N. 53 - Maggio 2012
(LXXXIV)
MORTE DI POMPEO NELLA TRADIZIONE ANTICA
TRE TESTIMONI A CONFRONTO
di Paola Scollo
Degli
ultimi
istanti
di
vita
di
Pompeo
il
Magnus
la
tradizione
ci
ha
consegnato
racconti
ricchi
di
pathos.
La
particolare
attenzione
riservata
all’episodio
trova
giustificazione,
ancor
più
che
nell’interesse
per
il
singolo
personaggio,
nel
valore
insito
nella
vicenda.
La
fine
di
Pompeo
si
presta,
infatti,
a
riflessioni
di
carattere
universale
sulla
sorte
degli
uomini
potenti.
Dopo
trentaquattro
anni
di
dominio
incontrastato
e di
vittorie,
Pompeo
fa
esperienza
della
sconfitta.
Improvvisamente,
non
vi è
più
nulla
dell’antica
magnitudo:
si
rivela
un
essere
piccolo,
insignificante.
Nel
momento
della
difficoltà,
quando
Venus
Victrix
non
ne
asseconda
e
sostiene
l’azione,
è
costretto
a
scendere
dal
currus
triumphalis
per
darsi
alla
fuga.
Nell’immagine
degli
antichi,
la
parabola
di
Pompeo
diviene
paradigma
dell’uomo
vittima
dei
giochi
imperscrutabili
della
sorte.
Di
elevato
valore
sono
per
noi
i
racconti
di
Cesare,
Lucano
e
Plutarco.
Osserviamoli
da
vicino.
Cesare
dedica
agli
ultimi
momenti
della
vita
di
Pompeo
due
capitoli
del
Bellum
Civile
(CIII-
CIV):
«Essendo
giunta
voce
dell’arrivo
di
Cesare,
Pompeo
decide
di
non
recarsi
in
Siria.
Quindi,
riscossa
una
somma
dagli
appaltatori
delle
imposte,
presa
un’altra
a
prestito
da
alcuni
privati,
imbarcata
sulle
navi
una
grande
somma
in
monete
di
bronzo
per
le
spese
militari,
armati
duemila
uomini,
che
in
parte
aveva
scelti
fra
gli
schiavi
delle
compagnie,
in
parte
dai
commercianti,
più
tutti
quelli
dei
suoi
che
giudicava
adatti
allo
scopo,
giunse
a
Pelusio.
Là
era
casualmente
il
re
Tolomeo,
un
ragazzo
che,
con
grandi
forze,
faceva
guerra
alla
sorella
Cleopatra,
cacciata
pochi
mesi
prima
dal
regno
a
causa
dei
maneggi
di
parenti
e
amici;
e il
campo
di
Cleopatra
non
era
molto
lontano
dal
suo.
Pompeo
gli
mandò
a
chiedere,
in
grazia
dell’ospitalità
e
dell’amicizia
paterna,
di
accoglierlo
ad
Alessandria
e di
proteggerlo
con
i
suoi
mezzi
nella
sventura
(in
calamitate).
Ma i
suoi
inviati,
compiuto
l’incarico,
cominciarono
a
parlar
troppo
francamente
con
i
soldati
del
re e
ad
esortarli
a
dare
il
loro
aiuto
a
Pompeo
e a
non
disprezzarlo
nella
sfortuna.
Fra
costoro
c’erano
numerosi
soldati
di
Pompeo,
che
Gabinio
aveva
presi
dal
suo
esercito
in
Siria
e
portati
ad
Alessandria
e
che,
terminata
la
guerra,
aveva
lasciati
presso
Tolomeo,
padre
del
fanciullo.
Apprese
queste
notizie,
gli
amici
del
re
che,
per
l’età
di
lui,
esercitavano
la
reggenza,
o
spinti
dal
timore,
come
andavano
dicendo
in
seguito,
che
Pompeo,
sobillato
l’esercito
del
re,
potesse
occupare
Alessandria
e
l’intero
Egitto,
o
perché,
disprezzata
la
sua
sorte,
come
per
lo
più
accade
che
cioè
nella
sventura
gli
amici
si
trasformano
in
nemici,
pubblicamente
risposero
volentieri
ai
legati
e
gli
ordinarono
di
recarsi
dal
re;
ma,
presa
una
decisione
in
segreto,
mandarono
Achilla,
prefetto
del
re,
uomo
di
singolare
audacia,
e
Lucio
Settimio,
tribuno
militare,
a
uccidere
Pompeo.
