N. 20 - Agosto 2009
(LI)
il MOVIMENTO WAHhABITA
Alle origini dell’Arabia Saudita
di Cristiano Zepponi
Il “wahabismo”, o movimento wahhabita, deve il suo nome al
teologo
Muhammad
ibn
‘Abd
al-Wahhāb
al-Tamīmī
al-Najdī,
nato
nel
1703
ad
al-‘Uyainah,
nel
centro
della
regione
del
Naģd,
considerata
da
sempre
tra
le
più
selvagge
e
inospitali
d’Arabia.
Qui, il ragazzo approfondì le scienze religiose; poi – seguendo
il
costume
del
mondo
musulmano
–
completò
il
suo
percorso
di
studi
nei
centri
d’insegnamento
più
prestigiosi,
tra
cui
la
Mecca,
Medina
e
Basra
(Bassora),
dove
approfondì
la
dottrina
del
celebre
Ibn
Taymiyya,
con
cui
entrò
probabilmente
in
contatto
già
in
età
precoce:
era
figlio,
infatti,
di
un
giudice
di
scuola
Hanbali.
Il “neohanbalismo”, in effetti, doveva il suo nome al fondatore
della
scuola,
Ibn
Hanbal;
ma
in
realtà
il
vero
ispiratore
fu
proprio
Ibn
Taymiyya,
che
a
Damasco
(dove
si
era
trasferito
giovanissimo)
aveva
elaborato,
nel
corso
della
seconda
metà
del
XII
secolo,
una
dottrina
ricordata
soprattutto
per
il
rigorismo
e
l’inflessibilità
nell’applicazione
della
legge
coranica,
per
l’implacabile
ostilità
manifestata
nei
confronti
di
sciiti,
cristiani
e
mistici
sufi,
per
il
continuo
richiamo
alla
lotta
contro
ogni
forma
d’atteggiamento
accomodante:
questi,
però,
aveva
terminato
i
suoi
giorni
in
carcere,
luogo
che
conosceva
benissimo,
soprattutto
a
causa
dell’ostilità
irriducibile
del
sunnismo
tradizionale,
largamente
maggioritario.
Solo alcune voci, isolate e flebili, sentirono il richiamo
della
sua
voce
nei
secoli
seguenti;
fino
agli
albori
del
XVIII
secolo,
sembrava
che
il
consenso
intorno
agli
aspetti
più
rigoristici
della
sua
dottrina
non
dovesse
piantare
radici
particolarmente
solide.
Poi,
come
detto,
nacque
Ibn
‘Abd
al-Wahhāb.
Nel frattempo, come ovvio, la situazione politica era profondamente
mutata:
dopo
più
di
quattro
secoli
la
debolezza
dell’Impero
Ottomano
(che
rimaneva
tuttavia
“custode
dei
luoghi
santi”,
vantando
il
controllo
dell’Hejaz),
la
diffusione
dello
sciismo
in
Iran,
le
numerose
devianze
dottrinali
e
morali
nel
mondo
musulmano
dipingevano
un
quadro
a
tinte
fosche.
Per questo, Ibn ‘Abd al-Wahhāb
cominciò
a
guardare
con
simpatia
all’idea
di
“un
ritorno
alle
origini”
per
sopravvivere
alla
crisi
che
strangolava
l’orbe
musulmano,
emendando
l’Islam
delle
superflue
innovazioni
faticosamente
elaborate
in
un
millennio.
Il
suo
primo
scritto
(il
Kitāb
al-Tawhiđ,
“libro
dell’unità
divina”),
intendeva
riportare
al
centro
del
discorso
religioso
una
rigida
interpretazione
del
monoteismo
islamico,
scagliandosi
con
fervore
(come
il
maestro)
specialmente
contro
le
confraternite
sufi
e
promulgando
un
eccessivo
letteralismo
nella
lettura
delle
Scritture;
propagandando
al
contempo
la
necessità
d’opporsi
al
lassismo
a
tutte
le
innovazioni
del
mondo
moderno
con
le
loro
caratteristiche
idolatriche,
al
sacrilego
culto
degli
alberi
sacri,
e
poi
contro
il
fumo,
l’usura,
la
diffusione
dell’alcool
e
del
fumo,
la
licenza
sessuale,
e, a
livello
politico,
gli
“infedeli”
(kafirun)
in
genere,
specie
se
ottomani.
La
rievocazione
della
vicenda
di
Ibn
Taymiyya
proseguì
talmente
bene,
però,
che
in
breve
tempo
il
giovane
fu
allontanato
da
Basra
a
causa
delle
sue
idee
radicali.
In
seguito,
la
leggenda
vuole
che
lo
zelante
emulo
fu
infine
salvato
da
un
mulattiere,
che
lo
strappò
al
deserto
ed a
morte
certa.
Ibn ‘Abd al-Wahhāb
giunse
ad
al-Dir’iyah,
capitale
dell’emirato,
nel
1744.
Sembra
che
godesse
già
di
un
certo
seguito,
arricchitosi
con
l’esempio:
il
nuovo,
aggressivo
movimento
rigorista
si
diede
ad
abbattere
alberi
sacri,
a
lapidare
adultere,
a
demolire
le
strutture
più
moderne
(i
caffè)
e le
tombe
dei
santi,
oggetto
d’adorazione.
