[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

164 / AGOSTO 2021 (CXCV)


contemporanea

LUGLIO 2001

IL G8 DI GENOVA E IL MOVIMENTO NO-GLOBAL

di Marco Fossati

 

Tra il 19 e il 21 luglio 2001 si svolse nella città di Genova una delle più grandi, e purtroppo violente, manifestazioni di piazza della storia italiana recente. Essa nasceva a margine e in opposizione, al periodico incontro dei capi di stato delle otto nazioni più ricche e industrializzate del pianeta (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia, Giappone), il cosiddetto G8, in programma in quei giorni nella città ligure.

 

Un morto, 560 feriti, 219 arresti, danni per 100 miliardi (in lire)” è il “drammatico bilancio” di tre giorni di manifestazioni, riportato dal quotidiano La Stampa, lunedì 23 luglio 2001. La cronaca di quanto avvenuto è ormai nota. Il 19 le manifestazioni furono relativamente tranquille, ma il 20 la situazione cambiò drasticamente. Sino dalla mattina una minoranza (alcune centinaia) di manifestanti (molti vestiti di nero e quindi identificati con un nome che diverrà tristemente famoso: black bloc) iniziano a compiere atti vandalici nei pressi della cosiddetta zona rossa, ovvero l’area del centro storico cittadino dove si svolgeva il summit dei capi di stato; blindata e presidiata da ingenti forze dell’ordine.

 

La risposta di quest’ultime è inizialmente tesa a isolare e bloccare i violenti senza un uso eccessivo della forza, ma la conformazione di Genova (strade strette, vicoli, piccole piazze) non agevola l’operazione. I black bloc iniziano a infiltrarsi nei numerosi sit-in e presidi pacifici che caratterizzano quasi tutte le piazze genovesi intorno alla zona rossa, moltiplicando così gli episodi vandalici. È a questo punto che la gestione dell’ordine pubblico, per errori di valutazione o incomprensioni nella catena di comando, diviene disastrosa.

 

Abbandonata ogni cautela vengono caricati sia i manifestanti violenti che quelli pacifici. Soprattutto, con un’azione che si rivelerà controproducente, oltreché tragica, si tenta di bloccare e disperdere il grosso corteo che inizia a muoversi dalla parte est della città, verso la zona rossa; corteo autorizzato, che seguiva quindi un percorso concordato con le forze dell’ordine e fino a quel momento del tutto pacifico. Il risultato è drammatico; si scatena una guerriglia urbana in gran parte della città con pesanti episodi di violenza e la morte di un manifestante, ucciso con un colpo di pistola dalle forze dell’ordine (le indagini accerteranno la legittima difesa sebbene sulla vicenda rimarranno numerose ombre).

 

In un clima ormai pesantissimo non vengono fermati i lavori del summit che procedono, come da programma, nella giornata successiva. Così come non si fermano le manifestazioni che in quel contesto degenerano facilmente in atti di vandalismo, aggiungendo, nella giornata del 21 luglio, altre ore di guerriglia urbana per le strade genovesi. Con le forze dell’ordine che a loro volta si abbandoneranno ad azioni sconsiderate di mera vendetta; come le violenze che subiscono i fermati durante gli scontri, nella caserma di Bolzaneto o la famigerata irruzione, a tarda sera nella scuola Diaz, dove vengono picchiati a sangue freddo e arrestati decine di manifestanti, ritenuti appartenere ai black bloc (accuse che cadranno completamente dato che erano basate su false prove fabbricate dalle stesse forze di polizia).

 

Nel corso degli anni tutte queste vicende (le violenze di entrambe le parti) saranno al centro di lunghi percorsi investigativi e processuali che tenteranno pur con molte lacune, di appurare i fatti accaduti, almeno dal punto di vista giudiziario. Ma sia la cronaca di quei giorni che, in un secondo tempo, l’azione della magistratura (con corollario di speculazioni politiche e mediatiche) hanno fatto perdere di vista o dimenticare il significato storico degli eventi ovvero come si arrivò e soprattutto quali furono le conseguenze di quei giorni; ragionamento che si può fare oggi a vent’anni di distanza.

 

In realtà le manifestazioni di piazza dovevano essere solo gli atti conclusivi di una serie di giornate iniziate il 15 luglio con l’apertura dei lavori di quello che si auspicava essere il vero contraltare alla riunione dei capi di stato: il Public Forum. Ovvero un evento politico culturale espressione di un movimento di protesta che si era strutturato nei mesi precedenti.

