N. 20 - Agosto 2009
(LI)
iL MONDIALE DESAPARECIDO
I Mondiali del 1978 e la dittatura argentina
di Giuseppe Tramontana
Il
1978
è un
anno
terribile,
soprattutto
per
l’Italia.
La
crisi
petrolifera,
avviatasi
nel
’73,
stenta
a
diradarsi.
Numericamente
è
più
alta
l’inflazione
che
la
durata
– in
mesi
–
dei
governi.
Persino,
con
l’anomalia
di
un
governo
di
solidarietà
nazionale
e la
politica
di
austerity.
Il
16
marzo
è
rapito
Aldo
Moro:
il
cadavere
verrà
ritrovato
il 9
maggio,
dopo
i
fatidici
55
giorni,
in
Via
Caetani.
La
stesa
notte,
tra
l’8
e il
9
maggio,
a
Cinisi,
Palermo,
la
mafia
dei
Badalamenti
uccide
Peppino
Impastato.
A
giugno
il
Presidente
della
Repubblica
Giovanni
Leone
è
costretto
a
dimettersi.
Al
suo
posto
verrà
eletto
Sandro
Pertini.
Nella
seconda
dell’anno
si
approvano
leggi
fondamentali
per
l’Italia:
la
194
sull’interruzione
volontaria
della
gravidanza,
a
maggio,
la
legge
392
sull’equo
canone,
il
27
luglio,
la
legge
833
che
istituisce
il
Servizio
Sanitario
Nazionale,
il
23
dicembre.
Ma,
proprio
nel
mese
di
giugno,
gli
italiani
(e
non
solo),
hanno
l’occasione
per
distrarsi
un
po’,
per
tener
lontani,
seppur
momentaneamente,
cattivi
pensieri,
pessime
premonizioni
e
terribili
ricordi.
In
Argewntina,
si
giocano
i
mondiali
di
calcio.
Che
cosa
abbinano
oggi
i
più
a
quei
Mondiali?
Sicuramente
tante
cose,
Paolo
Rossi,
il
gol
di
Bettega
ai
padroni
di
casa,
i
gol
beccati
da
Zoff
da
lontano
e,
infine,
i
coriandoli.
Che
si
chiamassero
anche
quelli
coriandoli,
in
verità,
l’ho
scoperto
parecchi
anni
dopo.
Venti,
venticinque,
non
saprei.
Per
me
erano
solo
rettangolini
di
carta,
che
biancheggiavano
sul
tappeto
verde
d’erba,
nei
pressi
della
porta
di
Jongbloed,
il
portiere
dell’Olanda,
e
sui
quali
scivolava
la
sfera
presa
a
pedate
dai
calciatori.
Nostalgia?
Nostalgia.
Così
è.
Per
me,
quelli
sono
i
primi
mondiali
seguiti
per
intero,
dalla
partita
d’inaugurazione
alla
finale
coi
coriandoli
sul
campo.
Facendo
appunto
le
ore
piccole
davanti
alla
tv,
l’adrenalina
in
corpo,
l’attesa
di
un
gol,
la
cavalcata
di
un’ala,
la
parata
di
un
portiere.
A
quel
mondiale
c’è
il
solito
Brasile,
che
nonostante
–
dicono
–
non
stia
attraversando
un
momento
di
forma
esaltante,
resta
la
squadra
di
sempre,
che
ti
tritura
le
cervella
a
furia
di
dribbling
e
contro-dribblnig.
C’è
naturalmente
l’immortale
Germania,
campione
in
carica,
senza
fantasia,
tutta
muscoli
e
“muro
o
non
muro
un
passo
avanti”,
quelli
che
sembra
stiano
per
morire
da
un
momento
all’altro,
ma
alla
finale
ci
arrivano.
Eccome
se
ci
arrivano.
E
magari
la
vincono.
E
c’è,
soprattutto,
la
squadra
dei
sogni,
l’Olanda.
I
nomi
dei
suoi
giocatori
sono
musica
per
gli
appassionati
di
mezzo
mondo.
è
la
squadra
che
aveva
perso
la
finale
quattro
anni
prima,
in
Germania.
Ed,
allora,
era
apparsa
di
una
bellezza
mozzafiato.
Emanava
musica
solo
correndo
e
spingendo
avanti
il
pallone:
come
le
stelle
dell’universo
aristotelico.
Era
la
musica
del
calcio
totale,
spassionato,
geniale
di
Rinus
Michels
e
del
profeta
Johan
Cruijff.