Invitato
cortesemente
da
costoro
e
indotto
da
una
certa
familiarità
con
Settimio,
in
quanto
durante
la
guerra
contro
i
pirati
era
stato
al
suo
comando
con
il
grado
di
centurione,
salì
su
una
piccola
imbarcazione
con
pochi
dei
suoi;
qui
Achilla
e
Settimio
lo
uccisero.
Anche
Lucio
Lentulo
venne
fatto
arrestare
dal
re e
fu
trucidato
in
carcere».
Abbandonato
da
tutti,
Pompeo
viene
colto
da
un
terribile
e
profondo
senso
di
smarrimento.
Progetta
quindi
la
fuga,
in
un
vorticoso
intreccio
di
timori
e
speranze,
in
un
cieco
agitarsi
senza
meta
tra
tentativi
falliti
e
ipotesi
scartate.
Da
ultimo,
sceglie
di
recarsi
in
Egitto.
Ma,
una
volta
giunto
a
Pelusio,
lo
attende
inesorabile
il
fato.
Nell’immagine
di
Cesare,
Pompeo
è
vittima
della
sorte
avversa:
il
destino
capriccioso
è da
porre
alle
origini
della
caduta,
prima
ancora
degli
eventi
e
del
suo
stesso
agire.
A
ben
vedere,
agli
ultimi
istanti
di
vita
di
Pompeo
Cesare
dedica
solo
poche
righe.
La
narrazione
si
distingue
per
sinteticità,
lucidità
e
freddezza;
la
sintassi,
dall’elevato
valore
espressivo,
è
ampia
e
quasi
involuta.
Ne
deriva
una
sorta
di
frammentazione
dello
stile
quasi
a
suggerire
l’idea
di
un
frenetico,
vuoto
dibattersi.
Emerge,
in
particolar
modo,
la
considerazione
di
Cesare
secondo
cui
spesso,
nella
sventura,
gli
amici
possano
trasformarsi
in
nemici:
ut
plerumque
in
calamitate
ex
amicis
inimici
exsistunt
(CIV
1).
Sono
queste
le
parole
con
cui
Cesare
si
congeda
dal
suo
principale
avversario
politico.
Sono
parole,
quelle
menzionate,
che
rispecchiano
la
coscienza
che
Cesare
ha
del
significato
del
ruolo
del
Magnus.
Parole
amare
e
cariche
di
consapevolezza
che,
in
qualche
modo,
Cesare
rivolge
anche
a se
stesso.
Di
notevole
interesse
è
poi
il
racconto
di
Lucano
nel
Bellum
civile.
Sin
dai
primi
versi
risulta
evidente
la
differenza
di
prospettiva
rispetto
a
Cesare.
La
morte
di
Pompeo
viene
descritta
con
toni
macabri,
secondo
il
gusto
dell’epoca.
In
particolare,
sorprende
la
ferocia
con
cui
Settimio,
ufficiale
pompeiano
ormai
in
congedo,
si
accanisce
sul
corpo,
ormai
privo
di
vita,
del
comandante
(VIII
667-
675):
«Difatti,
lo
spietato
Settimio,
mentre
sta
perpetrando
il
delitto,
ne
escogita
uno
ancora
più
nefando:
strappa
il
velo,
mettendo
allo
scoperto
il
volto
venerando
di
Pompeo
moribondo,
afferra
il
capo,
in
cui
è
ancora
presente
il
respiro,
e
appoggia
il
collo,
ormai
abbandonato,
di
traverso
su
uno
dei
banchi
dei
rematori.
Tronca
poi
i
nervi
e le
vene
e
spezza,
con
reiterati
colpi,
le
vertebre:
essi
non
conoscevano
ancora
il
modo
di
staccare,
con
un
solo
fendente
della
spada,
la
testa
dal
busto.