 

«Lo scenario mondiale in cui ci prepariamo al vertice del G8 a Genova è uno scenario pieno di profonde ingiustizie. Il 20% della popolazione mondiale, quella dei paesi a capitalismo avanzato consuma l’83 per cento delle risorse planetarie; [...] e lo scenario invece che migliorare peggiora continuamente. La portata internazionale di questo vertice rappresenta una sfida per tutte quelle organizzazioni che da tempo lavorano per affermare con metodi e priorità differenti principi di giustizia sociale, di solidarietà e di uno sviluppo equo e sostenibile. […] È necessario costruire un nuovo modo di pensare che sappia rispondere a quei modelli culturali dominanti che impongono comportamenti che impediscono anche il solo immaginarsi una società migliore. Un mondo diverso è invece possibile!».

 

Con queste parole inizia il “Patto per il lavoro”, in pratica un sunto di quanto già emerso nel Forum sociale mondiale tenutosi a Porto Alegre in Brasile, tra il 25 e il 30 gennaio 2001 (il primo grande incontro di organizzazioni sociali provenienti da tutto il mondo, compresi sindacati e Caritas internazionali) e documento fondativo del Genova Social Forum, la rete che gestisce le manifestazioni genovesi, costituitosi ufficialmente il 27 febbraio, a cui aderiranno oltre mille organizzazioni, di queste 171 di respiro internazionale di quasi 50 paesi diversi, espressione di tutti i continenti. Un atto formale di costituzione di un movimento politico culturale la cui origine è da collocarsi tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del XX secolo.

 

Sono gli anni in cui si assiste al crollo dei regimi socialisti e il venir meno delle teorie politico-economiche che li avevano ispirati. Mentre si afferma e si diffonde, il modello liberal-democratico che caratterizza le cosiddette nazioni occidentali; essenzialmente basato sul mercato e le sue leggi, come regolatore dell’aspetto economico e sociale.

 

Un processo mondiale di espansione della civiltà capitalistica denominato globalizzazione che, paradossalmente, subito dopo la sua veloce diffusione inizia a evidenziare effetti collaterali. Un sistema incardinato sulle leggi economiche determina una sempre maggiore attenzione all’aspetto produttivo, alla perenne e ossessiva ricerca del profitto. Tutto ciò che è improduttivo all’interno della società passa in secondo piano con sensibili conseguenze tipo la drastica riduzione delle spese per l’assistenza alle persone (welfare) o la scarsa considerazione per l’ambiente naturale.

 

Prevale l’economia sulla politica con relativa perdita di potere degli Stati nazionali a scapito del mercato globale e quindi dei vari organismi (senza rappresentatività democratica) che gestiscono i rapporti commerciali e finanziari transnazionali (Organizzazione mondiale del Commercio - Wto, Fondo monetario internazionale - Fmi, Banca Mondiale, ecc.), sempre più espressione di multinazionali e lobby finanziarie. Inoltre la crescente necessità di risorse (sia materie prime che manodopera a basso costo) spinge verso un nuovo colonialismo di natura economica da parte dei paesi più ricchi e industrializzati (di cui il G8 è espressione) verso quelli più poveri (in gran parte nel Sud del mondo), con corollario di conflitti armati e squilibri (tipo le migrazioni).

 

In questo scenario, nel gennaio del 1994, la sollevazione armata della popolazione del Chiapas nel Messico meridionale, in opposizione agli accordi di libero commercio tra Usa, Canada e governo messicano, diventa un evento essenziale. Una ribellione più mediatica che violenta la quale usciva dalla dimensione locale americana; essa voleva contestare l’intera politica economica globale e pertanto richiamava esplicitamente l’attenzione internazionale.

 

La rivolta in Chiapas si lega idealmente alla protesta della popolazione Ogoni, a metà degli anni Novanta, contro i devastanti danni ambientali e umani causati dallo sfruttamento delle risorse petrolifere nel delta del Niger da parte di compagnie occidentali e che portò all’esecuzione di otto attivisti e dell’intellettuale Ken Saro Wiwa, guida della contestazione. Evento che a livello mondiale fece apparire in maniera evidente gli effetti perversi dell’economia iper liberista. È in questo periodo che si diffonde in tutto il mondo la critica e la contestazione ai nuovi assetti di potere. «Un numero sempre maggiore di attivisti considera le multinazionali, e i giochi di potere che assicurano loro piena libertà di azione, come la causa prima delle ingiustizie politiche del mondo» (Klein).

 

Una maggiore attenzione per i temi come la tutela dei lavoratori, i diritti umani e l’ecologia (temi che avevano perso centralità dopo le contestazioni degli anni Sessanta e Settanta del Novecento). Se nei paesi in via di sviluppo nascono nuovi movimenti sindacali (tipo Via campesinas) attenti anche alla difesa dell’ambiente (eco-sostenibilità), nei paesi occidentali iniziano vaste campagne di boicottaggio contro grandi aziende multinazionali colpevoli di disastri ambientali o di comportamenti lesivi dei diritti umani e, nello stesso tempo, si organizza la contestazione.

