N. 24 - Maggio 2007
Il movimento studentesco
Un nuovo movimento sociale
di Stefano De Luca
Il movimento studentesco, in Italia come altrove, fu il primo
‘nuovo
movimento
sociale’
a
comparire
sulla
scena.
Questo
ha
creato
una
nuova
realtà
politica
e
culturale:
erano
nuovi
attori,
che utilizzarovano
forme d’azione sostanzialmente diverse da quelle
tradizionali degli organismi rappresentativi. Ha dato
vita a organizzazioni decentrate e cercato di imporre
un nuovo paradigma culturale e politico.
Nel ’68 per la prima volta gli studenti si mobilitano in
quanto studenti. Fino a quel momento infatti erano
stati assenti dall’arena pubblica quali attori
autonomi: precedentemente gli studenti dell’università
si sono mobilitati, ma su temi cui era sensibile l’èlite
di provenienza.
Le
iniziali risorse organizzative di questo movimento
provenivano dalla Unione Nazionale Universitaria
Rappresentative Italiana (UNURI), un ‘parlamentino’
studentesco, organizzato su principi di rappresentanza
formale. All’interno di questa struttura agivano le
associazioni di politica universitaria, che ripetevano
gli schieramenti tradizionali della vita politica
italiana. Vi era l’Unione goliardica italiana (Ugi),
che raccoglieva simpatizzanti del Pci e del Psi,
l’Intesa, facente capo alla Dc, che rappresentava gli
studenti cattolici, il Fuan legato al Msi e l’Agi di
ispirazione liberale.
Quando la critica a ‘partitini’ e ‘parlamentino’
demolirà le organizzazioni studentesche esistenti,
nuove risorse organizzative verranno soprattutto da
una serie di piccoli gruppi che si erano formati
all’inizio degli anni Sessanta. Questi gruppi erano
composti da intellettuali che criticavano da sinistra
il Pci, il Psi e i sindacati, e fondarono riviste di
dibattito politico come ‘Quaderni rossi’ e ‘Classe
operai’. Una delle principali accuse alla ‘vecchia’
sinistra fu quella di aver rinunciato alla prospettiva
di una sollevazione violenta contro il capitalismo.
Questi gruppi erano definiti ‘operaisti’, perché
sottolineavano la centralità della classe operaia nel
conflitto di classe e il bisogno di una sua
organizzazione autonoma. I forti legami tra alcuni
nuclei attivisti nelle varie università, i gruppi
operaisti e le iniziative comuni che venivano
organizzate all’esterno delle università, portarono
all’emergere delle organizzazioni della Nuova
sinistra, come ad esempio Lotta Continua, Avanguardia
Operaia e Il Manifesto.
All’inizio degli anni Sessanta vi furono, all’interno
delle tradizionali organizzazioni studentesche, le
prime proteste contro la politica scolastica del
governo.
Queste organizzazioni chiedevano una maggiore
partecipazione negli organi decisionali, una riforma
della didattica e un miglioramento dei servizi.
Nel
gennaio del 1967 gli studenti universitari occuparono
la facoltà di Chimica e di Fisica dell’università di
Pisa, per protestare contro il progetto di riforma
dell’insegnamento presentato dal ministro
democristiano della Pubblica Istruzione Gui.
Venne occupato il palazzo della Sapienza, con lo scopo
di disturbare la Conferenza Nazionale dei Rettori che
stava per essere inaugurata in quei giorni a Pisa. In
quest’occasione gli organismi studenteschi ufficiali,
attaccati per la mancanza di democrazia diretta
interna, vennero scavalcati dagli attivisti e le
decisioni sul da farsi furono prese da un’assemblea
generale aperta a tutti.
Queste associazioni studentesche però si sarebbero
presto rivelate incapaci di incanalare e interpretare
l’attivismo degli studenti, tanto che alla fine del
’68 tutte le organizzazioni si erano sciolte
ufficialmente. Tale scioglimento fu dovuto a due
fattori: erano organizzazioni con una struttura
verticistica, in contrasto quindi con quella sfiducia
che il movimento studentesco, ma diciamo tutti i nuovi
movimenti sociali, aveva nei confronti di strutture
centralizzate e della delega; a causa dei forti legami
che avevano con i partiti, l’esperimento del
centro-sinistra aveva creato dei contrasti interni a
ciascuna delle associazioni.
