N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
MONTE SAN
FRANCESCO SOPRA VELATE
LA
CANCELLAZIONE REPENTINA DI UNA STORIA
MILLENARIA
- Parte II
di Andrea Ganugi
Intervista a Paolo Portone su Carlo Borromeo e sulla
Controriforma
Allievo di Rosario Villari saggista ed esperto di
storia del cristianesimo in Lombardia tra il XV e il
XVII, il professor Paolo Portone ha condotto studi
sull’attività dell’Inquisizione lombarda all’epoca della
Controriforma, in particolare nell’ambito dei processi
contro la stregoneria diabolica ed il “pensiero magico”.
Collaboratore della Società Storica Comense, ha
partecipato a numerosi convegni sul ruolo dei domenicani
nell’Inquisizione. In questo ambito ha scoperto negli
Archivi del Vaticano (Archivio Segreto, Archivio della
Congregazione per la Dottrina della Fede ex Sant'Uffizio) alcuni documenti
inediti sulla persecuzione delle streghe nelle antiche
diocesi di Como e di Milano, alcuni dei quali sono
estremamente significativi sul ruolo di spietato e
convinto persecutore del fenomeno svolto
dall’arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo.
Attualmente dirige insieme all'etnologo Guglielmo
Lutzenkirchen il
Centro Studi
Culti Culture Terapie -Alfonso Maria Di Nola.
A
lui abbiamo chiesto un ritratto dell’arcivescovo di
Milano che rende più plausibile l’ipotesi che San
Francesco in Pertica fosse un luogo da eliminare,
secondo i canoni di un’epoca dominata, in Lombardia,
dalle inesorabili convinzioni politico-religiose
affermatesi con il Concilio di Trento, di cui il Santo
di Arona era un convinto propugnatore.
Un
giudizio storico ampiamente condiviso attribuisce alla
Riforma protestante il merito di aver dato voce alle
nuove classi sociali emergenti, tutte proiettate verso
gli affari ed il commercio: un mondo nuovo che doveva
dare un taglio netto alle vecchie tradizioni ed usanze.
Viceversa, la reazione della Chiesa espressasi con il
Concilio di Trento viene associata da molti ad una pura
e semplice conservazione dell’esistente. E’ proprio così
antitetica la visione del mondo propugnata dai due
“ordini” religiosi?
Nel suo accurato e ben documentato studio
sull’Inquisizione , uno storico qualificato come Adriano
Prosperi propende decisamente per il superamento della
distinzione tra Riforma cattolica e Controriforma,
riconoscendo alla Chiesa romana post conciliare una
reale azione riformatrice nella società italiana, che si
sarebbe compiuta con la creazione di nuove istituzioni,
come la Congregazione di Propaganda Fide e la
riorganizzazione dell’antico tribunale di fede.
Quest’ultimo, in particolare, costituirebbe ,secondo lo
storico, uno dei tratti distintivi del carattere
modernizzatore che avrebbe avuto il papato post
tridentino. Per l’autore di Tribunali della coscienza,
il Sant’Uffizio fu senza ombra di dubbio un perno del
cambiamento in seno alla chiesa cattolica, che contribuì
a uniformare, con l’istituzione di una rete capillare di
controllo,le pratiche e le devozioni religiose,
favorendo la modernizzazione delle società così come
fecero altri istituti che negli stati assoluti europei
furono vettori dell’accentramento dei poteri. Ma la
modernità della Suprema, come anche veniva chiamata a
Roma l’Inquisizione, secondo altri studiosi non si
esaurirebbe solamente - come sostiene Prosperi - nel
aver costituito l’unico potere centrale operante nella
penisola italiana; essa si manifesterebbe, altresì, nel
suo modus operandi, precursore dell’odierno processo
giudiziario.
Dunque alla Chiesa cattolica serviva piuttosto una
modernità “concorrenziale” al nuovo ordine protestante.