 

Ad esempio in Inghilterra l’ecologismo radicale unito all’attivismo antiaziendale porta alla nascita del movimento Reclaim the street (Rts, presto diffuso in decine di nazioni) che si rende protagonista di azioni simboliche (come il piantare alberi in mezzo all’asfalto o il blocco di strade e autostrade mediante feste improvvisate) che ricordano i situazionisti degli anni Sessanta e pongono l’attenzione sulla difesa degli spazi urbani minacciati dagli eccessi del progresso economico. Tra il 1997 e il 1998 Rts organizza almeno una trentina di manifestazioni di protesta da Utrecht fino a Toronto e Sidney.

 

Negli stessi anni, in Francia, nasce un’altra grande rete di protesta internazionale; Attac (associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini) movimento che si rende subito protagonista di campagne informative e manifestazioni di protesta contro le politiche neo liberiste in gran parte d’Europa. In Italia si possono citare, Ya Basta o la Rete Lilliput.

 

Proprio la contestazione alla politica economica mondiale è il filo che lega e unisce questi nuovi movimenti che si affiancano e rilanciano le battaglie di quelli storici (Greenpeace, Human Rights Watch, Terre des Hommes, ecc.) e, nella seconda metà degli anni Novanta, iniziano a focalizzare le loro proteste contro i raduni dei politici e degli organismi transnazionali che controllano l’economia. Nel maggio del 1998 oltre 40.000 persone contestano a Birmigham l’incontro dei paesi più industrializzati del pianeta e nello stesso mese viene duramente contestato il vertice Wto di Ginevra.

 

People Before Profit (le persone prima del profitto) è la scritta che appare il 30 novembre 1999 nel cielo di Seattle su uno striscione trascinato da un aereo da turismo mentre decine di migliaia di manifestanti organizzano una contestazione che coglie del tutto impreparate le istituzioni. Il vertice del Wto viene interrotto per il sit-in che impedisce ai delegati l’accesso ai luoghi di riunione e per gli scontri di piazza che inducono la polizia a dichiarare il coprifuoco (Agnoletto-Guadagnucci). Il movimento dei movimenti ha fatto la sua clamorosa apparizione sui media di tutto il mondo; nasce il cosiddetto “popolo di Seattle” poi ribattezzato movimento No-global.

 

Da quel momento non c’è summit delle istituzioni economico-finanziarie globali che non venga accompagnato da forti contestazioni. Dalla cittadina svizzera di Davos, sede del World Economic Forum, a Praga dove si riuniscono Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, passando per le manifestazioni di Washington o Melbourne.

 

Nel 2000 in parallelo con il Giubileo dei cattolici anche i movimenti di ispirazione religiosa (non solo cristiani), specie quelli più attenti agli aspetti sociali, forniscono nuova linfa al “popolo di Seattle” che diventa un protagonista a tutti gli effetti sulla scena politica mondiale. Sembrano le premesse per un’inversione di tendenza nel pensiero dominante, una rivoluzione culturale. Si forma una vasta platea di intellettuali che si schierano apertamente a favore del movimento condividendone le idee e fornendo riferimenti ideologici; il filosofo statunitense Noam Chomsky, il sociologo filippino Walden Bello, la politologa inglese Susan George, lo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet, le intellettuali indiane Arundathi Roy e Vandana Shiva solo per citarne alcuni. Così come inizia a formarsi una cultura No-global fondata su testi tipo: La fine del lavoro e L’era dell’accesso dell’economista statunitense Jeremy Rifkin, No logo della giornalista canadese Naomi Klein o L’Occidentalizzazione del mondo del filosofo francese Serge Latouche.

 

Ciò che si era formato agli inizi del 2001, in vista delle giornate genovesi, era qualcosa di inedito. Un organismo politico senza le gabbie ideologiche del Novecento che basava la sua dialettica sulle grandi questioni planetarie; «Qualcuno all’epoca aveva già cominciato a parlare di no-global, ma si trattava davvero, di un movimento dei movimenti, tanto era grande la varietà dei suoi componenti» (Agnoletto-Guadagnucci). Dagli ecologisti radicali americani (Social Watch) ai pacifisti religiosi (a margine delle giornate genovesi fu organizzata anche una veglia di preghiera a cui aderirono esponenti di varie religioni: cattolici, protestanti, islamici, buddisti) e gli attivisti anarchici, passando per i partiti politici della Sinistra unita europea.

 

Ovviamente la crescita del movimento inizia a scontrarsi con gli assetti del potere costituito. Ed ecco che tra il 2000 e il 2001 il contrasto alle proteste diventa sempre più violento, soprattutto l’obiettivo dei media si focalizza sulle violenze ignorando l’oggetto delle contestazioni o le eventuali proposte dei No-global.

