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MODERNA


N. 2 - Febbraio 2008 (XXXIII)

MONTE SAN FRANCESCO SOPRA VELATE

LA CANCELLAZIONE REPENTINA DI UNA STORIA MILLENARIA - Parte I

di Andrea Ganugi

 

Intervista a Paolo Portone su Carlo Borromeo e sulla Controriforma

 

Allievo di Rosario Villari  saggista ed esperto di storia del cristianesimo in Lombardia tra il XV e il XVII, il professor Paolo Portone ha condotto studi sull’attività dell’Inquisizione lombarda all’epoca della Controriforma, in particolare nell’ambito dei processi contro la stregoneria diabolica ed il “pensiero magico”. Collaboratore della Società Storica Comense, ha partecipato a numerosi convegni sul ruolo dei domenicani nell’Inquisizione. In questo ambito ha scoperto negli Archivi del Vaticano (Archivio Segreto, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede ex Sant'Uffizio) alcuni  documenti inediti sulla persecuzione delle streghe nelle antiche diocesi di Como e di Milano, alcuni dei quali sono estremamente significativi sul ruolo di spietato e convinto persecutore del fenomeno svolto dall’arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo. Attualmente dirige insieme all'etnologo Guglielmo Lutzenkirchen il Centro Studi Culti Culture Terapie -Alfonso Maria Di Nola.

 

A lui abbiamo chiesto un ritratto dell’arcivescovo di Milano che rende più plausibile l’ipotesi che San Francesco in Pertica fosse un luogo da eliminare, secondo i canoni di un’epoca dominata, in Lombardia, dalle inesorabili convinzioni politico-religiose affermatesi con il Concilio di Trento, di cui il Santo di Arona era un convinto propugnatore.

 

Un giudizio storico ampiamente condiviso attribuisce alla  Riforma protestante il merito di aver dato voce alle nuove classi sociali emergenti, tutte proiettate verso gli affari ed il commercio: un mondo nuovo che doveva dare un taglio netto alle vecchie tradizioni ed usanze. Viceversa, la reazione della Chiesa espressasi con il Concilio di Trento viene associata da molti ad una pura e semplice conservazione dell’esistente. E’ proprio così antitetica la visione del mondo propugnata dai due “ordini” religiosi?

 

Nel suo accurato e ben documentato studio sull’Inquisizione , uno storico qualificato come Adriano Prosperi propende decisamente per il superamento della distinzione tra Riforma cattolica e Controriforma, riconoscendo alla Chiesa romana post conciliare una reale azione riformatrice nella società italiana, che si sarebbe compiuta con la creazione di nuove istituzioni, come la Congregazione di Propaganda Fide e la riorganizzazione dell’antico tribunale di fede.

 

Quest’ultimo, in particolare, costituirebbe ,secondo lo storico, uno dei tratti distintivi del carattere modernizzatore che avrebbe avuto il papato post tridentino. Per l’autore di Tribunali della coscienza, il Sant’Uffizio fu senza ombra di dubbio un perno del  cambiamento in seno alla chiesa cattolica, che contribuì a uniformare, con l’istituzione di una rete capillare di controllo,le  pratiche e le devozioni religiose, favorendo la modernizzazione delle società  così come fecero altri istituti che negli stati assoluti europei furono vettori dell’accentramento dei poteri. Ma la modernità della Suprema, come anche veniva chiamata a Roma l’Inquisizione, secondo altri studiosi non si esaurirebbe solamente - come sostiene Prosperi - nel aver costituito l’unico potere centrale operante nella penisola italiana; essa si manifesterebbe, altresì, nel suo modus operandi, precursore dell’odierno processo giudiziario.

 

Dunque alla Chiesa cattolica serviva piuttosto una modernità “concorrenziale” al nuovo ordine protestante.

