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N. 24 - Maggio 2007

COSA RESTA DEL MURO DI BERLINO

Arretramento italiano e crescita dell’Europa dell’Est

di Giulio Viggiani

 

Sono passati più di sedici anni ma in Italia il muro di Berlino sembra non essere mai caduto. Nell’ultimo decennio, dopo l’euforia dei primi anni ’90, in Europa e negli Stati Uniti è nata una copiosa letteratura sulle cause e sui risvolti della scomparsa delle democrazie popolari e sulla fine della guerra fredda, nel nostro Paese invece siamo quasi all’anno zero.

 

La ragione è da ricercare nel persistente controllo da parte della sinistra postcomunista dei centri di diffusione della cultura e delle idee. Nonostante da almeno un decennio si sia imposto faticosamente un filone revisionista, nelle università certi temi continuano a costituire un vero e proprio tabù. In Parlamento la recente istituzione della Festa della Libertà, in ricordo della liberazione di milioni di europei dalla tirannia del totalitarismo comunista, è stata votata solo dalla maggioranza e da pochi esponenti dell’opposizione.

 

La giustificazione addotta dal centrosinistra sarebbe la volontà del governo di strumentalizzare politicamente un evento storico di portata mondiale, ma in realtà, seguendo la collaudata tecnica marxista-leninista del ribaltamento della verità e dell’accusa dell’avversario, l’opposizione non riesce a condannare apertamente gli orrori di quegli anni, anche perché una fetta consistente dell’Unione, la cosiddetta sinistra radicale, fa ancora riferimento e rivendica con orgoglio la sua natura comunista.

 

Le ragioni alla base della festa sono state perfettamente enunciate dal discorso del premier Silvio Berlusconi, in occasione delle celebrazioni del decennale della caduta del Muro, nel 1999, ma il concetto che racchiude tutte le altre motivazioni è il ritorno dell’uomo ad essere uomo, a vivere pienamente la sua natura libera e insopprimibile. Con la caduta dei regimi comunisti dell’Europa Orientale, intere popolazioni hanno potuto assaporare le comodità fornite dai beni di consumo dell’economia di mercato, anche se la redistribuzione della ricchezza non è stata uniforme a causa delle disparità create da uno sviluppo impetuoso ma ancora squilibrato.

 

Tuttavia quei paesi si stanno lentamente avviando a costruire sistemi di protezione sociale sul modello europeo occidentale, anche grazie alle risorse e ai capitali investiti dalle imprese straniere, che, come nell’Italia degli anni ’50, possono beneficiare di un costo del lavoro molto basso. Si può dire che gli aspetti positivi della globalizzazione dei mercati siano più visibili in Polonia, nella Repubblica Ceca e in Romania, piuttosto che in Italia, in Francia e in Germania, dove la miope politica della Banca Centrale Europea tiene al guinzaglio l’inflazione ma limita fortemente la crescita e lo sviluppo economico.

 

Le riflessioni storiche più esaustive emerse in questi anni si devono alle maggiori università inglesi e americane, in cui gli studiosi fanno ricerca badando ai fondi a disposizione più che alle conseguenze politiche dei loro saggi.

 

Due volumi non recentissimi, ma di notevole importanza per la capacità di , focalizzare la situazione socio-economica di quei paesi, sono Soviet Politics and Society in the 1970’s, di H.W. Morton e R.L. Tokes, e The Economic History of Eastern Europe 1919-1975 di M.C. Kaser. Nei due libri viene spiegata con stile chiaro e asciutto, la situazione precaria dei diritti umani e il controllo pressoché totale dello Stato sulla vita dei cittadini. Negli anni ’70 quello che sembrava un sistema economico stabilizzato, sarebbe esploso con tutte le sue storture e contraddizioni già alla fine del decennio successivo a causa dei primi effetti concreti della globalizzazione sulle logiche produttive e redistributive e per la forte fase espansiva dell’economia mondiale, che aumentò a dismisura la disparità di sviluppo e di benessere tra l’Europa Occidentale e quella Orientale.

 

Il volume di G. Markov, The Truth that Killed, denuncia le reali condizioni di vita delle popolazioni delle democrazie popolari agli inizi degli anni ’80, accusando i partiti comunisti occidentali di nascondere consapevolmente agli occhi dell’opinione pubblica il massacro sociale dei regimi e il diffuso sistema di corruzione delle classi dirigenti e dell’alta burocrazia di potere.

Czechoslovakia, 1918-92. A Laboratori for Social Change, descrive egregiamente il quadro politico, sociale ed economico della Cecoslovacchia e fa una cronistoria puntuale degli avvenimenti che portarono al crollo del regime comunista e all’avvento della democrazia, contestualmente alla separazione in due Stati, Slovacchia e Repubblica Ceca.

 

Un libro che spiega come la politica economica adottata nella Germania Orientale portò alla caduta del regime proprio quando il sistema dirigista sembrava poter sopportare meglio degli altri l’impatto dello sviluppo dell’Occidente, è The Politics of Economic Declin in East Germany, 1945-1989, di K. Kopstein. Particolare emozione suscitano le pagine che descrivono le prime ore in cui il Muro viene attraversato da moltissimi ragazzi senza più il timore di venire uccisi da un colpo di fucile di fabbricazione sovietica.

 

Chissà se la battaglia (vinta) per istituire la festa del Giorno della Libertà diverrà un  libro. Materiale ce ne sarebbe davvero tanto.           

 

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