contemporanea
LUGLIO 2001
IL G8 DI GENOVA E IL MOVIMENTO NO-GLOBAL
di Marco Fossati
Tra il 19 e il 21 luglio 2001 si svolse
nella città di Genova una delle più
grandi, e purtroppo violente,
manifestazioni di piazza della storia
italiana recente. Essa nasceva a margine
e in opposizione, al periodico incontro
dei capi di stato delle otto nazioni più
ricche e industrializzate del pianeta
(Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna,
Francia, Germania, Italia, Russia,
Giappone), il cosiddetto G8, in
programma in quei giorni nella città
ligure.
“Un morto, 560 feriti, 219 arresti,
danni per 100 miliardi (in lire)” è
il “drammatico bilancio” di tre giorni
di manifestazioni, riportato dal
quotidiano La Stampa, lunedì 23
luglio 2001. La cronaca di quanto
avvenuto è ormai nota. Il 19 le
manifestazioni furono relativamente
tranquille, ma il 20 la situazione
cambiò drasticamente. Sino dalla mattina
una minoranza (alcune centinaia) di
manifestanti (molti vestiti di nero e
quindi identificati con un nome che
diverrà tristemente famoso: black
bloc) iniziano a compiere atti
vandalici nei pressi della cosiddetta
zona rossa, ovvero l’area del centro
storico cittadino dove si svolgeva il
summit dei capi di stato; blindata e
presidiata da ingenti forze dell’ordine.
La risposta di quest’ultime è
inizialmente tesa a isolare e bloccare i
violenti senza un uso eccessivo della
forza, ma la conformazione di Genova
(strade strette, vicoli, piccole piazze)
non agevola l’operazione. I black
bloc iniziano a infiltrarsi nei
numerosi sit-in e presidi pacifici che
caratterizzano quasi tutte le piazze
genovesi intorno alla zona rossa,
moltiplicando così gli episodi
vandalici. È a questo punto che la
gestione dell’ordine pubblico, per
errori di valutazione o incomprensioni
nella catena di comando, diviene
disastrosa.
Abbandonata ogni cautela vengono
caricati sia i manifestanti violenti che
quelli pacifici. Soprattutto, con
un’azione che si rivelerà
controproducente, oltreché tragica, si
tenta di bloccare e disperdere il grosso
corteo che inizia a muoversi dalla parte
est della città, verso la zona rossa;
corteo autorizzato, che seguiva quindi
un percorso concordato con le forze
dell’ordine e fino a quel momento del
tutto pacifico. Il risultato è
drammatico; si scatena una guerriglia
urbana in gran parte della città con
pesanti episodi di violenza e la morte
di un manifestante, ucciso con un colpo
di pistola dalle forze dell’ordine (le
indagini accerteranno la legittima
difesa sebbene sulla vicenda rimarranno
numerose ombre).
In un clima ormai pesantissimo non
vengono fermati i lavori del summit che
procedono, come da programma, nella
giornata successiva. Così come non si
fermano le manifestazioni che in quel
contesto degenerano facilmente in atti
di vandalismo, aggiungendo, nella
giornata del 21 luglio, altre ore di
guerriglia urbana per le strade
genovesi. Con le forze dell’ordine che a
loro volta si abbandoneranno ad azioni
sconsiderate di mera vendetta; come le
violenze che subiscono i fermati durante
gli scontri, nella caserma di Bolzaneto
o la famigerata irruzione, a tarda sera
nella scuola Diaz, dove vengono
picchiati a sangue freddo e arrestati
decine di manifestanti, ritenuti
appartenere ai black bloc (accuse
che cadranno completamente dato che
erano basate su false prove fabbricate
dalle stesse forze di polizia).
Nel corso degli anni tutte queste
vicende (le violenze di entrambe le
parti) saranno al centro di lunghi
percorsi investigativi e processuali che
tenteranno pur con molte lacune, di
appurare i fatti accaduti, almeno dal
punto di vista giudiziario. Ma sia la
cronaca di quei giorni che, in un
secondo tempo, l’azione della
magistratura (con corollario di
speculazioni politiche e mediatiche)
hanno fatto perdere di vista o
dimenticare il significato storico degli
eventi ovvero come si arrivò e
soprattutto quali furono le conseguenze
di quei giorni; ragionamento che si può
fare oggi a vent’anni di distanza.
