N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
IL MONUMENTO AI TETRARCHI
DA COSTANTINOPOLI ALLA SERENISSIMA
di Federica Campanelli
Da
secoli
incastonata
nell’angolo
Sud
della
basilica
di
San
Marco,
in
prossimità
dell’edificio
di
Palazzo
Ducale,
v’è
una
particolarissima
opera
che
esula
dall’origine
del
complesso
architettonico
in
cui
si
trova:
si
tratta
di
un
gruppo
scultoreo
in
porfido
rosso
(il
lapis
porphyrites
dei
Romani,
assunto
dal
periodo
post
tiberiano
quale
emblema
del
potere
imperiale)
alto
circa
130
centimetri,
datato
tra
il
III
e il
IV
secolo.
L’opera,
entrata
nella
storia
di
Venezia
solo
dal
Medioevo,
affonda
dunque
le
sue
radici
nel
periodo
tardoantico,
all’epoca
in
cui
l’amministrazione
del
vasto
e
articolato
impero
romano
era
ripartita
nelle
mani
di
quattro
coreggenti,
passati
alla
storia
come
Tetrarchi.
Il
governo
di
tipo
tetrarchico
è
stato
introdotto
a
Roma
nel
293,
dopo
una
parentesi
decennale
di
diarchia
durante
la
quale
l’imperatore
Diocleziano
era
affiancato
al
potere
da
un
secondo
Augustus
che
lui
stesso
aveva
designato,
Massimiano;
con
l’ulteriore
suddivisione
territoriale
in
quattro
aree
d’influenza,
per
un
totale
di
dodici
diocesi,
i
due
Augusti
Diocleziano
e
Massimiano,
al
controllo
l’uno
dell’Oriente
e
l’altro
dell’Occidente,
nominarono
due
propri
coadiutori
che
avrebbero
regnato
col
titolo
di
Cesare:
i
prescelti
furono,
rispettivamente,
Galerio
e
Costanzo
Cloro.
Nell’opera
porfiretica
di
San
Marco,
che
si
presenta
come
un
quadruplice
ritratto
a
figura
intera,
sono
tradizionalmente
individuati
proprio
i
coreggenti
della
prima
Tetrarchia
romana
(293-305),
qui
riuniti
in
due
coppie
adiacenti,
ognuna
stretta
in
un
abbraccio.
Accettata,
non
senza
eccezioni,
l’identificazione
delle
quattro
personalità
con
i
primi
Tetrarchi,
non
sembra
vi
sia
lo
stesso
consenso
sull’individuazione
dei
singoli
personaggi:
si
discute,
infatti,
se
le
due
coppie
rappresentino
l’abbraccio
tra
i
due
Augusti
e
quello
tra
i
due
Cesari,
oppure
se
ogni
gruppo
raffiguri
un
Augusto
che
cinge
col
braccio
destro
il
proprio
Cesare.
In
tal
senso,
nella
lettura
dell’opera,
gioca
un
ruolo
principe
proprio
il
singolare
gesto
dell’abbraccio
che,
se
fosse
vera
la
prima
interpretazione,
si
farebbe
simbolo
della
concordia
augustorum
(la
cui
iconografia
è
tuttavia
più
frequentemente
espressa
tramite
una
stretta
di
mano).
Accogliendo
la
seconda
tesi,
forse
la
più
valida,
l’abbraccio
sarebbe
invece
metafora
confortante
del
sistema
di
continuità
dinastica
promosso
da
Diocleziano
per
la
stabilità
dell’impero.
In
assenza
di
dati
certi
sul
riconoscimento
degli
imperatori,
come
spesso
accade
per
effigi
dai
tratti
scarsamente
fisionomici
come
questo,
non
sono
inoltre
mancate
ipotesi
alternative
sull’argomento:
i
soggetti
del
monumento
commemorativo
potrebbero
essere
i
protagonisti
non
della
prima
ma
della
quarta
Tetrarchia
(308-311),
cioè
gli
Augusti
Galerio
e
Licinio,
e i
Cesari
Costantino
e
Massimino
Daja,
quest’ultimi
ritratti
senza
barba.
In
tal
modo
viene
altresì
assimilato
l’anno
308,
l’anno
del
Congresso
di
Carnuntum,
come
terminus
post
quem
per
la
realizzazione
del
gruppo
scultoreo.
Ma
c’è
un
altro
dato
da
considerare,
cioè
è la
pratica
diffusa
del
riuso
di
elementi
scultorei
e
materiali
già
messi
in
opera
con
lo
scopo
di
riadattarli
al
periodo
corrente
e
mutarne
destinazione
d’uso.