All’occupazione parteciparono anche studenti di altri
atenei che contribuirono alla stesura delle ‘Tesi
della Sapienza’, dove venne teorizzato un nuovo modo
di considerare la politica studentesca.
Le Tesi ruotano intorno ad alcuni temi: la costruzione di
un sindacato studentesco con la funzione di controllo
della formazione dello studente; la definizione dello
studente come forza lavoro nel processo di
addestramento e come figura sociale subordinata, e
quindi meritevole di essere retribuito per il loro
lavoro produttivo; la contestazione
dell’organizzazione universitaria.
La strategia seguita dagli studenti si muoveva in tre
direzioni: richiamare l’attenzione dei media sulla
Sapienza e contro la riforma Gui occupando la sede in
cui doveva tenersi la Conferenza Nazionale dei
Rettori; lanciare un atto di accusa contro le
associazioni studentesche tradizionali per la loro
mancanza di democrazia interna (come alternativa gli
studenti proposero di essere rappresentati da autonomi
‘rappresentanti democratici eletti direttamente in
assemblee della facoltà’); fare appello agli interessi
concreti degli studenti, proponendo che venisse pagato
loro un salario.
Dopo pochi giorni la Sapienza viene sgombrata dalla
polizia, che entrò in un palazzo universitario per la
prima volta dal dopoguerra. Gli studenti, non solo
universitari, organizzarono un sit-in in segno di
protesta contro la scelta del Rettore Faedo di far
intervenire le forze dell’ordine per sgombrare le sedi
occupate.
Nel 1966 venne occupata la facoltà di Sociologia
dell’Università di Trento, fiore all’occhiello dei
notabili locali. Qui nacque la prima facoltà di
Sociologia, materia che era sempre stata vista con
sospetto dalla sinistra ortodossa, poiché considerata
interna alla cultura borghese. Ma l’importanza
dell’università trentina non consiste solo nel
carattere innovativo dei suoi studi, ma vi è anche
l’ammissione dell’iscrizione degli studenti
provenienti dagli istituti tecnici (in precedenza
ammessi solo nelle facoltà di agraria e di economia e
commercio). Questo provvedimento aumentò nella
popolazione universitaria, la componente “proletaria”
proveniente dagli istituti tecnici. Movimento
studentesco quindi che non è espressione di una solo
classe sociale, che invece era la caratteristica ad
esempio del movimento operaio, ma risulta composto da
giovani di estrazione piccolo-borghese ed operaia,
studenti lavoratori e fuori sede. Possiamo
rintracciare una caratteristica dei nuovi movimenti
sociali che si sviluppano a partite dai prima anni
Sessanta, ossia che la mobilitazione non avviene per
una condizione ma per convinzione.
L’anno successivo vi fu l’occupazione, durata quasi un
mese, della sede centrale dell’Università di Torino,
Palazzo Campana. Vennero criticati il modo
tradizionale di insegnare, ed anche i contenuti stessi
dell’insegnamento. Da domande legate alla situazione
interna all’università, come la protesta contro
l’aumento delle tasse o le rivendicazioni per la
presenza di una rappresentanza studentesca negli
organi di gestione dell’università, si passò ad una
critica del tipo di conoscenza prodotto
dall’università stessa. Secondo gli studenti torinesi
l’Università funzionava ‘come uno strumento di
manipolazione ideologica e politica teso ad installare
uno spirito di subordinazione rispetto al potere. Lo
studente credeva di andare all’università per imparare
la storia, il diritto, la fisica, la medicina, e
invece ha imparato soprattutto ad obbedire’.
Furono organizzati gruppi di studio e ‘contro-corsi’ con
l’obbiettivo di sperimentare nuove forme di
conoscenza, di sottrarsi alla soggezione culturale nei
confronti degli studenti, e cercare di avere un
approccio critica nei confronti del sapere.
