N. 98 - Febbraio 2016
(CXXIX)
MORTE
DI
CICERONE
IL
RACCONTO
DI PLUTARCO
-
PARTE II
di
Paola
Scollo
Proseguendo
nel
suo
racconto,
Plutarco
narra
che
Cicerone
fu
informato
delle
proscrizioni
a
Tusculo,
dove
era
fuggito
insieme
al
fratello
Quinto,
quando
Pedio
aveva
ricevuto
dai
triumviri
l’incarico
di
uccidere
17
individui.
I
due
fratelli
decisero
di
trasferirsi
ad
Astura,
dove
Cicerone
aveva
un
possedimento
sulla
riva
del
mare.
Da
lì
avrebbero
navigato
verso
la
Macedonia
per
raggiungere
Bruto.
«Sfiniti
per
la
trepidazione
erano
portati
in
lettiga
e,
di
tanto
in
tanto,
lungo
la
strada,
si
fermavano
e,
collocate
le
lettighe
fianco
a
fianco,
si
scambiavano
le
loro
tristi
impressioni».
Così
si
apre
la
descrizione
della
fuga
di
Cicerone
e
Quinto
nella
Vita
di
Cicerone
di
Plutarco.
Ed è
impossibile
non
scorgere
dietro
queste
parole
un’insistenza
sulla
penosa
condizione
dei
fuggitivi.
È
come
se
Plutarco
voglia
suscitare
sentimenti
di
commossa
e
intensa
partecipazione
al
dramma
interiore
di
chi
tenta
di
sottrarsi
al
destino
avverso.
Una
volta
raggiunta
Astura,
i
due
fratelli
scelsero
di
dividersi:
Cicerone
sarebbe
fuggito
per
primo,
mentre
Quinto
sarebbe
tornato
a
casa
per
recuperare
tutto
il
necessario
per
il
viaggio.
Ma a
Roma
Quinto
trovò
la
morte
insieme
al
figlio,
per
il
tradimento
di
un
suo
liberto.
Interessante
è a
tal
proposito
il
racconto
di
Appiano
(IV
20.83):
«Quinto,
fratello
dell’oratore,
arrestato
con
il
figlio,
chiese
ai
sicari
di
ucciderlo
prima
del
ragazzo,
il
quale
a
sua
volta
formulava
la
stessa
richiesta.
I
soldati
dissero
ad
entrambi
che
avrebbero
risolto
il
loro
problema
e,
divisisi
in
due
gruppi,
li
uccisero
contemporaneamente
ad
un
solo
segnale».
Nel
frattempo,
approfittando
dei
venti
favorevoli,
Cicerone
navigò
lungo
la
costa
del
Circeo.
Nonostante
le
esortazioni
dei
marinai,
l’oratore,
sia
per
timore
del
mare
sia
perché
non
aveva
ancora
perduto
la
speranza
nella
fedeltà
di
Ottaviano,
preferì
sbarcare
e
percorrere
a
piedi
un
centinaio
di
stadi
in
direzione
di
Roma.
Durante
il
tragitto
era
tormentato
da
dubbi:
come
se
un
legame
sottile
e
profondo
lo
tenesse
unito
all’Italia,
impedendogli
di
partire.
Alla
fine,
scelse
di
fare
ritorno
ad
Astura,
dove
trascorse
la
notte.
Si
trattava
di
una
decisione
sofferta,
raggiunta
dopo
molte
esitazioni:
offrire
la
propria
esistenza
in
nome
della
salvezza
della
patria.
Immaginò
di
penetrare
di
nascosto
nella
casa
di
Ottaviano
e di
uccidersi
presso
il
focolare
domestico,
in
modo
da
suscitare
lo
spirito
della
vendetta
contro
il
traditore.
«Dopo
molti
pensieri
turbinosi
e
contraddittori»,
il
mattino
seguente
ordinò
ai
servi
di
condurlo
per
mare
a
Gaeta.
Una
volta
sbarcato,
Cicerone
venne
condotto
in
lettiga
nella
sua
villa
di
Formia.
A
questo
punto,
Plutarco
narra
che
un
corvo,
posatosi
sul
giaciglio
di
Cicerone,
sollevò
col
becco
un
lembo
della
coperta,
scoprendone
il
volto.
Di
fronte
al
manifesto
presagio
di
morte,
i
servi
cominciarono
a
imprecare
contro
la
sorte
del
loro
padrone,
che
non
difendevano,
«mentre
anche
le
bestie
gli
venivano
in
aiuto
e si
prendevano
cura
di
lui»
(XLVII
10).