Ma,
dopo
che
il
capo,
troncato
dal
corpo,
rotolò
via,
il
cortigiano
fario
reclamò
per
sé
la
prerogativa
di
mostrarlo
con
la
sua
destra».
Nell’atto
stesso
di
compiere
l’atroce
delitto,
Settimio
si
macchia
di
un
delitto
ancora
più
grave:
la
decapitazione.
Di
qui
l’apostrofe:
«O
Romano
degenere,
capace
solo
di
svolgere
le
mansioni
più
basse,
tronchi
con
l’aborrita
spada
il
sacro
capo
di
Pompeo,
ma
poi
non
lo
porti
tu
stesso?
O
destino
di
un’onta
suprema!».
Nell’immagine
di
Lucano,
l’omicida
è
degener:
ha
avuto
l’audacia
di
mozzare
il
sacrum
caput
di
Pompeo,
ma
non
di
portarla
personalmente
al
cospetto
di
Tolomeo,
qualificato
invece
come
impius,
in
quanto
ha
commissionato
l’omicidio.
Di
fronte
a
tale
violenza,
Lucano
non
può
che
muoversi
a
pietà
nei
confronti
del
generale
vittorioso
in
Oriente,
mostrando
chiaro
risentimento
verso
gli
dèi
che
hanno
sostenuto
e
assecondato
l’azione
di
Cesare,
genio
del
male.
Ma
c’è
di
più.
Lucano
sembra
voler
sottolineare
il
carattere
nobile
e
solenne
di
Pompeo,
avvolgendo
l’episodio
in
un’aura
di
sacralità.
Altro
aspetto
preminente
è
che
proprio
tale
sacralità
fisica
e
morale
appare
messa
in
contrasto
con
l’esaltazione
dell’empietà
dell’uccisore
(saevus
in
ipso/
Septimius
sceleris
maius
scelus
invenit
actu,
667-
668).
In
punto
di
morte,
mentre
le
armi
ne
percuotono
la
schiena
e il
petto,
Pompeo
continua
a
mantenere
i
tratti
del
venerabile
decoro
della
sacra
bellezza
(decus
sacrae
venerabile
formae,
664).
L’espressione
del
volto,
invece,
manifesta
sdegno
nei
confronti
degli
dèi.
E
tale
contrasto
dovrebbe
suonare
da
rivelazione
e
monito
ai
Romani
del
baratro
a
cui
rischiano
di
condurli
i
loro
costumi.
La
narrazione
di
Lucano
prosegue,
arricchendosi
di
particolari
sempre
più
raccapriccianti,
volti
a
suscitare
pathos
(679-
691):
«Affinché
il
sacrilego
adolescente
potesse
osservare
il
Grande,
quella
chioma
piena
di
ricci
onorata
dai
re,
quei
capelli
resi
più
belli
dalla
nobile
fronte
vennero
ghermiti
con
violenza
da
una
mano
e
-mentre
il
viso
conservava
ancora
tracce
di
vita,
rantoli
facevano
mormorare
la
bocca
e
gli
occhi
si
irrigidivano
spalancati-
fu
conficcata
un’asta
sotto
quella
testa,
ad
opera
della
quale
scompariva
la
pace,
allorché
comandava
lo
scatenarsi
della
guerra;
questo
capo
dava
vita
alle
leggi,
al
Campo
Marzio
e ai
rostri,
di
questo
volto
ti
compiacevi,
o
Fortuna
di
Roma.
Ma
la
contemplazione
di
quel
capo
non
fu
sufficiente
al
despota
nefando:
egli
desiderò
che
fosse
conservata
la
prova
del
delitto.
Vennero
così
tolti
dalla
testa,
con
tecnica
esecrabile,
il
sangue
e
gli
umori,
fu
rimosso
il
cervello,
la
pelle
venne
fatta
essiccare,
fu
asportato
tutto
ciò
che
si
sarebbe
potuto
putrefare
ed
il
viso,
con
l’aiuto
di
un
preparato
velenoso,
si
solidificò».
