N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
MUSEI E LETTERATURA
ESEMPI DI immagini di musei nei romanzi e loro interpretazione – parte I
di Maria Laura Corradetti
Definizione
di
museo
secondo
l’ICOM
(acronimo
per
International
Council
of
Museums,
organizzazione
mondiale
fondata
nel
1946
sotto
l’egida
dell’UNESCO.,
che
riunisce
i
musei
e i
professionisti
museali
di
136
paesi):
«Il
museo
è
un’istituzione
permanente,
senza
fini
di
lucro,
al
servizio
della
società
e
del
suo
sviluppo,
aperta
al
pubblico,
che
svolge
ricerche
riguardanti
le
testimonianze
materiali
e
immateriali
dell’uomo
e
del
suo
ambiente,
le
acquisisce,
le
conserva,
ne
cura
la
comunicazione
e,
in
particolare,
le
espone
per
fini
di
studio,
di
istruzione
e di
diletto».
Il
museo,
coerentemente
con
la
sua
etimologia
(il
nome
evoca
le
Muse
che
erano
figlie
di
Zeus
e di
Mnemosine,
dea
della
memoria)
assolve
il
compito
di
preservare
nella
memoria
presente
e
futura
gli
oggetti
(e i
loro
significati)
facenti
parte
della
sua
collezione.
Ma
il
museo
come
viene
rappresentato
in
letteratura?
E
soprattutto
nell’immagine
che
ne
viene
data
si
possono
rinvenire
caratteristiche
e
peculiarità
proprie
di
questa
istituzione?
Nel
passare
in
rassegna
thrillers
(Il
codice
da
Vinci),
racconti
fantascientifici
(Robbie),
di
letteratura
per
ragazzi
(Guidoberto
e
gli
Etruschi),
di
tipico
humour
britannico
(Tre
uomini
a
zonzo),
di
educazione
sentimentale
(Camera
con
vista),
o
venati
di
una
sottile
atmosfera
horror
(La
Venere
d’Ille),
o di
ritratto
di
giovane
insofferente
alle
ipocrisie
e al
conformismo
della
vita
(Il
giovane
Holden),
il
museo
sembra
uscirne
indenne
e
sempre
uguale
a se
stesso.
Scrigno
di
tesori,
di
testimonianze
che
tutela
per
il
nostro
godimento,
per
questo
si
attiva
in
iniziative
divulgative
e
didattiche
instaurando
con
il
pubblico
però
un
rapporto
emotivo
complesso,
potremmo
dire
ambivalente
di
amore/odio.
Il
museo
può
essere
percepito
come
motivo
di
orgoglio,
spesso
riflesso
e
vestigia
di
un
passato
glorioso
di
cui
vantarsi,
o
come
scotto
culturale
cui
la
collettività
deve
socialmente
soggiacere,
laddove
sia
deprecabile
confessare
un
disinteresse
nei
suoi
confronti.
«Il
museo
nasce,
dunque,
dalla
forzatura
del
destino
delle
cose
per
renderle
durevole
e
anche
accessibili.
Sottrae
al
mondo
per
restituire
al
mondo
e il
dover
agire
fra
questi
due
estremi
rende
la
sua
natura
intrinsecamente
conflittuale.
Tutte
le
sue
attività,
infatti,
devono
conciliare
esigenze
opposte,
che
non
sono
quelle
delle
persone
rispetto
a
quelle
degli
oggetti,
ma
quelle
della
generazione
presente
rispetto
a
quelle
delle
generazioni
future:
fruizione
versus
conservazione.
[…]
Il
museo,
così,
agisce
in
una
perenne
tensione,
che
ne
mette
continuamente
in
gioco
la
sopravvivenza
ma,
nel
contempo,
lo
rende
capace
di
adattarsi
al
mutare
delle
circostanze
storiche.
Dovendo
continuamente
giustificare
la
necessità
della
propria
esistenza,
il
museo
è
infatti
costretto
a
ripensare
e
ristabilire
incessantemente
il
proprio
equilibrio
interno.
La
difficoltà
di
darne
una
definizione
soddisfacente
come
fenomeno
culturale
deriva
proprio
dalla
sua
congenita
instabilità»
(M.V.
Marini
Clarelli,
Il
museo
nel
mondo
contemporaneo:
La
teoria
e la
prassi,
2011,
pp.
32-33).
Nella
letteratura
il
museo
può
essere
inteso
come
status/obbligo
sociale,
come
luogo
d’incontro,
come
luogo
di
educazione,
come
centro
di
studio,
sino
a
divenire
utile
termine
di
paragone
per
metafore
di
varia
natura.
Il
romanzo
Tre
uomini
a
zonzo
si
presta
come
esempio
di
status/obbligo
sociale:
«Stoccarda
è
una
città
incantevole,
linda
e
allegra
–
una
piccola
Dresda.
Ha
in
più
il
pregio
di
contenere
poche
di
quelle
cose
che
il
turista
deve
per
forza
vedere;
una
pinacoteca
di
modeste
dimensioni,
un
piccolo
museo
di
antichità,
una
mezza
reggia,
ed
ecco
che
il
turista
ha
compiuto
interamente
il
suo
dovere
ed è
libero
di
divertirsi»
(Jerome
K.
Jerome,
Tre
uomini
a
zonzo
[1900],
1978,
p.
146).