Se
i metodi e l’organizzazione dell’Inquisizione possono
essere giudicati, entro certi termini, “moderni”,
risulta molto più difficile definire modernizzatrice
,sulla scorta dei risultati conseguiti, l’azione
intrapresa dal tribunale di fede cattolico nella
confessionalizzazione della società italiana attraverso
la rigida applicazione dei decreti tridentini e
l’estirpazione delle “superstizioni” diffuse tra i
fedeli. Sotto questo aspetto l’operato dell’Inquisizione
fu nettamente antimoderno, non soltanto perché contrastò
con tutte le sue forze e la massima violenza le nuove
idee, scientifiche e religiose, ma perché si dimostrò,
diversamente dai tribunali secolari dei paesi
protestanti, “tollerante” nei confronti della
religiosità popolare, della ‘antiqua religio’ o
‘western tradition’, che di fatto non si volle più
sradicare, trasformandola in reato di stregoneria
diabolica, come era accaduto anche da noi, in specie nel
centro nord, a partire dal tardo medioevo (fine XIV
inizi XV secolo), molto in anticipo rispetto ad altri
paesi europei.
Allora luterani e calvinisti furono più “conseguenti”
nel voler sradicare – soprattutto con la violenza della
tortura e dei roghi – quell’insieme di credenze e
superstizioni pagane che erano sopravvissute alla
successiva cristianizzazione?
Sì, la fine della caccia alle streghe nel nostro Paese
appare come uno sviluppo naturale di una tendenza
all’inerzia insita nella Chiesa e nei suoi uomini,
tranne ovviamente qualche eccezione: una di queste è ben
rappresentata dalle personali convinzioni
dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, convinto
della necessità di sradicare dal sentimento religioso
tutte quelle manifestazioni che considerava retaggio
delle antiche pratiche pre-cristiane. Per questo lo si
deve considerare come un continuatore di quegli
orientamenti ecclesiastici nei confronti della
superstizione, riscontrabili soprattutto in alcune
regioni del centro nord , dove si registrarono, in netto
anticipo rispetto alla cronologia della caccia, i primi
significativi episodi di persecuzione conto le streghe.
Dunque l’arcivescovo di Milano avrebbe agito in
controtendenza rispetto al Sant’Uffizio romano?
Carlo Borromeo in Lombardia era l’erede di questa
tradizione che aveva cominciato a mietere vittime a
partire addirittura dalla metà del XIV secolo, nella
diocesi di Como, come ricorda Bernardo Rategno, gli
inquisitori erano attivi già dal 1350, e che aveva
compiuto passi da gigante nella trasformazione dell’
‘antiqua religio’ in autentica diavoleria.
La caccia sembrerebbe non essere più , a cavallo tra la
fine del Cinquecento e il Seicento, praticabile nel
contesto italiano le condanne a morte per stregoneria
diabolica diminuirono drasticamente, fino a scomparire
del tutto.
Se si tiene presente il motivo della sua
trasformazione, non risulterà affatto incomprensibile
come uno dei più inflessibili persecutori di eretici nel
Mezzogiorno, il cardinale Scipio Rebiba, abbia
dimostrato in più di un’occasione estrema prudenza e al
limite “tolleranza” nei riguardi di imputate di
stregoneria diabolica. Lo “scetticismo” del ‘praesidens’
della Congregazione del Sant’Uffizio non era affatto
isolato e costituiva, già negli anni ’60 del XVI secolo,
un atteggiamento diffuso in seno alla “Suprema”.
Il
caso da lei documentato, che riguarda l’epistolario tra
Carlo Borromeo e la Santa Sede sul processo di
stregoneria del 1569 a Lecco, sembra a questo proposito
quasi emblematico …
In
questo caso il praesidens interviene con determinazione
in un caso molto delicato. Stavolta, tuttavia, non si
trattava di un inquisitore di provincia, assetato di
carriera e di denari, ad essere richiamato, ma niente di
meno che del genio della riforma cattolica, il cardinale
arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. In nome di una
rigorosa applicazione dei decreti tridentini e della
conseguente lotta ingaggiata per sradicare con ogni
mezzo le superstizioni dal popolo, il potente nipote di
Pio IV aveva portato davanti al suo tribunale cinque
donne di Lecco con la imputazione di stregoneria
diabolica. Sottratte alla giurisdizione
dell’Inquisitore di Santa Maria delle Grazie, giudicato
dal Cardinale probabilmente non all’altezza, le cinque
imputate sembravano destinate alla pena capitale quando
, anche per la pressione esercitata da influenti
esponenti del Senato milanese, si ebbe l’intervento
della Congregazione del Sant’Uffizio, nella persona di
Rebiba.