Di
qui
lo
sfogo
di
Lucano
contro
i
discendenti
della
stirpe
di
Lago
(692-
700):
«Estrema
discendenza
della
stirpe
di
Lago
destinata
a
morire,
tu,
degenere,
che
dovrai
passare
il
comando
alla
sorella
incestuosa
-mentre
custodisci
presso
di
te,
in
una
grotta
consacrata,
il
Macedone
e le
ceneri
dei
re
riposano
sotto
un
monte
appositamente
innalzato,
mentre
i
Mani
dei
Tolomei
e la
serie
ignominiosa
dei
sovrani
d’Egitto
sono
racchiusi,
indegnamente,
nelle
piramidi
e
nei
mausolei-
ecco,
Pompeo
è
lacerato
dalle
rocce
del
lido
e il
suo
corpo
mutilato
è
sballottato
qua
e là
dalle
acque
dei
guadi!
A
tal
punto
ti
riusciva
intollerabile
l’idea
di
preoccuparti
di
custodire
intatta
la
salma
per
il
suocero?».
Infine,
l’invettiva
contro
la
sorte
(701-
711):
«Con
una
simile
prova
di
fedeltà
la
Fortuna
del
Grande
non
ha
posto
ostacoli,
sino
alla
fine,
allo
svolgimento
di
fati
così
favorevoli,
con
la
medesima
fedeltà
lo
fa
precipitare,
annientandolo,
al
culmine
del
potere
e,
in
un
solo
giorno,
gli
fa
scontare
tutti
i
rovesci
e le
sconfitte,
che
aveva
risparmiato
per
tanti
anni
proprio
a
lui,
a
quel
Pompeo,
che
non
aveva
mai
visto
gli
eventi
lieti
uniti
con
quelli
tristi.
Nella
sorte
favorevole
nessun
dio
gli
era
ostile,
in
quella
avversa
nessun
nume
lo
risparmiò:
la
Fortuna,
dopo
aver
rimandato
per
lungo
tempo,
lo
abbatté
con
un
colpo
solo.
Adesso
è
sbattuto
sul
lido,
afferrato
dagli
scogli
mentre
le
onde
passano
attraverso
le
sue
ferite,
un
oggetto,
dai
lineamenti
sfigurati,
con
cui
il
mare
sembra
giocare:
l’unica
caratteristica,
che
lo
fa
riconoscere
come
il
corpo
del
Grande,
è la
perdita
del
capo
troncato».
L’opera
di
Lucano
è il
trionfo
della
retorica
nell’epica
o,
meglio,
è
l’epica
che
si
fa
retorica.
Per
questo
motivo,
è
legittimo
chiedersi
se
si
tratti
di
un’opera
“sincera”,
sorta
da
un
reale
sfogo
interiore
o,
più
semplicemente,
un’esercitazione
di
retorica,
nata
dal
gusto
di
scrivere,
dal
tentativo
di
assecondare
la
tendenza,
tipica
del
periodo,
alla
retorica.
Se
l’intento
retorico
sembra
facilmente
supponibile,
esso
va
colto,
tuttavia,
nel
suo
reale
significato,
di
una
operazione
politico-culturale
legata
a
uno
specifico
programma
di
attività
letteraria
e a
una
valutazione
complessa,
ma
sufficientemente
chiara,
dei
problemi
storico-politici
dell’impero.
Nel
Bellum
civile
non
è
presente
alcuna
esaltazione
dell’impero,
in
quanto
esso
non
è
espressione
della
libertà
ritrovata,
ma
frutto
della
violenza
di
chi
esercita
il
potere.
La
nascita
dell’impero
ha
comportato
la
fine
della
res
publica
e
della
libertà
degli
individui,
quindi
la
morte
della
patria.
Sul
filo
di
questa
direttrice,
la
morte
di
Pompeo
rappresenta
simbolicamente
il
trionfo
delle
forze
del
male,
della
violenza,
del
chaos
e
dell’ingiustizia.
Basti
pensare
a
espressioni
come
Hac
Fortuna
fide
Magni
tam
prospera
fata/
pertulit
(701-
702),
O
summi
fata
pudoris!
(678)
o,
ancora,
hac
illum
summo
de
culmine
rerum/
morte
petit
(702
-
703).
Dal
mondo
di
Lucano
è
escluso
ogni
genere
di
intervento
divino,
poiché
l’apoteosi
di
Roma
non
rientra
in
un
progetto
provvidenziale.