 

 Se i metodi e l’organizzazione dell’Inquisizione possono essere giudicati, entro certi termini, “moderni”, risulta  molto più difficile  definire modernizzatrice ,sulla scorta dei risultati conseguiti, l’azione intrapresa dal tribunale di fede cattolico nella confessionalizzazione della società italiana attraverso la rigida applicazione dei decreti tridentini e l’estirpazione delle “superstizioni” diffuse tra i fedeli. Sotto questo aspetto l’operato dell’Inquisizione fu nettamente antimoderno, non soltanto perché contrastò con tutte le sue forze e la massima violenza le nuove idee, scientifiche e religiose, ma perché si dimostrò, diversamente dai tribunali secolari dei paesi protestanti, “tollerante” nei confronti della  religiosità popolare, della  ‘antiqua religio’ o ‘western tradition’,  che di fatto non si volle più sradicare, trasformandola in reato di stregoneria diabolica, come era accaduto anche da noi, in specie nel centro nord, a partire dal tardo medioevo (fine XIV inizi XV secolo), molto in anticipo rispetto ad altri paesi europei.

 

Allora luterani e calvinisti furono più “conseguenti” nel voler sradicare – soprattutto con la violenza della tortura e dei roghi – quell’insieme di credenze e superstizioni pagane che erano sopravvissute alla successiva cristianizzazione?

 

Sì, la fine della caccia alle streghe nel nostro Paese appare come uno sviluppo naturale di una tendenza all’inerzia insita nella Chiesa e nei suoi uomini, tranne ovviamente qualche eccezione: una di queste è ben rappresentata dalle personali convinzioni dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo,  convinto della necessità di sradicare dal sentimento religioso tutte quelle manifestazioni che considerava retaggio delle antiche pratiche pre-cristiane. Per questo lo si deve considerare come un continuatore di quegli orientamenti ecclesiastici nei confronti della superstizione, riscontrabili soprattutto in alcune regioni del centro nord , dove si registrarono, in netto anticipo rispetto alla cronologia della caccia, i primi significativi episodi di persecuzione conto le streghe. Dunque l’arcivescovo di Milano avrebbe agito in controtendenza rispetto al Sant’Uffizio romano?

 

Carlo Borromeo in Lombardia era l’erede di questa tradizione che aveva cominciato a mietere vittime a partire addirittura dalla metà del XIV secolo, nella diocesi di Como, come ricorda Bernardo Rategno, gli inquisitori erano attivi già dal 1350, e che aveva compiuto passi da gigante nella trasformazione dell’ ‘antiqua religio’ in autentica diavoleria.

 

 La caccia sembrerebbe non essere più , a cavallo tra la fine del Cinquecento e il Seicento, praticabile nel contesto italiano le condanne a morte per stregoneria diabolica diminuirono drasticamente, fino a scomparire del tutto.

 

 Se si tiene presente il motivo della sua trasformazione, non risulterà affatto incomprensibile come uno dei più inflessibili persecutori di eretici nel Mezzogiorno, il cardinale Scipio Rebiba, abbia dimostrato in più di un’occasione estrema prudenza e al limite “tolleranza” nei riguardi di imputate di stregoneria diabolica. Lo “scetticismo” del ‘praesidens’ della Congregazione del Sant’Uffizio non era affatto isolato e costituiva, già negli anni ’60 del XVI secolo, un atteggiamento diffuso  in seno alla “Suprema”.

 

Il caso da lei documentato, che riguarda l’epistolario tra Carlo Borromeo e la Santa Sede sul processo di stregoneria del 1569 a Lecco, sembra a questo proposito quasi emblematico …

 

In questo caso il praesidens  interviene con determinazione in un caso molto delicato. Stavolta, tuttavia, non si trattava di un inquisitore di provincia, assetato di carriera e di denari, ad essere richiamato, ma niente di meno che del genio della riforma cattolica, il cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. In nome di una rigorosa applicazione dei decreti tridentini e della conseguente lotta ingaggiata per sradicare con ogni mezzo le superstizioni dal popolo, il potente nipote di Pio IV aveva portato davanti al suo tribunale cinque donne di Lecco con la imputazione di stregoneria diabolica.  Sottratte alla giurisdizione dell’Inquisitore di Santa Maria delle Grazie, giudicato dal Cardinale probabilmente non all’altezza, le cinque imputate sembravano destinate alla pena capitale quando , anche per la pressione esercitata da influenti esponenti del Senato milanese, si ebbe l’intervento della Congregazione del Sant’Uffizio, nella persona di Rebiba.