In realtà le manifestazioni di piazza
dovevano essere solo gli atti conclusivi
di una serie di giornate iniziate il 15
luglio con l’apertura dei lavori di
quello che si auspicava essere il vero
contraltare alla riunione dei capi di
stato: il Public Forum. Ovvero un evento
politico culturale espressione di un
movimento di protesta che si era
strutturato nei mesi precedenti.
«Lo scenario mondiale in cui ci
prepariamo al vertice del G8 a Genova è
uno scenario pieno di profonde
ingiustizie. Il 20% della popolazione
mondiale, quella dei paesi a capitalismo
avanzato consuma l’83 per cento delle
risorse planetarie; [...] e lo scenario
invece che migliorare peggiora
continuamente. La portata internazionale
di questo vertice rappresenta una sfida
per tutte quelle organizzazioni che da
tempo lavorano per affermare con metodi
e priorità differenti principi di
giustizia sociale, di solidarietà e di
uno sviluppo equo e sostenibile. […] È
necessario costruire un nuovo modo di
pensare che sappia rispondere a quei
modelli culturali dominanti che
impongono comportamenti che impediscono
anche il solo immaginarsi una società
migliore. Un mondo diverso è invece
possibile!».
Con queste parole inizia il “Patto per
il lavoro”, in pratica un sunto di
quanto già emerso nel Forum sociale
mondiale tenutosi a Porto Alegre in
Brasile, tra il 25 e il 30 gennaio 2001
(il primo grande incontro di
organizzazioni sociali provenienti da
tutto il mondo, compresi sindacati e
Caritas internazionali) e documento
fondativo del Genova Social Forum, la
rete che gestisce le manifestazioni
genovesi, costituitosi ufficialmente il
27 febbraio, a cui aderiranno oltre
mille organizzazioni, di queste 171 di
respiro internazionale di quasi 50 paesi
diversi, espressione di tutti i
continenti. Un atto formale di
costituzione di un movimento politico
culturale la cui origine è da collocarsi
tra la fine degli anni Ottanta e i primi
anni Novanta del XX secolo.
Sono gli anni in cui si assiste al
crollo dei regimi socialisti e il venir
meno delle teorie politico-economiche
che li avevano ispirati. Mentre si
afferma e si diffonde, il modello
liberal-democratico che caratterizza le
cosiddette nazioni occidentali;
essenzialmente basato sul mercato e le
sue leggi, come regolatore dell’aspetto
economico e sociale.
Un processo mondiale di espansione della
civiltà capitalistica denominato
globalizzazione che, paradossalmente,
subito dopo la sua veloce diffusione
inizia a evidenziare effetti
collaterali. Un sistema incardinato
sulle leggi economiche determina una
sempre maggiore attenzione all’aspetto
produttivo, alla perenne e ossessiva
ricerca del profitto. Tutto ciò che è
improduttivo all’interno della società
passa in secondo piano con sensibili
conseguenze tipo la drastica riduzione
delle spese per l’assistenza alle
persone (welfare) o la scarsa
considerazione per l’ambiente naturale.
Prevale l’economia sulla politica con
relativa perdita di potere degli Stati
nazionali a scapito del mercato globale
e quindi dei vari organismi (senza
rappresentatività democratica) che
gestiscono i rapporti commerciali e
finanziari transnazionali
(Organizzazione mondiale del Commercio -
Wto, Fondo monetario internazionale -
Fmi, Banca Mondiale, ecc.), sempre più
espressione di multinazionali e lobby
finanziarie. Inoltre la crescente
necessità di risorse (sia materie prime
che manodopera a basso costo) spinge
verso un nuovo colonialismo di natura
economica da parte dei paesi più ricchi
e industrializzati (di cui il G8 è
espressione) verso quelli più poveri (in
gran parte nel Sud del mondo), con
corollario di conflitti armati e
squilibri (tipo le migrazioni).