Pompeo
ha
rischiato
molte
volte,
ma
la
sorte
lo
ha
sempre
assistito.
Ora
non
più.
La
sua
virtus
è
stata
vinta
dai
vitia
di
Cesare.
La
sacralità
della
figura
di
Pompeo
trova
terreno
fertile
in
Plutarco.
Il
biografo
di
Cheronea
dedica
al
Magnus
un’ampia
biografia,
che
consta
di
ottanta
capitoli.
Pochi
sono
gli
aneddoti
relativi
ai
primi
anni
di
vita;
la
parte
iniziale
della
Vita
è
dedicata,
piuttosto,
alle
prime
significative
conquiste
in
Oriente.
Già
in
questa
sezione
Plutarco
tende
a
mettere
in
luce
alcuni
aspetti
fondamentali
dell’ethos
di
Pompeo.
Il
ritratto
che
del
Magnus
ne
risulta
insiste
su
alcuni
tratti
fondamentali
che
si
possono
riassumere
in
una
idealizzazione
della
simplicitas
del
modus
vivendi,
dell’abilità
militare,
dell’eloquenza,
della
lealtà,
dell’affabilità
nei
rapporti
umani,
della
capacità
di
donare
senza
alterigia
e di
ricevere
con
dignità.
Di
particolare
importanza
è
poi
l’imitazione
di
Alessandro
Magno.
Scrive,
a
tal
proposito,
Plutarco:
«La
sua
grazia
era,
infatti,
piena
di
dignità
e
benevolenza
e in
lui,
per
quanto
nel
fiore
della
giovinezza,
già
si
intravedeva
un
carattere
imperioso
e
regale.
I
capelli,
rivolti
leggermente
all’indietro,
e la
vivacità
degli
occhi,
sempre
in
movimento,
conferivano
al
suo
sguardo
una
somiglianza,
più
supposta
che
reale,
con
i
ritratti
del
re
Alessandro.
Perciò
molti,
al
principio,
si
riferivano
a
lui
con
questo
nome
che
Pompeo
non
rifiutava,
tanto
che
alcuni
ormai
lo
chiamavano
Alessandro
per
farsene
beffa»
(Pomp.
II).
Non
che
Plutarco
ignori
i
lati
negativi
del
carattere
di
Pompeo.
Ma
questi
certo
non
sono
per
lui
elementi
tali
da
dissolvere
il
quadro
del
personaggio
da
lui
delineato.
I
vitia,
infatti,
emergono
successivamente,
in
parallelo
al
sopraggiungere
dei
primi
significativi
successi.
Desiderio
di
gloria,
philotimía,
brama
di
potere,
philarchía,
e un
generale
atteggiamento
di
tracotanza,
hybris,
sono
da
porre
alle
origini
della
caduta
di
Pompeo.
In
particolare,
l’ormai
incontenibile
ambizione
induce
Pompeo
a
sottovalutare
le
forze
di
Cesare.
In
tal
senso,
la
sconfitta
di
Farsalo
non
è
che
la
prova
tangibile
del
suo
progressivo
declino
morale.
Nell’immagine
di
Plutarco,
sarebbe
stato
preferibile
per
il
Magnus
morire
nel
61
dopo
la
celebrazione
del
terzo
trionfo,
al
culmine
della
potenza.
La
vita
di
Pompeo
segue,
infatti,
uno
schema
tragico:
dapprima
sostenuto
e
assecondato
dalla
fortuna,
poi
diviene
vittima
di
quel
dio,
daimon,
«che
ha
sempre
cura
di
mescolare
una
parte
di
infelicità
ai
grandi
e
splendidi
doni
della
fortuna».
La
parabola
di
Pompeo
diviene
paradeigma
dell’esperienza
umana
di
chi,
dalla
gloria
dei
trionfi,
si
vede
calato
in
un
baratro
di
invidie
e
mali
fino
alla
fuga
e
alla
morte.
Notevole,
anche
in
questo
passo
di
Plutarco,
il
tono
patetico
e
partecipativo.
Osserviamolo
puntualmente.
«Scese
nella
barca.