Sempre come un atto di accusa nei confronti dell’istruzione
scolastica, uscì in quegli anni un libro Lettere a
una professoressa scritto da un prete, don Milani,
insieme ai ragazzi della sua parrocchia, a Barbiana
del Mugello. Nelle ‘Lettere’ veniva affermato che il
sistema scolastico, per i contenuti dei saperi
trasmessi e per l’uso della lingua di per sé elitario
e classista, faceva una selezione a favore di quelli
che vengono definiti i ‘figli del padrone’, ed
emargina i figli dei proletari.
Fu occupata, sempre nel ’67, l’Università Cattolica di
Milano per protestare contro l’aumento del 50 per
cento delle tasse. Aumento che veniva visto come
un’ingiustizia sociale, in quanto mirava ad escludere
dall’istruzione superiore i più poveri.
Dai primi mesi del ’68 la protesta si estese alle scuole
superiore, grazie anche all’aiuto degli studenti
universitari. Diversamente da quanto avveniva nelle
università, dove gli studenti erano riconosciuti come
cittadini che avevano il diritto di parola, di
riunirsi e di organizzarsi politicamente, nelle scuole
superiori queste attività erano fortemente limitate.
Uno degli obbiettivi centrali del movimento degli
studenti superiori era il riconoscimento dei propri
diritti di adulti e di cittadini. Il movimento creò
una propria organizzazione: lo strumento fondamentale,
come nelle università, era l’Assemblea che eleggeva
commissioni e gruppi di studio con funzioni
specifiche. Centrale, anche tra gli studenti delle
scuole superiore, era la lotta contro l’autoritarismo.
Le richieste del movimento degli studenti erano varie, di
tipo prevalentemente qualitativo: scopo del movimento
non era ne una redistribuzione delle ricchezze, né
tanto meno l’accesso ai centri decisionali,
rivendicazioni definite di tipo più materiale, che
hanno influenzato invece l’azione dei “vecchi”
movimenti sociali.
Il movimento degli studenti chiedeva: nuovi diritti di
partecipazione; lotta contro l’autoritarismo
accademico; richieste di programmi gestiti dagli
studenti, nei quali i professori sarebbero stati poco
più che dei consulenti.
Centrale nelle rivendicazioni del movimento studentesco
era anche il tema dell’autonomia, che come vedremo
caratterizzerà altri nuovi movimenti sociali.
All’inizio gli studenti politicizzati avanzarono una
richiesta di autonomia dai partiti delle loro
associazioni studentesche, influenzati da quella
sfiducia che riponevano nei confronti delle strutture
centralizzate quali i partiti. Gli studenti
protestavano per un’autonomia anche nella scelta della
loro formazione; chiedevano una piena liberalizzazione
dei piani di studio, ed il diritto di intervento degli
studenti durante le lezioni. Il tema dell’autonomia
riguardava anche la liberazione sessuale, la critica
della scienza, della tecnologia e dell’arte borghesi.
Il movimento protestava contro l’autoritarismo e il
burocratismo delle istituzioni, rifiutava il
meccanismo delle deleghe a favore di una democrazia
assembleare. E questo, come vedremo ha portato ad
adottare delle particolari strutture organizzative,
nuove rispetto a quelle adottate dai ‘vecchi’
movimenti sociali.
Gli studenti rifiutavano il ruolo ‘predeterminato’ che il
sistema assegna loro. Contestavano che lo sbocco
tipico del laureato fosse quello del tecnico
industriale senza poter incidere con il proprio
diritto di scelta. Chiedevano di poter essere in
qualche modo sganciati da una programmazione della
loro esistenza, tutta pianificata dall’alto, e un
profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi
dell’insegnamento.
Rispetto alla maggior parte degli altri attori sociali, gli
studenti erano i più interessati ai temi di politica
generale. Questo interesse per la politica era
evidente soprattutto nell’area della riforma
universitaria, ma nel corso dell’evoluzione i suoi
obbiettivi si ampliarono ai campi più vari:
manifestarono contro la guerra nel Vietnam,
in favore della riforma pensionistica e contro certi
leader politici.
Il modello organizzativo del movimento studentesco
rifletteva, come accennato sopra, la sfiducia che
questi nuovi movimenti avevano nei confronti della
democrazia rappresentativa, sfiducia per le strutture
centralizzate quali ad esempio i partiti e i
sindacati, e sfiducia anche delle tradizionali
associazioni studentesche. L’organizzazione del
movimento era basata sul principio della democrazia
partecipativa, caratterizzato da una struttura
informale, decentrata e partecipativa.