In questo scenario, nel gennaio del
1994, la sollevazione armata della
popolazione del Chiapas nel Messico
meridionale, in opposizione agli accordi
di libero commercio tra Usa, Canada e
governo messicano, diventa un evento
essenziale. Una ribellione più mediatica
che violenta la quale usciva dalla
dimensione locale americana; essa voleva
contestare l’intera politica economica
globale e pertanto richiamava
esplicitamente l’attenzione
internazionale.
La rivolta in Chiapas si lega idealmente
alla protesta della popolazione Ogoni, a
metà degli anni Novanta, contro i
devastanti danni ambientali e umani
causati dallo sfruttamento delle risorse
petrolifere nel delta del Niger da parte
di compagnie occidentali e che portò
all’esecuzione di otto attivisti e
dell’intellettuale Ken Saro Wiwa, guida
della contestazione. Evento che a
livello mondiale fece apparire in
maniera evidente gli effetti perversi
dell’economia iper liberista. È in
questo periodo che si diffonde in tutto
il mondo la critica e la contestazione
ai nuovi assetti di potere. «Un
numero sempre maggiore di attivisti
considera le multinazionali, e i giochi
di potere che assicurano loro piena
libertà di azione, come la causa prima
delle ingiustizie politiche del mondo»
(Klein).
Una maggiore attenzione per i temi come
la tutela dei lavoratori, i diritti
umani e l’ecologia (temi che avevano
perso centralità dopo le contestazioni
degli anni Sessanta e Settanta del
Novecento). Se nei paesi in via di
sviluppo nascono nuovi movimenti
sindacali (tipo Via campesinas)
attenti anche alla difesa dell’ambiente
(eco-sostenibilità), nei paesi
occidentali iniziano vaste campagne di
boicottaggio contro grandi aziende
multinazionali colpevoli di disastri
ambientali o di comportamenti lesivi dei
diritti umani e, nello stesso tempo, si
organizza la contestazione.
Ad esempio in Inghilterra l’ecologismo
radicale unito all’attivismo
antiaziendale porta alla nascita del
movimento Reclaim the street (Rts,
presto diffuso in decine di nazioni) che
si rende protagonista di azioni
simboliche (come il piantare alberi in
mezzo all’asfalto o il blocco di strade
e autostrade mediante feste
improvvisate) che ricordano i
situazionisti degli anni Sessanta e
pongono l’attenzione sulla difesa degli
spazi urbani minacciati dagli eccessi
del progresso economico. Tra il 1997 e
il 1998 Rts organizza almeno una
trentina di manifestazioni di protesta
da Utrecht fino a Toronto e Sidney.
Negli stessi anni, in Francia, nasce
un’altra grande rete di protesta
internazionale; Attac
(associazione per la tassazione delle
transazioni finanziarie e per l’aiuto ai
cittadini) movimento che si rende subito
protagonista di campagne informative e
manifestazioni di protesta contro le
politiche neo liberiste in gran parte
d’Europa. In Italia si possono citare,
Ya Basta o la Rete Lilliput.
Proprio la contestazione alla politica
economica mondiale è il filo che lega e
unisce questi nuovi movimenti che si
affiancano e rilanciano le battaglie di
quelli storici (Greenpeace,
Human Rights Watch, Terre des
Hommes, ecc.) e, nella seconda metà
degli anni Novanta, iniziano a
focalizzare le loro proteste contro i
raduni dei politici e degli organismi
transnazionali che controllano
l’economia. Nel maggio del 1998 oltre
40.000 persone contestano a Birmigham
l’incontro dei paesi più
industrializzati del pianeta e nello
stesso mese viene duramente contestato
il vertice Wto di Ginevra.
People Before Profit
(le persone prima del profitto) è la
scritta che appare il 30 novembre 1999
nel cielo di Seattle su uno striscione
trascinato da un aereo da turismo mentre
decine di migliaia di manifestanti
organizzano una contestazione che coglie
del tutto impreparate le istituzioni. Il
vertice del Wto viene interrotto per il
sit-in che impedisce ai delegati
l’accesso ai luoghi di riunione e per
gli scontri di piazza che inducono la
polizia a dichiarare il coprifuoco (Agnoletto-Guadagnucci).