 

Anche stavolta, nonostante l’autorevolezza del personaggio, il cardinale Rebiba fu inflessibile e da Roma chiese al Borromeo in maniera deferente, come si conveniva al prestigio dell’arcivescovo, ma  determinata, la ricerca del corpus delicti, in assenza del quale non si sarebbe in alcun modo potuto procedere contro le imputate. Nello sviluppo della vicenda e nelle divergenze che insorsero tra Rebiba e Borromeo, alcuni studiosi , e tra questi Prosperi, hanno individuato una svolta decisiva nell’atteggiamento del Sant’Uffizio in materia di stregoneria diabolica.  Da allora in avanti, la ricerca del corpus delicti, cioè la verifica di accuse quali il recarsi ‘in corpore’ al sabba, l’adorazione del demonio, gli omicidi rituali e la sottoscrizione di un patto, da cui sarebbero discesi secondo la più classica interpretazione demonologica i poteri attribuiti alle streghe, divenne, in Italia, la principale preoccupazione del Sant’Uffizio nei casi di stregoneria diabolica. 

 

Il pugno di ferro del Santo Arcivescovo

 

Negli stessi anni del “delitto di Velate”, di cui è chiamato ad occuparsi  dal Provinciale dei francescani di Milano e dal suo vicario foraneo a Varese, Carlo Borromeo è coinvolto in prima persona in altri episodi dove può mettere in pratica la sua ferma convinzione che, per portare ordine nella Chiesa riformata dopo il concilio di Trento, occorra usare il pugno di ferro contro ogni eresia e disordine religioso.

 

Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini, due ricercatori storici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, hanno documentato in un loro libro (Processo per stregoneria a Caterina de Medici, Rusconi) questo “eccesso di zelo”.

 

Nel 1568 egli richiede espressamente a Gio. Antonio Melli la cattura a Dumenza (vicariato di Luino) di una certa “Domenica di Scappi, stria, ditta la Gioggia, denontiata al officio della sanctissima Inquisitione per stria notoria”. La donna viene dunque catturata consegnata al podestà di Luino, prima di essere passata “al’ofitio di vostra illustrissima at reverendissima Signoria et, servato quello si doveva servar, fu per la congregatione della santa Inquisitione condenata come stria et datta al brazo secularo” per essere arsa.

 

In un altro caso del 1569, quando protesta direttemente con il Vaticano per l’ingerenza del Senato milanese nel caso di un processo ad “alchune femine” di Lecco accusate di stregoneria, non ci sono dubbi sulle sue opinioni in materia. Il giudizio sulle streghe è competenza della Chiesa e, se ci sono prove, la sentenza non può che essere il rogo: “Conviene farne esemplare dimostratione, essendo questa peste sparsa per quelle montagne et invechiata in mala maniera”.

 

Nessun dubbio anche sulla pratica della tortura, che era parte integrante del processo inquisitorio. Ne è prova il medesimo caso delle streghe di Lecco e chiunque volesse capire il senso esplicito delle convinzioni in merito di Carlo Borromeo può consultare liberamente su Internet l’archivio “on line” della Biblioteca Ambrosiana: qui, in una lettera datata 12 settembre 1569, il Cardinale dimostra di conoscere dettagliatamente le orribili “tecniche” con cui le disgraziate vittime dell’Inquisizione venivano normalmente fatte confessare. La più comune, restava la tortura della corda.

 

Era una delle torture più semplici, e quindi più praticate. Da una trave pendeva una corda. La vittima veniva lasciata cadere coi polsi legati dietro la schiena, da una certa altezza, producendole slogature alle braccia e alle spalle.