Le formule organizzative adottate dalle organizzazioni del
movimento studentesco furono assemblee generali di
studenti, considerate il principale strumento della
democrazia partecipativa. Le decisioni venivano prese
in assemblee generali aperte a chiunque volesse
partecipare. Vi era un rifiuto della rappresentanza,
infatti i leader erano coloro che devolvevano più
energie all’azione collettiva.
Il movimento studentesco ha elaborato un nuovo modello di
democrazia, che si contrapponeva alla democrazia
maggioritaria e delegata, fortemente criticata. Ma
questi principi organizzativi innovativi si
dimostrarono però difficili da applicare. L’Assemblea
rivelava i suoi limiti dal punto di vista del reale
coinvolgimento della base e della efficienza nelle
decisioni. Anche se il movimento studentesco esaltava
la spontaneità, aveva bisogno di strutture decisionali
efficienti e di risorse organizzative. Nella sua
evoluzione il movimento studentesco adotterà infatti
modelli organizzativi più strutturati e gerarchici,
con una partecipazione tendenzialmente esclusiva.
Le forme di protesta utilizzate inizialmente dal movimento
studentesco erano pacifiche e di tipo perturbativo.
L’utilizzo di tattiche deliberatamente provocatorie,
come l’uso del linguaggio scurrile ed il rifiuto
dell’abbigliamento tradizionale, rispecchia quella che
era una delle caratteristiche dei nuovi movimenti
sociali: la creatività delle forme di protesta.
Le tattiche innovative del movimento studentesco avevano lo
scopo di attirare l’attenzione dei media,
costringevano l’autorità ad azioni repressive che
creavano nuovi alleati al movimento. Misero anche in
evidenza l’incapacità delle organizzazioni
studentesche tradizionali e dei partiti di sinistra,
di organizzare attività altrettanto audaci.
Gli studenti si ispiravano sia al repertorio del movimento
operaio italiano, che a quello del movimento dei
diritti civili negli Usa. Dal primo vennero riprese le
forme d’azione, come i cortei e le occupazioni, che
miravano a dimostrare l’alto numero dei partecipanti.
Dagli Stati Uniti vennero importate forme d’azione,
come ad esempio i sit-in e la resistenza pacifica, in
grado di calamitare l’attenzione dei mezzi di
comunicazione di massa.
La forma di protesta che più di ogni altra ha
caratterizzato il movimento studentesco, è stata
l’occupazione. Questa azione combinava sia il bisogno
di pubblicizzare le proprie richieste, che quello di
costruire una identità collettiva (esigenza molto
importante per un movimento in fase di formazione).
L’occupazione dell’università era un atto che
simboleggiava il rovesciamento dell’autorità, la
creazione di uno spazio proprio, di sperimentazione di
una vita diversa. L’occupazione fu una risorsa molto
importante per la costruzione di densi reticoli
sociali.
Agli interventi coercitivi delle forze dell’ordine per
evacuare le università occupate, gli studenti, fino al
’68, reagirono con la resistenza non violenta. La
radicalizzazione delle forme di protesta si ebbe nel
corso dei frequenti scontri con le forze dell’ordine.
La repressione scatenò una violenza inizialmente
difensiva, strumentale e non fine a se stessa. Ma la
concezione della violenza cambiò: a Roma nella
‘battaglia’ di Valle Giulia, nel marzo del ‘68, per la
prima volta gli studenti reagirono alla violenza della
polizia. Sempre a Roma, nello stesso anno, comparvero
in una manifestazione le prime bottiglie incendiarie.
Con i fatti di Valle Giulia il movimento studentesco
si spostò definitivamente dal piano di una protesta
universitaria a quello della contrapposizione frontale
con l’intero assetto sociale.
L’acuirsi del conflitto allontanò dal movimento i gruppi
più moderati e, fra coloro che rimanevano attivi,
l’uso di azioni violente era una scelta strategica che
serviva a mantenere un’immagine di forza anche nel
momento del declino della mobilitazione. In questi
gruppi la violenza veniva percepita non solo come una
difesa ma anche come uno strumento per raggiungere
alcuni scopi.