Il movimento dei movimenti ha fatto la
sua clamorosa apparizione sui media di
tutto il mondo; nasce il cosiddetto
“popolo di Seattle” poi ribattezzato
movimento No-global.
Da quel momento non c’è summit delle
istituzioni economico-finanziarie
globali che non venga accompagnato da
forti contestazioni. Dalla cittadina
svizzera di Davos, sede del World
Economic Forum, a Praga dove si
riuniscono Banca mondiale e Fondo
monetario internazionale, passando per
le manifestazioni di Washington o
Melbourne.
Nel 2000 in parallelo con il Giubileo
dei cattolici anche i movimenti di
ispirazione religiosa (non solo
cristiani), specie quelli più attenti
agli aspetti sociali, forniscono nuova
linfa al “popolo di Seattle” che diventa
un protagonista a tutti gli effetti
sulla scena politica mondiale. Sembrano
le premesse per un’inversione di
tendenza nel pensiero dominante, una
rivoluzione culturale. Si forma una
vasta platea di intellettuali che si
schierano apertamente a favore del
movimento condividendone le idee e
fornendo riferimenti ideologici; il
filosofo statunitense Noam Chomsky, il
sociologo filippino Walden Bello, la
politologa inglese Susan George, lo
scrittore spagnolo Ignacio Ramonet, le
intellettuali indiane Arundathi Roy e
Vandana Shiva solo per citarne alcuni.
Così come inizia a formarsi una cultura
No-global fondata su testi tipo: La
fine del lavoro e L’era
dell’accesso dell’economista
statunitense Jeremy Rifkin, No logo
della giornalista canadese Naomi Klein o
L’Occidentalizzazione del mondo
del filosofo francese Serge Latouche.
Ciò che si era formato agli inizi del
2001, in vista delle giornate genovesi,
era qualcosa di inedito. Un organismo
politico senza le gabbie ideologiche del
Novecento che basava la sua dialettica
sulle grandi questioni planetarie; «Qualcuno
all’epoca aveva già cominciato a parlare
di no-global, ma si trattava davvero, di
un movimento dei movimenti, tanto era
grande la varietà dei suoi componenti»
(Agnoletto-Guadagnucci). Dagli
ecologisti radicali americani (Social
Watch) ai pacifisti religiosi (a margine
delle giornate genovesi fu organizzata
anche una veglia di preghiera a cui
aderirono esponenti di varie religioni:
cattolici, protestanti, islamici,
buddisti) e gli attivisti anarchici,
passando per i partiti politici della
Sinistra unita europea.
Ovviamente la crescita del movimento
inizia a scontrarsi con gli assetti del
potere costituito. Ed ecco che tra il
2000 e il 2001 il contrasto alle
proteste diventa sempre più violento,
soprattutto l’obiettivo dei media si
focalizza sulle violenze ignorando
l’oggetto delle contestazioni o le
eventuali proposte dei No-global.
I mesi che precedono il G8 di Genova non
sono altro che un crescendo di tensione
sia mediatica che reale: dagli scontri
avvenuti durante il vertice di Fmi e Bm
a Praga nel settembre del 2000 (con 850
arresti), alla violenta repressione
della manifestazione contro il global
forum dell’Ocse a Napoli, nel marzo
2001. A giugno, durante il Consiglio
d’Europa a Goteborg (che doveva decidere
sulle limitazioni alle emissioni nocive
in atmosfera), la polizia spara sui
manifestanti ferendo gravemente alcune
persone.
A questo punto i principali mezzi di
informazione adottano una linea che
diffonde soprattutto paura. Pertanto nei
giorni di Genova non solo verrà favorita
la repressione delle manifestazioni ma
sarà pure legittimata. Emblematiche le
parole dello storico inglese Eric
Hobsbawn in un’intervista in merito al
movimento No-global: «Si concentrano
sugli errori che sta compiendo il
processo di globalizzazione mondiale in
corso, ma non si limitano a
sottolinearli. Fanno proposte, elaborano
teorie per correggerli. Questo è un
passo avanti, enorme e nuovo, rispetto
al passato». Ma sull’imminente G8 di
Genova affermava: «Ho come
l’impressione che ci sia troppa attesa
per questo appuntamento, troppo
interesse da parte di tutti. Quando è
così, i più deboli hanno tutto da
perderci».