Era
un
calcio
armonioso
come
una
statua
greca
e
veloce
come
una
Kawasaki.
Era
la
squadra
che
aveva
messo
d’accordo
i
due
dilemmi
della
bellezza
futurista:
la
perfezione
estetica
della
Nike
di
Samotracia
e la
ruggente,
assatanata,
ebbrezza
della
velocità
creatrice.
Squadra
della
poesia,
della
metrica,
una
spoletta
instancabile,
che
a
passo
di
danza,
passaggio
dopo
passaggio,
ricamava,
sul
tappeto
verde,
trame,
disegni,
arabeschi
di
una
bellezza
sublime.
Per
noi,
per
noi
mortali.
Noi
piccoli
non
abbiamo
mai
visto
nulla
di
così
sfavillante.
Ma
anche
i
grandi
fanno
fatica
a
trovare
qualche
esempio
nel
passato.
E’
così
nuovo
ed
entusiasmante…
I
più
anziani
giurano
che
qualcosa
del
genere
si
era
vista
solo
nel
’70,
con
il
Brasile
del
4-1
all’Italia.
Ma
altri
non
sono
d’accordo.
Più
indietro,
vanno:
al
Brasile,
sì,
ma
del
’58,
quello
campione
del
mondo
in
Svezia,
quello
in
cui
esordì
Pelè
diciassettenne.
Altri
ancora,
infine,
si
spingono
addirittura
fino
al
‘54,
all’Ungheria
di
Puskas,
Kocsis,
Hidegkuti,
Czibor.
Quella
della
finale
rubata
dai
tedeschi
sotto
le
Alpi
svizzere.
Ma,
forse
–
l’avremmo
capito
in
seguito
–
l’Olanda
è
solo
l’Olanda.
E
quella
del
1978,
alla
guida
della
quale
non
c’è
più
Michhels
ma
l’austriaco
Happel,
pur
schierando
i
soliti
Rensenbrink,
i
gemelli
Willy
e
René
Van
de
Kerkhof,
Rudy
Krol,
Rep
e
Neeskens,
non
è
quella
di
quattro
anni
addietro.
Certo,
è
ancora
bella,
elegante,
armoniosa,
ma
qualcosa
manca.
Manca
il
mitico
numero
14,
Johan
Cruijff.
Vale
a
dire
una
buona
porzione
della
squadra
e
del
suo
gioco
michelangiolesco.
Ha
deciso,
Cruijff,
di
dire
no
alla
dittatura
argentina.
Così,
per
una
decisa
presa
di
posizione
politica
–
così
rara
nel
mondo
satollo
e
ottuso
del
pallone
– ha
rifiutato
la
convocazione
del
cittì
Happel.
Nessuno
ha
osato
tanto.
Solo
il
tedesco
Paul
Breitner,
noto
per
le
sue
idee
maoiste.
Alla
fine,
i
tulipani
volanti
usciranno
sconfitti
dal
mondiale.
E,
almeno
questo
sì
che
li
avvicina
sicuramente
ai
mitici
ungheresi:
belli
da
morire,
inventori
di
un
nuovo
modo
di
giocare,
ma,
alla
fine,
sempre
a
bocca
asciutta.
E,
poi,
c’è
l’Italia.
Che
si è
qualificata
per
il
rotto
della
cuffia,
eliminando,
per
differenza
reti,
l’Inghilterra,
grazie
ai
sei
gol
sotto
cui
aveva
sepolto
i
malcapitati
finlandesi
nell’ultima
partita
di
qualificazione.
Giovane,
zeppa
di
ragazzi
ancora
da
farsi,
un
outsider.
L’Italia
di
Bearzot.
E
dei
novellini
Cabrini
e
Cuccureddu,
di
Bettega
e
Causio,
Scirea
e
Benetti,
Zoff
e
Tardelli,
il
blocco-Juve,
insomma.
Con
in
più
il
vicentino
Paolo
Rossi,
il
fiorentino
Antognoni,
i
torinisti
Zaccarelli,
Claudio
Sala,
Patrizio
Sala
ed
Eraldo
Peci,
il
bolognese
Mauro
Bellugi,
il
milanista
Aldo
Maldera,
il
romanista
Paolo
Conti,
secondo
portiere,
e
l’interista
Ivano
Bordon,
terzo
portiere.
Dove
saremmo
arrivati?