La
sua
fortuna,
in
definitiva,
fu
dovuta
ad
un
incontro:
altrimenti,
avrebbe
rischiato
una
sorte
ben
peggiore
dell’esilio,
per
il
quale
aveva
accumulato
tanta
esperienza.
In
quello
stesso
anno,
infatti,
celebrò
un
patto
d’alleanza
(bay’a)
con
Muhammad
Ibn
Sa’ūd
(“il
riformatore”),
l’emiro
di
Dar’iyya,
una
piccola
oasi
della
regione:
i
due
si
giurarono
reciproca
fedeltà,
prospettando
la
fioritura
dei
princìpi
wahhabiti
sotto
l’egida
di
uno
stato
teocratico
retto
dalla
famiglia
Sa’ūd.
Da
quel
momento,
i
due
destini
restarono
indissolubilmente
legati;
il
rapporto
tra
le
discendenze
degli
Ahl
al-Sa’ūd
e
degli
Ahl
al-Skaykh
(derivante
dall’appellativo
al-Skaykh
con
cui
in
Arabia
è
conosciuto
Muhammad
ibn
‘Abd
al-Wahhab),
infatti,
sopravvisse
alla
morte
di
Muhammad,
e
prosegue
ancora
oggi.
Il
successo
politico
e
militare
del
nuovo
Stato
Saudita,
che
si
espanse
con
alterne
fortune
per
due
secoli
fino
a
raggiungere
le
dimensioni
che
grossomodo
mantiene
oggigiorno,
costrinsero
col
tempo
i
governanti
a
mitigare
le
forme
più
estreme
dell’ideologia
wahhabita,
tacciata
da
gran
parte
del
mondo
musulmano
di
settarismo
intransigente,
sempre
pronto
a
scagliare
anatemi
contro
i
suoi
oppositori,
fino
a
sfociare
in
un
fanatismo
francamente
inconcepibile
per
il
sunnismo
tradizionale
(che
infatti,
non
a
caso,
dedicò
alla
polemica
anti-wahhabita
una
buona
fetta
della
sua
produzione
degli
ultimi
duecento
anni);
e
invisa,
in
secondo
luogo,
per
la
contestazione
del
sistema
delle
scuole
giuridico-religiose,
i
cui
dissensi
furono
presto
indicati
tra
le
cause
della
crisi
del
mondo
musulmano.
Ma
d’altra
parte,
il
potente
richiamo
della
dottrina
garantì
ai
Sa’ūd
l’afflusso
di
proseliti
necessari
allo
jihad
(“sforzo”)
in
difesa
del
vero
Islam,
che
avrebbe
in
breve
portato
a
combattere
(o
convertire)
quegli
“infedeli”
(beduini
nomadi
o
sedentari,
per
lo
più)
che
ostacolavano
la
riuscita
dell’espansione
militare:
non
a
caso,
gli
aderenti
rifiutano
ancora
oggi
la
definizione
di “wahhabiti”,
considerandosi
piuttosto
un
semplice
ritorno
alle
origini,
un
richiamo
“alla
dottrina
dell’unicità
di
Dio”
(al-da’wah
ila
al
tauhid).
Fu
quindi
facile,
per
i
predicatori
wahhabiti
(mutawa’a),
riproporre
il
tema
d’una
nuova
hijra,
una
“migrazione”
che
stavolta,
al
contrario
di
quella
originaria
che
ricorda
l’allontanamento
del
Profeta
dalla
Mecca
nel
622,
prevedesse
un
abbandono
della
vita
nomade
da
parte
dei
beduini
stessi,
nell’ottica
di
una
conversione
ai
precetti
dell’Islam;
e,
in
una
seconda
fase,
la
riorganizzazione
dei
nuovi
fedeli
(o
reclute)
in
villaggi
appositamente
creati
per
loro.
Il
wahabismo,
forse,
sopravvisse
proprio
per
questo:
per
la
capacità
di
sgombrare
le
frontiere
dalle
minacce
esterne,
e
anzi
d’inglobare
quelle
minacce
per
accrescere
la
forza
dello
Stato,
in
difesa
dell’Islam
“autentico”.
Una
proposta,
questa,
corroborata
dal
simbolismo
della
bandiera
saudita:
la
professione
di
fede
protetta
da
due
spade
incrociate.
Concludiamo
aggiungendo
che
perdura,
tra
le
altre
cose,
il
dibattito
sulla
natura
del
movimento,
considerato
a
lungo
scismatico
da
gran
parte
della
pubblicistica:
un
giudizio
che
da
tempo
mostra
segni
di
cedimento,
visto
l’aumento
della
sua
influenza
culturale
(parallelo
alla
crescita
del
ruolo
strategico
dell’Arabia
Saudita),
la
sua
derivazione
da
una
scuola
giuridica
sunnita
(al
contrario
di
sciiti
e
kharigiti),
la
sua
diffusione
e i
vantaggi
costituiti
dall’evidente
semplificazione
del
messaggio
coranico,
che
garantisce
una
propagazione
dell’Islam
più
immediata.