Anche stavolta, nonostante l’autorevolezza del
personaggio, il cardinale Rebiba fu inflessibile e da
Roma chiese al Borromeo in maniera deferente, come si
conveniva al prestigio dell’arcivescovo, ma
determinata, la ricerca del corpus delicti, in assenza
del quale non si sarebbe in alcun modo potuto procedere
contro le imputate. Nello sviluppo della vicenda e nelle
divergenze che insorsero tra Rebiba e Borromeo, alcuni
studiosi , e tra questi Prosperi, hanno individuato una
svolta decisiva nell’atteggiamento del Sant’Uffizio in
materia di stregoneria diabolica. Da allora in avanti,
la ricerca del corpus delicti, cioè la verifica di
accuse quali il recarsi ‘in corpore’ al sabba,
l’adorazione del demonio, gli omicidi rituali e la
sottoscrizione di un patto, da cui sarebbero discesi
secondo la più classica interpretazione demonologica i
poteri attribuiti alle streghe, divenne, in Italia, la
principale preoccupazione del Sant’Uffizio nei casi di
stregoneria diabolica.
Il
pugno di ferro del Santo Arcivescovo
Negli stessi anni del “delitto di Velate”, di cui è
chiamato ad occuparsi dal Provinciale dei francescani
di Milano e dal suo vicario foraneo a Varese, Carlo
Borromeo è coinvolto in prima persona in altri episodi
dove può mettere in pratica la sua ferma convinzione
che, per portare ordine nella Chiesa riformata dopo il
concilio di Trento, occorra usare il pugno di ferro
contro ogni eresia e disordine religioso.
Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini, due
ricercatori storici dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano, hanno documentato in un loro libro
(Processo per stregoneria a Caterina de Medici, Rusconi)
questo “eccesso di zelo”.
Nel 1568 egli richiede espressamente a Gio. Antonio
Melli la cattura a Dumenza (vicariato di Luino) di una
certa “Domenica di Scappi, stria, ditta la Gioggia,
denontiata al officio della sanctissima Inquisitione per
stria notoria”. La donna viene dunque catturata
consegnata al podestà di Luino, prima di essere passata
“al’ofitio di vostra illustrissima at reverendissima
Signoria et, servato quello si doveva servar, fu per la
congregatione della santa Inquisitione condenata come
stria et datta al brazo secularo” per essere arsa.
In
un altro caso del 1569, quando protesta direttemente con
il Vaticano per l’ingerenza del Senato milanese nel caso
di un processo ad “alchune femine” di Lecco accusate di
stregoneria, non ci sono dubbi sulle sue opinioni in
materia. Il giudizio sulle streghe è competenza della
Chiesa e, se ci sono prove, la sentenza non può che
essere il rogo: “Conviene farne esemplare dimostratione,
essendo questa peste sparsa per quelle montagne et
invechiata in mala maniera”.
Nessun dubbio anche sulla pratica della tortura, che era
parte integrante del processo inquisitorio. Ne è prova
il medesimo caso delle streghe di Lecco e chiunque
volesse capire il senso esplicito delle convinzioni in
merito di Carlo Borromeo può consultare liberamente su
Internet l’archivio “on line” della Biblioteca
Ambrosiana: qui, in una lettera datata 12 settembre
1569, il Cardinale dimostra di conoscere
dettagliatamente le orribili “tecniche” con cui le
disgraziate vittime dell’Inquisizione venivano
normalmente fatte confessare. La più comune, restava la
tortura della corda.
Era una delle torture più semplici, e quindi più
praticate. Da una trave pendeva una corda. La vittima
veniva lasciata cadere coi polsi legati dietro la
schiena, da una certa altezza, producendole slogature
alle braccia e alle spalle.
Così la descrive in questa lettera Carlo Borromeo,
confutando le accuse a lui rivolte che la presunta
strega aveva confessato solo “per paura dei tormenti, et
che era stata condotta al luoco della corda et
cominciata a spogliare”. Dice il Santo che non c’era
stato bisogno, perché “negando tal cosa i miei offitiali,
cioè Vicario, Fiscale, et Notari, si trovarono due
sbirri, quali dicono che furono chiamati dal Cavaliere
di quel tempo, che hora non vi è più, et che cominciorno
a discacciarla dinanti per darle la corda, et che lei
subito disse, che la lasciassero stare che voleva
confessare, et che la lasciorno”.