Boh,
vediamo.
Certo,
ci
sono
da
annoverare,
tra
i
favoriti,
anche
i
padroni
di
casa,
gli
argentini,
che
a
quella
coppa
ci
tengono
proprio.
Non
sono
malaccio,
effettivamente.
Temibili,
tuttavia
più
per
il
fattore
campo
–
come
dicono
gli
esperti
–
che
per
il
blasone
o la
forza.
Ci
sono,
in
quell’Argentina,
Mario
Alberto
Kempes
e
Daniel
Bertoni,
il
primo
a
concludere
in
rete
ciò
che
l’altro
riusciva
a
crossare;
ci
sono
i
duri
Tarantini
e
Passarella,
il
genietto
Luque
e
l’enigmatico,
instancabile
Ardiles
che,
curiosamente,
gioca
con
il
numero
2,
nei
mondiali
successivi,
ancor
più
curiosamente,
con
l’1.
Tutta
gente
a
noi
poco
meno
che
sconosciuta.
Bravini,
si
dice,
ma
vuoi
mettere
con
l’Olanda…?
Quelli
sono
i
Mondiali
della
giunta
militare
di
Videla,
Massera,
Agosti,
Astiz
e
degli
altri
amici
golpisti.
Li
avevano
voluti
fortissimamente.
E la
FIFA
glieli
aveva
concessi.
E
devono
anche
vincerli.
Sennò
a
cosa
sarebbero
serviti.
Il
colpo
di
stato
c’era
stato
due
anni
prima,
nel
1976.
Quasi
contemporaneamente,
a
poca
distanza,
in
Cile,
sotto
un’altra
dittatura,
l’Italia
del
tennis
conquistava
la
sua
prima
ed
unica
(finora,
non
mettiamo
limiti
alla
racchetta)
Coppa
Davis.
Qualche
improvvido
moralista
aveva
posto
la
questione:
boicottare
l’Argentina
della
Junta?
E
perché
mai?
Non
lo
si
era
fatto
con
il
Cile
di
Pinochet
due
anni
prima,
perché
farlo
adesso
con
gli
argentini?
Tutto
bene,
allora.
L’Italia
e le
altre
nazioni
sono
andate.
Stop.
Tra
le
grandi,
mancano
solo
l’Uruguay,
sorprendentemente
eliminata
dalla
Bolivia,
e la
Cecoslovacchia,
campione
d’Europa
in
carica.
Nella
lista
dei
padroni
di
casa
manca
un
ragazzino
che
sta
facendo
impazzire
gli
stadi
di
mezza
Argentina,
un
diciottenne
di
nome
Diego
Armando
Maradona.
Si
dice
che
sia
davvero
bravo,
un
cavallo
di
razza,
uno
di
quelli
che
avrebbero
fatto
strada,
ma
Luis
Cesar
Menotti,
il
cittì,
non
si è
lasciato
convincere:
troppo
giovane
per
giocare
il
mondiale.
Gli
vengono
preferiti
i
vari
Ardiles,
Kempes,
Bertoni
e
compagnia
bella…
Davanti
ad
un
pubblico
esultante
ed
alle
massime
autorità
militari,
che
sono
semplicemente
le
autorità,
il 1
giugno
i
campioni
in
carica
tedeschi
pareggiano
con
la
Polonia.
L’indomani,
2
giugno,
festa
della
Repubblica,
l’Italia
esordisce
contro
la
Francia
(gruppo
A).
44
secondi
e
siamo
sotto:
cross
dalla
destra
di
Six
e
Lacombe
insacca.
Peggio
di
così…
Quel
maledetto
anno
1978
incombe
malefico
ancora
sullo
Stivale…
Ma
al
29’
Pablito
Rossi,
approfittando
di
una
ribattuta
laterale
del
portiere
francese,
si
fionda
su
quel
pallone
vagante
nell’area
di
rigore
come
u
cagnolino
senza
padrone
e
pareggia.
Nella
ripresa,
poi,
Zaccarelli,
con
un
tiro
a
volo
da
fuori
area,
mette
la
museruola
ai
cugini
transalpini.
2-1.
Ciao
Francia.
Lo
stesso
giorno,
l’altra
partita
del
girone
A,
Argentina-Ungheria
finisce
con
il
medesimo
punteggio
a
favore
dei
bianco-celesti
padroni
di
casa.