Attraverso le azioni di protesta il movimento dimostrò, ad
altri settori e movimenti (urbano, culturale,
ecologista, femminista), che “coloro che osavano”
avevano successo. Diedero l’esempio di come il sistema
era vulnerabile, e di come le tattiche perturbative
potessero essere utilizzate per accrescere il consenso
e ottenere ascolto. Lasciò in eredità nuove strutture
interpretative, nuovi attivisti e un nuovo repertorio
d’azione.
Via via che le proteste nelle università crescevano, vi fu
una tendenza degli studenti a spostarle all’esterno,
verso i cancelli delle fabbriche, alle manifestazioni
religiose e culturali e nelle strade. Questo diede al
movimento una nuova carica di attivismo. Le
manifestazioni organizzate poco prima di Natale a
Pisa, davanti ai centri commerciali, non erano contro
gli insegnanti ma contro il sistema borghese in
generale. Il movimento degli studenti era consapevole
che per attirare nuovi sostenitori doveva trovare
nuovi temi, e inventare nuove forme di lotta.
La principale peculiarità del movimento studentesco
italiano furono gli intensi rapporti (a partire dal
’69) con il movimento operaio, che veniva
identificato come un alleato naturale. Rapporti che
hanno fatto si che il movimento studentesco italiano,
si esaurisse più lentamente rispetto ai movimenti di
Francia e Germania.
Gli studenti, soprattutto i gruppetti dell’ultra sinistra,
collegavano le loro rivendicazioni anti-autoritarie
con “la rivoluzione delle classi lavoratrici”, e
cercando nelle grandi fabbriche i propri alleati.
Quest’alleanza con la classe operaia influenzò il
modello organizzativo del movimento studentesco. Le
‘assemblee generali’, orgoglio del movimento
studentesco fino al ’68, furono sempre meno ‘generali’;
la libertà di prendere la parola in ogni momento per
dire qualsiasi cosa ‘lo studente di base’ avesse in
mente, fu limitata; si procedette alla
istituzionalizzazione di forme gerarchiche, che
contraddicevano i principi fondamentali della
spontaneità e del potere autonomo dell’assemblea. In
poche parole ci fu un passaggio da un modello
organizzativo caratterizzato da una struttura a
fisarmonica, che mutava a seconda dei bisogni, ad
un’organizzazione caratterizzata dalla stabilità con
una struttura esclusiva e centralizzata.
La protesta veniva portata avanti da questi gruppi
dell’ultra-sinistra, che avevano denunciato come
inutile ogni azione contestativi che si esaurisca
nell’attacco alle strutture accademiche, anche se
condotta in nome della contestazione del sistema. Per
questo motivo decisero di spostare il loro interesse
sugli operai, protagonisti di uno scontro sociale a
causa della scadenza di numerosi contratti nazionali
di lavoro, e quindi una reale occasione
rivoluzionaria. Ma questa unione con la classe operaia
ha portato ad un crescente allontanamento delle masse
studentesche dalla politica di protesta: studenti che
nella maggior parte finirono con il rinchiudersi in se
stessi rinunciando così alla partecipazione sociale e
politica.
La radicalizzazione della protesta aveva allontanato molti
sostenitori dal movimento. Alcune delle frange estreme
del movimento studentesco si riversarono, nei
successivi anni Settanta, in alcune delle
organizzazioni terroristiche che in quegli anni si
andavano formando, come le Brigate Rosse, che hanno
sconvolto per oltre un decennio la nostra storia
repubblicano e democratica. La strategia dei gruppi
terroristici era quella di ‘portare l’attacco al cuore
dello Stato’. Cercare cioè di colpire le figure più
significative del sistema politico-istituzionale, in
modo da ottenere il massimo spazio e pubblicità da
parte dei mezzi di comunicazione di massa, e di creare
contemporaneamente contraddizioni e difficoltà
all’interno stesso del sistema dei partiti e degli
apparati dello Stato.
Durante tutti gli anni Settanta permaneva all’interno dei
giovani una diffusa sensazione di malessere e
malcontento. Fu anche un periodo caratterizzato dalla
violenza, scontri con la polizia e i ‘fascisti’.
Scontri che portarono nel ’77 ad un’altra ondata di
protesta. La rivolta del ’77 fu sia politica che
esistenziale, espressione di un disagio giovanile
molto forte.
