oblique
di
diverse
dimensioni.
Il
museo
è un
volume
che
si
chiude
in
se
stesso,
privo
di
qualsiasi
contatto
con
la
città;
non
ha
un
accesso
diretto
dall’esterno
e
per
poter
accedere
bisogna
passare
dal
vecchio
edificio.
L'entrata
al
museo
è
stata
intenzionalmente
resa
difficile
e
lunga,
per
far
rivivere
al
visitatore
il
difficile
cammino
della
storia
ebraica.
L’ingresso
è
costituito
da
uno
squarcio
su
una
parete
bianca
e
conduce
a
degli
spazi
caratterizzati
da
un
gioco
di
muri
bianchi,
neri,
spigolosi,
inclinati
che,
grazie
anche
alla
luce
fredda
emessa
dai
neon,
accentuano
la
sensazione
di
tensione,
di
angoscia
e di
dolore.
Una
rampa
di
scale
che
collega
i
due
edifici
conduce
a un
sotterraneo
scomposto
in
tre
assi,
una
sorta
di
tridente,
che
simboleggia
i
diversi
destini
del
popolo
ebraico:
l’asse
dell’Olocausto
confluisce
a
una
torre
denominata
la
Torre
dell'Olocausto;
l’asse
dell’Esilio
conduce
a un
giardino
quadrato
esterno,
denominato
Giardino
dell’Esilio;
l’asse
della
continuità,
collegato
agli
altri
due
corridoi,
rappresenta
il
permanere
degli
ebrei
in
Germania
nonostante
l’Olocausto
e
l’Esilio.
Il
percorso
che
conduce
alla
torre
dell'Olocausto,
parte
da
un
muro
nero.
Il
nero
diventa
il
simbolo
della
tragica
assenza
di
razionalità
e
amore,
il
simbolo
del
“sonno
della
ragione”.
Al
termine
della
strada
ci
si
trova
di
fronte
a un
portone
imponente,
ad
li
là
del
quale
si
apre
la
torre:
una
struttura
completamente
vuota,
buia,
circondata
da
alte
pareti
in
cemento.
Non
c’è
nessuna
finestra
da
cui
guardare,
ma
soltanto
una
stretta
feritoia
posta
in
alto,
dalla
quale
riesce
a
filtrare
la
luce
diurna.
È
impossibile
vedere
fuori
e
capire
dove
si
è,
così
come
accadeva
agli
Ebrei
nei
campi
di
concentramento.
L’aria
entra
attraverso
piccoli
fori
praticati
su
una
parete,
che
richiamano
quelli
attraverso
cui
veniva
immesso
il
gas
nelle
camere
di
morte.
Simbolica
diventa
anche
una
scala
metallica
a
circa
due
metri
e
mezzo
dal
pavimento;
mezzo
di
salvezza
e di
speranza
che
ha
nutrito
gli
animi
degli
ebrei,
ma
qui
è
irraggiungibile,
così
come
la
salvezza
di
molti
di
essi.
Durante
il
percorso
a un
tratto
la
materia
si
“smaterializza”,
il
pieno
viene
svuotato
per
condurre
il
visitatore
a
meditare;
sono
pause
di
raccoglimento
e
silenzio.
Il
vuoto,
tema
dominante
del
museo,
assume
un
grande
significato:
l’impossibilità
di
colmare
secoli
di
sofferenze
e di
dolore.
Ma a
tratti
questo
silenzio
viene
interrotto
dal
suono
freddo
del
metallo:
sono
i
visitatori
che
addentrandosi
nel
grande
vuoto
calpestano
una
fitta
e
assordante
distesa
di
piccole
facce
di
ferro
dalla
bocca
sbarrata
in
un
urlo.
Proseguendo
si
incontra
il
secondo
asse
che
conduce
al
Giardino
dell’Esilio;
attraverso
una
porta
vetrata
si
entra
in
contatto
apparente
con
l’esterno.
Un
alto
muro
di
cemento
avvolge
la
superficie
quadrata
del
giardino
in
modo
tale
che
dall’esterno
non
si
possa
vedere
nulla.
Dentro
il
giardino,
quarantanove
colonne
quadrate
in
cemento
armato
svettano
in
cielo,
recando
in
sommità
degli
alberi,
definendo
una
sorta
di
labirinto
che
reca
anch’esso
la
sensazione
di
disagio.
Il
numero
delle
colonne
serve
a
ricordare
la
data
di
nascita
dello
Stato
di
Israele
(1948)
e la
colonna
in
più,
centrale,
rappresenta
la
città
di
Berlino.
Gli
alberi,
gli
olivagni,
simbolo
di
pace,
collocati
in
contenitori
stretti
(che
ne
rendono
difficile
la
crescita)
rappresentano
invece
la
forza
e il
coraggio
degli
ebrei
esiliati.
L’uso
di
un
piano
di
calpestio
inclinato
di
sei
gradi
è
stata
una
tecnica
voluta
da
Libeskind
affinché
il
visitatore
provasse
la
stessa
sensazione
di
straniamento
e
disagio
che
hanno
provato
gli
ebrei:
camminando
tra
i
pilastri
si
prova,
infatti,
una
straniante
mancanza
di
equilibrio.
Infine,
la
terza
strada
è
rappresentata
da
una
lunga
scala
che,
col
suo
moto
ascensionale,
accompagna
il
visitatore
alle
sale
espositive
disposte
su
tre
piani.
Questo
è un
percorso
illuminato
attraverso
lucernari
e
finestre
laterali.
La
sua
linearità
simboleggia
la
continuità
della
storia
e la
consapevolezza
del
fatto
che
la
vita
va
avanti,
che
esiste
una
speranza
di
salvezza.
Ma,
percorrendo
la
scala,
lo
sguardo
viene
drammaticamente
“attaccato”
da
intrecci
di
travi
strutturali
inclinate
che,
come
schegge,
penetrano
nei
muri
che
camminano
parallelamente
alla
scala
rendendo
lo
spazio,
ancora
una
volta,
teso
ed
emozionante.
Loro
funzione
è
inoltre
quella
di
ricordare
l’imprevedibilità
della
storia.
Il
Museo
Ebraico
di
Berlino
testimonia
dunque
la
forza
espressiva
di
un’architettura
capace
di
essere
“compresa”
senza
bisogno
di
intermediazioni.