Intanto,
nei
dintorni
di
Formia
sopraggiunsero
gli
uomini
di
Antonio,
capeggiati
dal
centurione
Erennio
e
dal
tribuno
militare
Popillio.
Si
trattava,
secondo
il
racconto
di
Plutarco,
dello
stesso
Popillio
che
Cicerone
aveva
difeso
con
successo
in
un
processo
per
parricidio
(XLVIII
2).
In
breve
tempo
gli
schiavi
condussero
Cicerone
su
una
lettiga
lungo
sentieri
solitari,
attraverso
la
boscaglia,
in
direzione
del
mare.
I
soldati
fecero
irruzione
nella
proprietà
di
Cicerone,
senza
trovarlo.
Allora,
un
«giovinetto,
liberalmente
allevato
ed
educato
da
Cicerone,
liberto
del
fratello
di
lui
Quinto,
di
nome
Filologo»
indicò
al
tribuno
la
strada
da
percorrere.
Cicerone
ordinò
ai
servi
di
fermare
la
lettiga.
E
«secondo
il
suo
solito,
toccandosi
con
la
sinistra
la
guancia,
stava
con
gli
occhi
fissi
sui
sicari,
con
i
capelli
scomposti,
con
lo
sguardo
disfatto
dai
pensieri,
con
una
espressione
tale
che
i
più
si
coprirono
gli
occhi
mentre
Erennio
lo
colpiva».
E il
corpo
mortale
fu
inferto
nel
collo
proteso
fuori
dalla
lettiga.
Le
parole
di
Plutarco
squarciano,
ad
un
tratto,
le
ombre
che
avvolgevano
la
personalità
di
Cicerone.
Emerge
l’immagine
di
un
uomo
che
va
incontro
al
suo
destino,
pur
mostrando
evidenti
fragilità
e
debolezze.
E il
destino
di
Cicerone
assume
le
sembianze
di
Erennio,
secondo
la
narrazione
di
Plutarco.
A
dire
il
vero,
di
questo
personaggio
le
altre
fonti
non
parlano.
Secondo
Livio
(per.
CXX),
Cicerone
venne
ucciso
da
Popillio,
originario
del
Piceno,
liberto
o
figlio
di
un
liberto.
Questa
testimonianza
trova
conferma
anche
in
Seneca
(Controv.
VII
2.8):
Popillium
interfectorem
Ciceronis.
Secondo
Valerio
Massimo
(V
3.
4),
Popilio
Lenate
della
regione
picena
chiese
di
sua
iniziativa
ad
Antonio
che
Cicerone
venisse
bandito
e
ucciso,
ottenendo
peraltro
questo
detestabile
incarico.
Esultante
per
la
gioia
del
compito
ricevuto,
Popilio
corse
a
Gaeta
e,
dopo
aver
imposto
a
Cicerone
di
protendere
il
collo,
recise
il
capo
dell’eloquenza
romana
(caput
Romanae
eloquentiae)
e
quella
mano
destra
davvero
illustre,
che
aveva
assicurato
lunga
e
tranquilla
pace
(pacis
clarissimam
dexteram
per
summum
et
securum
otium)».
Secondo
Appiano
(IV
20.77
-
80),
«Lenate,
che
una
volta,
in
un
processo,
se
l’era
cavata
proprio
per
l’intervento
di
Cicerone,
tirò
la
testa
fuori
della
lettiga
e la
staccò
con
tre
colpi,
maciullando
le
ossa
per
imperizia.
In
seguito,
tagliò
anche
la
mano
con
la
quale
l’oratore
aveva
intitolato
Filippiche,
come
i
discorsi
di
Demostene,
i
suoi
discorsi
contro
Antonio
presentato
come
tiranno».
Un
colpo
di
spada
recise
dunque
il
capo
del
Padre
della
Patria,
del
simbolo
della
romanità
stessa.
Un
colpo
di
spada
inferto
proprio
da
chi
Cicerone
un
tempo
aveva
difeso
con
successo
dalle
accuse
di
parricidio.
L’uccisione
avvenne
il 7
dicembre
secondo
la
testimonianza
di
Tirone
contenuta
nel
Dialogus
de
oratoribus
di
Tacito
(XVII
2).
Secondo
Plutarco,
Cicerone
aveva
64
anni
(XLVIII
6);
secondo
Livio
(in
Sen.,
Suas.
VI
22 -
23),
ne
aveva
63.
Plutarco
riferisce
poi
che,
su
ordine
di
Antonio,
vennero
tagliate
«la
testa
e le
mani
con
cui
aveva
scritto
le
Filippiche»
(XLIX
6).