Il
confronto
con
il
gruppo
porfiretico
dallo
stesso
soggetto
conservato
presso
il
Museo
Vaticano
è
inevitabile.
Tuttavia,
nel
monumento
veneziano
sono
assenti
alcuni
degli
attributi
tipici
dell’iconografia
imperiale
occidentale,
quali
il
capo
laureato
e il
globo,
simbolo
della
sovranità
sul
mondo
(poi
ripreso,
sormontato
da
una
croce,
durante
il
Sacro
Romano
Impero),
qui
sostituiti
dal
copricapo
pannonico,
in
uso
presso
l’esercito
romano
del
periodo
tardo,
e la
spada
con
elsa
a
testa
d'aquila.
E
sebbene
si
siano
persi
molti
dettagli
decorativi
è
facile
intuire
come
tutto
l’armamentario
dei
rilievi
di
San
Marco
sia,
in
generale,
più
ricco
ed
elaborato
rispetto
all’opera
vaticana.
.
Due
dei
Tetrarchi
conservati
al
Vaticano
Ma
da
dove
provengono
le
sculture?
E
perché
si
trovano
a
Venezia?
Come
accennato,
il
gruppo
è
approdato
a
Venezia
solo
in
epoca
medievale,
e lo
fece
come
bottino
di
guerra,
quando
venne
trafugato
dai
veneziani
nel
violento
assedio
di
Costantinopoli
del
1204,
al
termine
della
quarta
Crociata
(indetta
da
papa
Innocenzo
III
con
bolla
pontificia
nel
1198).
Questa
si
rivelò
una
sorta
di
guerra
civile,
in
cui
cristiani
combattevano
contro
altri
cristiani;
l’obiettivo
della
spedizione
era
mutato
da
Gerusalemme
alla
capitale
d’Oriente
col
solo
scopo
d’insediarvi
un
imperatore
latino.
L’opera
trafugata,
frammentata
complessivamente
in
tre
grandi
blocchi,
non
è
però
che
una
“parte”
di
un
monumento
più
articolato;
si è
infatti
a
lungo
ipotizzato
che
le
due
coppie
di
personaggi
fossero
addossate
al
fusto
di
altrettante
colonne
commemorative,
poste
in
un’area
urbana
di
Costantinopoli
nota
come
Philadelphion,
a
ridosso
della
via
Mese,
la
“via
di
mezzo”,
il
principale
tracciato
viario
della
città.
Il
nome
Philadelphion,
col
significato
di
amore
fraterno,
deriva
dalla
presenza,
come
ci
descrivono
le
fonti,
di
una
scultura
(tra
le
numerose
presenti
a
corredo
della
piazza)
rappresentante
i
tre
figli
di
Costantino,
ereditari
dell’Impero
alla
sua
morte
insieme
al
nipote
di
questi,
Dalmazio.
E se
il
gruppo
dei
Tetrarchi
fosse
effettivamente
del
periodo
dioclezianeo,
vorrebbe
dire
che
siamo
di
fronte
a
uno
dei
numerosi
casi
di
riuso
di
opere
preesistenti
a
scopo
propagandistico.
.
La
via
Mese
di
Costantinopoli
L’ipotesi
è
sostenuta
dal
ritrovamento
nel
1965
del
piede
mancante
di
uno
dei
Tetrarchi,
durante
le
indagini
archeologiche
condotte
da
Rudolf
Naumann
a
Istanbul.
Gli
scavi
sono
stati
compiuti
in
un’area
non
lontana
dal
Philadelphion,
detta
Myrelaion
(luogo
della
mirra),
dove
oggi
è
Bodrum
Camii
(moschea
di
Bodrum)
e
dove
nel
V
secolo
sorgeva
il
palazzo
di
Arcadia,
sorella
di
Teodosio
II.
Il
contributo
di
studi
minero-petrografici
condotti
sull’opera
veneziana
e
sul
frammento
stambuliota
hanno
inoltre
confermato
l’appartenenza
dei
due
porfidi
allo
stesso
litotipo,
indicando
quali
probabili
cave
di
provenienza
quelle
aperte
nel
distretto
egiziano
di
Lycabetthus,
sul
massiccio
del
Gebel
Dokhan,
chiamato
dai
Romani
Mons
Porphyrytes.
Infine
il
punto
di
vista
popolare:
leggenda
narra
che
le
sculture
siano
quattro
mercanti
mori
improvvisatisi
“ladroni”
che,
colti
in
flagrante
nel
tentativo
di
introdursi
nella
sala
del
tesoro
della
basilica,
vennero
fulminati
e
pietrificati
proprio
da
San
Marco.