Il giornalista Marco Imarisio, per anni
cronista delle vicende del movimento
No-global, scrive: «La violenza ha
cancellato anche le ragioni. […] Lo dice
quel che è successo dopo, ampiamente
previsto nei documenti elaborati proprio
al contro-vertice del G8. […] Erano
analisi profetiche, anche se non
trovavano soluzioni condivise.
Indicavano però come quel movimento non
fosse votato a una protesta sterile.
Tutto spazzato via».
Dall’esplosione della bolla finanziaria
alla crisi economica internazionale,
puntualmente verificatasi tra il 2008 e
il 2011 con intere nazioni ridotte sul
lastrico (su tutti il caso della
Grecia); dalle speculazioni sui generi
di prima necessità, con pesanti
contraccolpi sociali in vaste aree del
pianeta, fino a quei problemi che negli
ultimi anni stanno assumendo toni
drammatici come le migrazioni e la
sostenibilità ambientale.
A partire da luglio 2001 inizia la
parabola discendente del movimento
No-global; criminalizzato prima sui
media e poi nelle piazze e quindi
delegittimato dal punto di vista
politico e culturale, infine messo fuori
gioco da un altro evento storico: gli
attentati terroristici dell’11 settembre
2001.
«Con gli attacchi alle Torri gemelle
e al Pentagono tutto cambia. Lo scontro
tra il terrorismo integralista islamico
da un lato e l’Occidente dall’altro è il
nuovo punto d’equilibrio della
geopolitica mondiale. Il supposto
scontro di civiltà s’impone nel discorso
pubblico» (Agnoletto-Guadagnucci).
Nuove guerre globali che hanno
l’elemento etnico-religioso come
fondamento e che spesso assumono i toni
delle crociate pongono in secondo piano
tutti quei temi (economico, sociali e
ambientali) che erano stati sollevati
negli anni Novanta.
Il 15 febbraio 2003 una serie di
manifestazioni da una parte all’altra
del pianeta a seguire il tragitto del
sole, raccolgono oltre 110 milioni di
persone in opposizione alla guerra. Mai
nella storia vi era stata una
mobilitazione per lo stesso obiettivo.
Comunque, a distanza di anni, si può
affermare che quello fu il “canto del
cigno” del movimento No-global che
trovava nelle manifestazioni pacifiste
la risultante a tutte le sue idee
antisistema. Infatti la mobilitazione
non riuscirà a condizionare la linea
politica mondiale; dimostrazione di come
il movimento fosse ormai condannato
all’irrilevanza politica. Tra il 2001 e
il 2003 si assiste in pratica alla
chiusura di una stagione dove si
ragionava di una società e “un’economia
capace di futuro”, in alternativa
all’attuale modello di sviluppo.
Il dato storico da sottolineare è forse
quello delle enormi potenzialità del
movimento No-global soprattutto in
termini di previsione delle future
congiunture che finisce però relegato al
ruolo della Cassandra mitologica.
Infatti le giornate genovesi, in questi
venti anni sono passate alla storia solo
con la terribile sintesi che chiude
l’inchiesta di Amnesty International:
«Nel luglio 2001 vi è stata in Italia
una violazione dei diritti umani di
proporzioni mai viste in Europa nella
storia recente. […] Si tratta della più
vasta e cruenta repressione di massa
della storia europea recente».
Pertanto è forse più appropriato
accostare il movimento No-global a
un’altra figura mitologica: Laoconte.
Riferimenti bibliografici:
Agnoletto Vittorio, Guadagnucci Lorenzo,
L’eclisse della democrazia,
Feltrinelli, Milano 2011.
Imarisio Marco, La ferita,
Feltrinelli, Milano 2011.
Klein Naomi, No Logo, Baldini&Castoldi,
Milano 2001. |