Protagonisti del movimento del ’77 sono studenti, giovani
proletari e donne con una collocazione precaria e
“non garantita” nel mercato del lavoro. Anche quelli
che venivano definiti gli ‘indiani metropolitani’, che
con il loro abbigliamento e la faccia dipinta,
volevano simboleggiare il rifiuto della società
industriale.
Per quanto riguarda, gli studenti ponevano maggiore
attenzione ai temi del diritto allo studio e della
selezione rispetto a quelli della riforma
dell’insegnamento o della democratizzazione della vita
accademica, che erano stati prevalenti nella prima
ondata di protesta.
Il movimento del ’77 si caratterizzò per l’enfasi sulle
trasformazioni culturali; l’affermazione delle
diversità, che diviene una risorsa, l’assenza di un
progetto a lungo termine, cioè la rinuncia a
obbiettivi universalistici. Convergevano sia i temi
della scuola selettiva e priva di servizi, che quelli
del diritto alla casa, della lotta al caro vita,
dell’assenza di infrastrutture nei quartieri popolari,
della disoccupazione e del lavoro nero, della mancanza
di luoghi di cultura e della diffusione delle droghe
pesanti.
Il movimento del ’77 è l’ultimo grande momento di
aggregazione di una protesta sociale protrattasi per
più di un decennio e nello stesso momento un’ultima e
disperata fiammata di rivolta, prima della fase della
lotta armata. Disperata, perché consapevole del
fallimento dei vecchi modelli di rivoluzione, e
incapace di proporre un’alternativa coerente, se non
in forme violente e marginali.
Durante tutti gli anni ’80 gli studenti non erano più i
protagonisti della scena politica: altri movimenti,
come quello ecologista e pacifista, diverranno
protagonisti sulla scena politica. Il movimento degli
studenti tornerà sporadicamente ad affacciarsi, come
il movimento della Pantera (fine anni Ottanta,
l’ultimo dei grandi movimenti studenteschi), ma con
caratteristiche e contenuti solo superficialmente
comuni con il movimento che l’aveva preceduto.
Il movimento della Pantera nasce come opposizione alla
riforma del ministro Ruberti, poi la mobilitazione si
estenderà anche ad altri temi quali la legge
Russo-Jervolino sulla tossicodipendenza, il diritto di
sciopero, il razzismo. Sono rivendicazioni che vanno
dalla difesa dello stato sociale, del diritto allo
studio e delle libertà democratiche.
Il modello organizzativo del movimento della Pantera
assomigliava a quello utilizzato dalle precedenti
ondate di protesta nelle università. Era una forma
organizzativa di tipo partecipativo: l’Assemblea era
la sede decisionale, le Commissioni il luogo dove
elaborare i contenuti del movimento. Il coordinamento
veniva garantito da una rete telematica che metteva in
comunicazione via fax le facoltà occupate. Ma a
differenza del movimento del ’68, gli studenti erano
consapevoli dei limiti della democrazia partecipava;
infatti nel movimento della Pantera i delegati
avevano capacità di prendere decisioni.
Gli anni ’90 decretarono la fine del movimento studentesco.
In questo clima di dispersione e di crisi nacquero e
si consolidarono associazioni come l’Unione degli
Studenti (UDS), collocabili nell’area moderata del Pds.
Anche l’Unione degli Universitari (UDU) e gli Studenti.Net
(vicini alla CGIL) riuscirono e riescono tuttora a
raccogliere sotto le loro bandiere buona parte degli
studenti. Ma anche le organizzazioni della destra
studentesca si riorganizzarono. Fu fondata
l’organizzazione neo-nazista Forza Nuova, che si
renderà responsabile di molte azioni di violenza
contro ebrei, militanti di sinistra, femministe e
omossessuali.
Ma questi movimenti hanno rinunciato ad ogni prospettiva di
‘contestazione globale’. Infatti le richieste degli
studenti sono rivolte all’auto-realizzazione di sé sul
piano del sapere, alla ricerca di una partecipazione
al processo formativo in modo da non essere soltanto
destinatari di informazioni ma attori
dell’auto-formazione di sé stessi.
Riferimenti
bibliografici