Questi documenti sono sufficienti a riconsiderare la
“santità” di Carlo Borromeo, come molti analisti storici
(tutti rigorosamente laici, peraltro) suggeriscono?
Monsignor Angelo Paredi, prefetto della Biblioteca
Ambrosiana dal 1970 al 1980, ebbe sicuramente modo di
approfondire il monumentale carteggio Borromeo e i
tratti biografici che disegna del Santo arcivescovo non
scivolano nella facile agiografia: “Il Borromeo, per la
sua educazione legalistica, aveva una concezione quasi
medievale dei rapporti tra stato e chiesa. Ebbe quindi
urti continui con i governatori spagnoli. Nel 1573
scomunicò il Requesens, che aveva pubblicamente
trasgredito le disposizioni arcivescovili sui balli nei
giorni festivi. (…)Il governatore Ayamonte sollecitava
apertamente che il Borromeo venisse promosso, cioè
allontanato da Milano. Voci diffuse insinuavano che
anche le istanze supreme di Madrid suggerivano a Roma di
provvedere in quel senso e che papa Gregorio XIII non
era affatto convinto che il cardinale di Milano avesse
del tutto ragione nelle sue esigenze. Anche il consiglio
dei decurioni di Milano deliberò di mandare a Roma
alcuni patrizi milanesi con credenziali per il papa e
per alcuni cardinali, a chiedere che non si permettesse
‘che il popolo di Milano senza suo demerito sia trattato
con leggi più aspre degli altri cristiani’.“
E
così scrive ancora il prefetto dell’Ambrosiana: ”Intanto
la delegazione delle autorità milanesi esponeva in varie
sedi romane le lamentele e invocava rimedi alle
"perturbazioni" causate dai provvedimenti del santo
arcivescovo. In queste requisitorie presentate in quell'occasione
dai rappresentanti dei decurioni milanesi i rilievi
sull'eccessivo rigore dei tribunali arcivescovili di
Milano la dicono lunga: ‘Si procede con tormenti (cioè
torture) exquisiti, dalli quali molti ne sono stati
storpiati e talvolta ancora morti’. Si capisce che, come
il cardinale Morone nel Cinquecento, così anche oggi
storici cattolici, come Hubert Jedin, non risparmiano a
san Carlo l'accusa di eccessivo rigorismo”.
Tuttavia pensare che la Chiesa riveda il suo giudizio su
Carlo Borromeo sembra impensabile, anche se Giovanni
Paolo II nella famosa“Giornata del perdono” della prima
domenica di Quaresima, tenutasi solennemente nella
Basilica Vatica il 12 marzo 2000, aveva detto che “la
confessione dei peccati storici dei cristiani non
intende tuttavia operare solo una purificazione della
memoria: vuole essere anche un'occasione perché cambi la
mentalità, la prospettiva di certi atteggiamenti
ecclesiali, e perché emerga un insegnamento per il
futuro, nella consapevolezza che i peccati del passato
permangono come tentazione nell'oggi.”
Ma
a questa revisione storica mancano spesso gli strumenti
essenziali della documentazione, ed è per questo che la
pubblicazione on line della Biblioteca Ambrosiana è
assolutamente meritoria.
Ripara quantomeno un precedente di segno opposto che
pregiudicò non poco il cammino di una rivisitazione
storica di quegli eventi: è il 1788 quando, nel
cortile del convento di S. Maria delle Grazie, vengono
bruciate tra il 3 giugno e il mese di agosto tutte le
carte dell'Inquisizione milanese.
Era una mole enorme di atti, che riguardavano processi
avvenuti dal 1314 al 1764: sarà stato solo un caso, ma
questo “rogo della memoria” avveniva nella Diocesi
ambrosiana solo un anno prima (o poco più) di quel 14
luglio che sconvolgerà il mondo e rimetterà in
discussione leggi e dogmi che fino ad allora erano
sembrati eterni. |