La
distanza
fra
la
trireme
e la
terraferma
era
abbastanza
grande;
poiché
nessuno
di
quelli
che
erano
con
lui
gli
rivolgeva
una
parola
gentile,
guardando
Settimio
disse:
"Mi
sbaglio
o tu
sei
stato
un
mio
compagno
d’armi?".
Quello
rispose
con
un
solo
cenno
del
capo,
senza
aggiungere
una
parola
o
avere
una
manifestazione
d’affetto.
Si
fece
di
nuovo
silenzio
assoluto
[…].
In
quel
momento,
mentre
Pompeo
prendeva
la
mano
di
Filippo
per
alzarsi
più
facilmente,
Settimio,
di
spalle,
lo
trapassò
per
primo
con
la
spada
e,
dopo
di
lui,
prima
Salvio
e
poi
Achilla
sguainarono
le
loro.
Pompeo,
tirandosi
la
toga
sul
volto
con
entrambe
le
mani,
senza
dire
o
fare
nulla
di
indegno
di
sé
ma
levando
soltanto
un
gemito,
sopportò
i
colpi
con
fermezza.
Aveva
vissuto
cinquantanove
anni:
morì
il
giorno
successivo
a
quello
del
suo
compleanno»
(Pomp.
LXXIX).
Plutarco
scrive,
infine,
che
gli
assassini
tagliarono
la
testa
di
Pompeo
e
gettarono
il
corpo
nudo
fuori
dalla
barca,
abbandonandolo
agli
sguardi
di
coloro
che
traevano
piacere
da
questo
genere
di
spettacoli.
Filippo
rimase
accanto
a
lui
fino
a
che
gli
Egiziani
non
furono
soddisfatti,
poi,
lavato
il
corpo
nel
mare,
lo
avvolse
in
una
tunica.
In
seguito,
il
capo
mozzato
di
Pompeo
venne
offerto
in
dono
a
Cesare.
Alla
vista
del
capo
mozzato,
Cesare
si
ritrasse
con
orrore
e
«scoppiò
in
lacrime
nel
ricevere
il
suo
sigillo
su
cui
era
impresso
un
leone
armato
di
spada».
Fece
poi
uccidere
Achilla
e
Potino.
In
un
primo
momento,
Tolemeo
riuscì
a
fuggire,
sottraendosi
alla
giustizia
di
Cesare.
Infine,
però,
Marco
Bruto
lo
raggiunse
in
Asia
e lo
fece
uccidere,
dopo
averlo
oltraggiato.
Le
ceneri
di
Pompeo
vennero
quindi
consegnate
a
Cornelia,
che
le
custodì
nella
sua
proprietà
di
Alba.
Nel
complesso,
Plutarco
fornisce
un’immagine
positiva
di
Pompeo.
Infatti,
se
in
un
primo
momento
il
Magnus
è
molto
vicino
a
Cesare,
in
quanto
animato
dal
medesimo
desiderio
di
gloria
e di
potere,
in
seguito
la
causa
di
Pompeo
viene
sempre
più
a
identificarsi
con
quella
della
collettività.
Pompeo
avrebbe
potuto
sottomettere
tutto
il
mondo,
ma
non
lo
fece.
In
svariate
circostanze
avrebbe
potuto
abbattere
la
res
publica,
ma
non
lo
fece.
E,
forse,
proprio
per
queste
ragioni
i
Romani
lo
colmarono
di
lodi
e
onori,
sostenendolo
e
rivolgendosi
sempre
a
lui
per
difendere
la
libertas.
Nel
ripercorrere
gli
ultimi
istanti
di
vita
di
Pompeo,
i
tre
testimoni
presi
in
esame,
sia
pur
secondo
prospettive
molteplici,
rendono
omaggio
alla
personalità
dell’uomo
che
per
molte
pagine
ci
hanno
descritto
con
tinte
differenti.
Il
che
ripropone
l’ambiguità
e,
ad
un
tempo,
la
magnitudo
di
Pompeo.
A
questo
punto,
potremmo
concludere
con
le
parole
che
Cicerone
riferisce
al
generale
vittorioso
in
Oriente:
«Non
posso
non
piangere
la
sua
sorte:
io
conobbi
infatti
in
lui
un
uomo
onesto,
integro
e
serio».