Livio
(per.
CXX)
narra
che
la
testa
di
Cicerone
venne
esposta
sui
rostri
insieme
alla
mano
destra.
Cassio
Dione
(XLVII
8.4)
fa
riferimento
alla
testa
e
alla
mano
destra.
Appiano
(IV
20.77)
dice
che
venne
tagliata
soltanto
la
mano
destra.
Inoltre,
in
Plutarco
non
c’è
alcun
riferimento
al
compenso
dell’uccisore.
Appiano,
invece,
narra
che
Antonio
premiò
il
centurione
con
una
corona
e
con
un
donativo
di
250.000
dramme
attiche
(IV
20.79):
«Antonio
ne
provò
una
soddisfazione
grandissima,
premiò
il
centurione
con
una
corona
e
gli
attribuì,
oltre
la
ricompensa
convenuta,
un
donativo
di
duecentocinquanta
mila
dramme
attiche
perché
gli
aveva
ucciso
il
nemico
più
grande
e
pericoloso».
Cassio
Dione
(XLVII
11.2)
spiega
che
all’uccisore
venne
dato
più
di
quanto
era
stato
pattuito.
Il
racconto
di
Plutarco
procede
con
la
notizia
secondo
cui
la
testa
e le
mani
di
Cicerone
vennero
condotte
a
Roma
ad
Antonio,
intento
a
presiedere
un’assemblea
per
l’elezione
di
alcuni
magistrati.
Dopo
aver
avuto
conferma
della
morte
di
Cicerone,
Antonio
annunciò
la
fine
delle
proscrizioni.
In
seguito,
ordinò
di
esporre
testa
e
mani
di
Cicerone
sui
rostri
che
si
trovavano
sulla
tribuna
degli
oratori:
«uno
spettacolo
raccapricciante
per
i
Romani,
i
quali
credettero
di
vedere
in
quei
tratti
non
il
volto
di
Cicerone,
ma
l’immagine
dell’animo
di
Antonio».
Sono
queste
le
considerazioni
di
Plutarco.
Peraltro,
la
stessa
testimonianza
si
trova
anche
in
Seneca
(Suas.
VI
19)
e in
Velleio
Patercolo
(II
66.4).
Secondo
la
narrazione
di
Appiano,
Antonio
pose
la
testa
di
Cicerone
sulla
tavola
fino
a
che
fu
sazio
di
tale
orrenda
vista
(IV
20.77).
Fu
questa,
dunque,
secondo
Plutarco
la
fine
di
Marco
Tullio
Cicerone.
Una
fine
che,
paradossalmente,
ha
contribuito
a
perpetrarne
il
ricordo.
A
ulteriore
conferma
di
ciò,
Plutarco
conclude
la
Vita
di
Cicerone
con
un
racconto
di
carattere
edificante
di
cui
-per
sua
stessa
ammissione-
è
venuto
a
conoscenza.
Ottaviano,
ormai
anziano,
recatosi
a
far
visita
a un
nipote,
lo
trovò
con
un
libro
di
Cicerone
in
mano.
Subito,
il
ragazzo,
tremante
di
paura,
tentò
di
nasconderlo
sotto
la
veste.
Augusto
afferrò
il
libro
e,
stando
in
piedi,
ne
lesse
una
buona
parte.
Poi
lo
restituì
dicendo:
“Era
un
uomo
colto,
ragazzo
mio,
colto
e
amante
della
patria”.
A
distanza
di
anni,
Ottaviano
definì
quindi
Cicerone
loghios
e
philopatris.
Per
Plutarco,
Cicerone
era
vittima
di
Antonio,
non
di
Ottaviano.
A
pochi
anni
dalla
morte,
l’oratore
era
divenuto
il
martire
della
patria,
il
simbolo
della
libertas
e il
suo
ricordo
o,
piuttosto,
l’immagine
dell’anima
(eikon
psyches)
doveva
costituire
il
punto
di
partenza
per
la
damnatio
memoriae
di
Antonio.
In
realtà,
la
condanna
di
Antonio
era
già
stata
avviata
alla
fine
degli
anni
Trenta,
quando
Ottaviano
aveva
chiamato
come
suo
collega
al
consolato
il
figlio
di
Cicerone.
Alla
sua
morte
ad
Alessandria
nel
31
a.C.,
la
statua
di
Antonio
a
Roma
era
già
stata
divelta.
Di
conseguenza,
l’unica
soddisfazione
per
il
giovane
Cicerone
era
quella
di
annunciare
alla
città
la
morte
del
triumviro.