 

I mesi che precedono il G8 di Genova non sono altro che un crescendo di tensione sia mediatica che reale: dagli scontri avvenuti durante il vertice di Fmi e Bm a Praga nel settembre del 2000 (con 850 arresti), alla violenta repressione della manifestazione contro il global forum dell’Ocse a Napoli, nel marzo 2001. A giugno, durante il Consiglio d’Europa a Goteborg (che doveva decidere sulle limitazioni alle emissioni nocive in atmosfera), la polizia spara sui manifestanti ferendo gravemente alcune persone.

 

A questo punto i principali mezzi di informazione adottano una linea che diffonde soprattutto paura. Pertanto nei giorni di Genova non solo verrà favorita la repressione delle manifestazioni ma sarà pure legittimata. Emblematiche le parole dello storico inglese Eric Hobsbawn in un’intervista in merito al movimento No-global: «Si concentrano sugli errori che sta compiendo il processo di globalizzazione mondiale in corso, ma non si limitano a sottolinearli. Fanno proposte, elaborano teorie per correggerli. Questo è un passo avanti, enorme e nuovo, rispetto al passato». Ma sull’imminente G8 di Genova affermava: «Ho come l’impressione che ci sia troppa attesa per questo appuntamento, troppo interesse da parte di tutti. Quando è così, i più deboli hanno tutto da perderci».

 

Il giornalista Marco Imarisio, per anni cronista delle vicende del movimento No-global, scrive: «La violenza ha cancellato anche le ragioni. […] Lo dice quel che è successo dopo, ampiamente previsto nei documenti elaborati proprio al contro-vertice del G8. […] Erano analisi profetiche, anche se non trovavano soluzioni condivise. Indicavano però come quel movimento non fosse votato a una protesta sterile. Tutto spazzato via».

 

Dall’esplosione della bolla finanziaria alla crisi economica internazionale, puntualmente verificatasi tra il 2008 e il 2011 con intere nazioni ridotte sul lastrico (su tutti il caso della Grecia); dalle speculazioni sui generi di prima necessità, con pesanti contraccolpi sociali in vaste aree del pianeta, fino a quei problemi che negli ultimi anni stanno assumendo toni drammatici come le migrazioni e la sostenibilità ambientale.

 

A partire da luglio 2001 inizia la parabola discendente del movimento No-global; criminalizzato prima sui media e poi nelle piazze e quindi delegittimato dal punto di vista politico e culturale, infine messo fuori gioco da un altro evento storico: gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.

 

«Con gli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono tutto cambia. Lo scontro tra il terrorismo integralista islamico da un lato e l’Occidente dall’altro è il nuovo punto d’equilibrio della geopolitica mondiale. Il supposto scontro di civiltà s’impone nel discorso pubblico» (Agnoletto-Guadagnucci). Nuove guerre globali che hanno l’elemento etnico-religioso come fondamento e che spesso assumono i toni delle crociate pongono in secondo piano tutti quei temi (economico, sociali e ambientali) che erano stati sollevati negli anni Novanta.

 

Il 15 febbraio 2003 una serie di manifestazioni da una parte all’altra del pianeta a seguire il tragitto del sole, raccolgono oltre 110 milioni di persone in opposizione alla guerra. Mai nella storia vi era stata una mobilitazione per lo stesso obiettivo.

 

Comunque, a distanza di anni, si può affermare che quello fu il “canto del cigno” del movimento No-global che trovava nelle manifestazioni pacifiste la risultante a tutte le sue idee antisistema. Infatti la mobilitazione non riuscirà a condizionare la linea politica mondiale; dimostrazione di come il movimento fosse ormai condannato all’irrilevanza politica. Tra il 2001 e il 2003 si assiste in pratica alla chiusura di una stagione dove si ragionava di una società e “un’economia capace di futuro”, in alternativa all’attuale modello di sviluppo.

 

Il dato storico da sottolineare è forse quello delle enormi potenzialità del movimento No-global soprattutto in termini di previsione delle future congiunture che finisce però relegato al ruolo della Cassandra mitologica. Infatti le giornate genovesi, in questi venti anni sono passate alla storia solo con la terribile sintesi che chiude l’inchiesta di Amnesty International: «Nel luglio 2001 vi è stata in Italia una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente. […] Si tratta della più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente». Pertanto è forse più appropriato accostare il movimento No-global a un’altra figura mitologica: Laoconte.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Agnoletto Vittorio, Guadagnucci Lorenzo, L’eclisse della democrazia, Feltrinelli, Milano 2011.

Imarisio Marco, La ferita, Feltrinelli, Milano 2011.

Klein Naomi, No Logo, Baldini&Castoldi, Milano 2001.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]