Nell’immaginario
comune
il
museo
è la
naturale
destinazione
di
ogni
oggetto
che
possieda
un’importanza
documentale,
tant’è
che,
di
contro,
la
presenza
di
un
oggetto
all’interno
di
una
struttura
museale
attribuisce
allo
stesso
un
acritico
riconoscimento
di
valore.
Il
museo
è
però
spesso
immaginato
come
un
luogo
buio,
polveroso
e
noioso.
In
tutto
questo,
perciò,
la
visita
in
un
museo
talvolta
non
è
sentita
come
attività
educativa
e
nemmeno
come
svago
culturale
(il
discorso
non
cambia
se i
protagonisti,
qui
impegnati
in
una
vacanza
in
Germania
lungo
la
strada
Berlino-Dresda,
vivono
sullo
scorcio
del
XIX
sec.).
I
motivi
che
spingono
le
persone
a
investirvi
del
tempo
conferiscono
al
fenomeno
una
connotazione
diversa
da
un
nobile
interesse
personale.
In
particolare
durante
le
vacanze,
questo
tipo
di
sollecitudine
addirittura
pare
decrescere
rispetto
alla
vicinanza
geografica
del
museo,
giacché
spesso
e
volentieri
l’intenzione
di
visitare
un
museo
si
fa
progressivamente
più
forte
quanto
più
la
sua
distanza
renderebbe
poco
probabile
la
ripetibilità
dell’occasione.
Si
innesca
una
particolare
dinamica
per
cui,
alla
stregua
delle
collezioni
principesche
e
aristocratiche
che
nei
secoli
passati
erano
un
chiaro
segno
di
status
sociale
oltre
che
di
potenza
politico-economica,
l’essere
stati
in
un
certo
museo,
soprattutto
se
di
prestigio
internazionale,
è
percepito
come
un
riconoscimento
della
propria
levatura
intellettuale
e
sociale.
Il
turista,
per
non
sminuirsi
agli
occhi
della
collettività
mettendo
in
dubbio
i
propri
interessi
culturali
e la
sua
capacità
di
riconoscere
quegli
eventi
che
lo
qualifichino
come
à
la
page,
“si
vede
costretto”
ad
andare,
ancorché
sbrigativamente,
nei
musei.
La
visita
al
museo,
a
tutti
gli
effetti
un
impegno
estenuante
da
un
punto
di
vista
fisico
oltre
che
intellettuale,
risulta
allora
essere
assolutamente
non
spontaneo,
che
solo
per
questo
può
inficiare
la
godibilità
e la
ricettività
dell’esperienza
vissuta.
La
missione
culturale
di
un
museo
e le
soluzioni
messe
in
atto
per
rafforzare
la
sua
dialettica
e il
suo
potere
d’attrattiva
persistono
immutate
anche
in
scenari
futuri.
Ne è
un
esempio
Robbie
(l’ambientazione
del
racconto
è
per
noi
già
datata,
poiché
si
riferisce
all’anno
1998):
«New
York
City,
nel
1998
d.C.,
era
un
paradiso
per
i
turisti
più
di
quanto
lo
fosse
mai
stata
nel
corso
della
sua
storia.
I
genitori
di
Gloria
se
ne
resero
conto
subito
e
cercarono
di
sfruttare
al
massimo
la
situazione.
[…]
La
vicenda
raggiunse
il
punto
critico
durante
la
visita
al
Museo
della
Scienza
e
dell’Industria.
Il
Museo
aveva
annunciato
uno
speciale
“programma
per
bambini”,
durante
il
quale
sarebbero
state
mostrate
meraviglie
scientifiche
comprensibili
anche
per
un
pubblico
infantile.
I
Weston,
naturalmente,
avevano
messo
subito
quella
visita
nell’elenco
delle
“cose
da
fare
assolutamente”»
(I.
Asimov,
Robbie,
[1950],
2004,
pp.
25-26).
Anche
qui
si
allude,
insieme
alla
capacità
comunicativa
museale
calibrata
sulle
caratteristiche
del
visitatore
e
sugli
obiettivi
di
apprendimento
prestabiliti,
a
quel
meccanismo
psicologico
che
può
condizionare
le
scelte
del
turista
su
come
impiegare
il
proprio
tempo
libero.
Il
museo,
nell’accezione
di
edificio,
è
stato
scelto
anche
come
scenario
per
delitti
(Il
codice
da
Vinci);
come
contenitore
e
centro
di
studio
può
essere
indirettamente
richiamato
dal
seguente
passo
tratto
da
La
Venere
d’Ille:
«Al
momento
di
separarci,
gettai
un
ultimo
sguardo
alla
Venere.
Prevedevo
che
il
mio
ospite,
pur
non
condividendo
il
terrore
e
l’odio
ch’essa
ispirava
a
una
parte
della
sua
famiglia,
avrebbe
voluto
disfarsi
di
un
oggetto
che
gli
avrebbe
ricordato
continuamente
una
spaventosa
disgrazia.
La
mia
intenzione
era
di
[…]
porla
in
un
museo.
Esitavo
a
entrare
in
questione
quando
il
signor
di
Peyrehorade
girò
macchinalmente
la
testa
verso
la
Venere
che
guardavo
fissamente.
Scorse
la
statua
e
subito
scoppiò
in
pianto.
L’abbracciai,
e
senza
osare
di
dirgli
nemmeno
una
parola,
salii
in
carrozza»
(P.
Mérimée,
La
Venere
d’Ille,
[1837],
1966,
p.
187).