 

Così la descrive in questa lettera Carlo Borromeo, confutando le accuse a lui rivolte che la presunta strega aveva confessato solo “per paura dei tormenti, et che era stata condotta al luoco della corda et cominciata a spogliare”. Dice il Santo che non c’era stato bisogno, perché “negando tal cosa i miei offitiali, cioè Vicario, Fiscale, et Notari, si trovarono due sbirri, quali dicono che furono chiamati dal Cavaliere di quel tempo, che hora non vi è più, et che cominciorno a discacciarla dinanti per darle la corda, et che lei subito disse, che la lasciassero stare che voleva confessare, et che la lasciorno”.

 

Questi documenti sono sufficienti a riconsiderare la “santità” di Carlo Borromeo, come molti analisti storici (tutti rigorosamente laici, peraltro) suggeriscono?

 

Monsignor Angelo Paredi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana dal 1970 al 1980,  ebbe sicuramente modo di approfondire il monumentale carteggio Borromeo e i tratti biografici che disegna del  Santo arcivescovo non scivolano nella facile agiografia: “Il Borromeo, per la sua educazione legalistica, aveva una concezione quasi medievale dei rapporti tra stato e chiesa. Ebbe quindi urti continui con i governatori spagnoli. Nel 1573 scomunicò il Requesens, che aveva pubblicamente trasgredito le disposizioni arcivescovili sui balli nei giorni festivi. (…)Il governatore Ayamonte sollecitava apertamente che il Borromeo venisse promosso, cioè allontanato da Milano. Voci diffuse insinuavano che anche le istanze supreme di Madrid suggerivano a Roma di provvedere in quel senso e che papa Gregorio XIII non era affatto convinto che il cardinale di Milano avesse del tutto ragione nelle sue esigenze. Anche il consiglio dei decurioni di Milano deliberò di mandare a Roma alcuni patrizi milanesi con credenziali per il papa e per alcuni cardinali, a chiedere che non si permettesse ‘che il popolo di Milano senza suo demerito sia trattato con leggi più aspre degli altri cristiani’.“

 

E così scrive ancora il prefetto dell’Ambrosiana: ”Intanto la delegazione delle autorità milanesi esponeva in varie sedi romane le lamentele e invocava rimedi alle "perturbazioni" causate dai provvedimenti del santo arcivescovo. In queste requisitorie presentate in quell'occasione dai rappresentanti dei decurioni milanesi i rilievi sull'eccessivo rigore dei tribunali arcivescovili di Milano la dicono lunga: ‘Si procede con tormenti (cioè torture) exquisiti, dalli quali molti ne sono stati storpiati e talvolta ancora morti’. Si capisce che, come il cardinale Morone nel Cinquecento, così anche oggi storici cattolici, come Hubert Jedin, non risparmiano a san Carlo l'accusa di eccessivo rigorismo”.

 

Tuttavia pensare che la Chiesa riveda il suo giudizio su Carlo Borromeo sembra impensabile, anche se Giovanni Paolo II nella famosa“Giornata del perdono” della prima domenica di Quaresima, tenutasi solennemente nella Basilica Vatica il 12 marzo 2000, aveva detto che “la confessione dei peccati storici dei cristiani non intende tuttavia operare solo una purificazione della memoria: vuole essere anche un'occasione perché cambi la mentalità, la prospettiva di certi atteggiamenti ecclesiali, e perché emerga un insegnamento per il futuro, nella consapevolezza che i peccati del passato permangono come tentazione nell'oggi.”

Ma a questa revisione storica mancano spesso gli strumenti essenziali della documentazione, ed è per questo che la pubblicazione on line della Biblioteca Ambrosiana è assolutamente meritoria.

 

Ripara quantomeno un precedente di segno opposto che pregiudicò non poco il cammino di una rivisitazione storica di quegli eventi: è il 1788 quando, nel   cortile del convento di S. Maria delle Grazie, vengono bruciate tra il 3 giugno e il mese di agosto tutte le carte dell'Inquisizione milanese.

 

Era una mole enorme di atti, che riguardavano processi avvenuti  dal 1314 al 1764: sarà stato solo un caso, ma questo “rogo della memoria” avveniva nella Diocesi ambrosiana solo un anno prima (o poco più) di quel 14 luglio che sconvolgerà il mondo e rimetterà in discussione leggi e dogmi che fino ad allora erano sembrati eterni.



 

 

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