E la
Giunta
gongola,
e
gli
argentini
sognano,
mentre
nell’ESMA
la
gente
viene
torturata,
seviziata
dai
boia
in
stellette,
i
ragazzi
vengono
prelevati
a
casa
dagli
squadroni
della
morte
e
fatti
scomparire
per
sempre.
Ma
il
tripudio
è
grande.
Il 6
giugno
l’Italia
se
la
vede
con
l’Ungheria:
finisce
3-1,
senza
tante
storie.
Rossi,
Bettega
e
Benetti.
Toth,
su
rigore,
per
i
magiari.
L’Argentina,
lo
stesso
giorno,
fatica,
ma
vince,
contro
i
francesi:
Passarella
su
rigore,
pareggio
temporaneo
di
Platini
e
gol-vittoria
di
Luque.
Gli
argentini
fiutano,
assaggiano
l’aria.
Qualcuno
comincia
a
fare
previsioni.
Il
governo
è al
massimo
del
consenso.
E
chi
non
acconsente,
lo
fa a
suo
rischio
e
pericolo.
Ebbrezza,
felicità,
speranza.
I
giornali
italiani,
con
i
loro
invitati,
parlano
di
una
nazione
moderna,
rinvigorita
dal
nuovo
governo
del
presidente
Videla
(guai
a
chiamarlo
dittatore).
Mentre
negli
altri
gironi,
le
grandi,
chi
più
chi
meno
arrancavano,
il
10
giugno
si
scontrano
Argentina
e
Italia
per
il
predominio
nel
girone.
E’
notte
in
Italia.
Che
notte,
quella
notte.
Tutti
davanti
agli
schermi
azzurrognoli
della
tv,
trepidanti.
Noi
contro
tutti.
Contro
i
nostri
figli,
gli
arroganti,
spocchiosi
argentini,
contro
quelli
che
di
noi
hanno
preso
tutto,
soprattutto
i
difetti.
La
partita
scivola
via
senza
grandi
sussulti
fino
al
67’
quando,
sulla
trequarti,
in
zona
centrale,
Antognoni
tocca
per
Bettega,
che
dà a
Rossi.
Colpo
di
tacco
di
ritorno
per
lo
stesso
Bettega.
Un
lampo.
Tiro
incrociato
del
nostro
attaccante
nell’angolino
e
tutti
vediamo
la
Madonna:
gol!
Come
ebbe
a
scrivere
Eduardo
Galeano,
qualche
tempo
dopo,
“la
giocata
del
gol
italiano
disegnò
sul
campo
un
triangolo
perfetto,
dentro
il
quale
la
difesa
argentina
rimase
persa
più
di
un
cieco
in
mezzo
a
una
sparatoria.
Anche
se
nessuno
lo
sapeva,
la
squadra
italiana
aveva
già
cominciato
a
vincere
il
Mondiale
di
quattro
anni
dopo”.
Un
cieco
in
mezzo
a
una
sparatoria.
Colpo
duro
per
gli
amici
del
Cono
sud.
Ma
tant’è.
Sono
arrivati
secondi
nel
girone,
ma
questo
non
ha
pregiudicato
il
passaggio
del
turno.
Arriverderci
a
presto.
Intanto,
l’ombra
inquietante
della
dittatura
si
allunga
sul
Mondiale.
Le
mamme
e le
nonne
dei
desaparecidos
si
ritrovano
in
Plaza
del
Mayo,
muniti
di
foto
dei
congiunti
scomparsi,
figli,
nipoti,
mariti,
sorelle,
fratelli…
Anzi,
proprio
durante
i
Mondiali
le
sparizioni,
le
uccisioni,
le
vessazioni
raggiungono
la
massima
intensità.
E
crudeltà.
Le
madri
si
danno
appuntamento
davanti
alla
Casa
Rosada,
la
residenza
presidenziale,
e,
per
mezz’ora,
girano
in
cerchio,
foto,
cartelli
in
mano.
I
militari,
per
intimidirle,
assoldano
anche
gruppi
di
hooligans
tra
i
tifosi
più
violenti
dei
barrios.
Tutto
il
paese
era
stato
invaso
per
tempo
da
manifesti
recanti
lo
slogan
’25
milioni
di
argentini
giocheranno
la
Coppa
del
Mondo’.
Una
società
americana
di
pubbliche
relazioni,
la
Burton
&
Martseller,
viene
ingaggiata
dal
generale
Omar
Actis,
capo
del
comitato
organizzatore
della
manifestazione,
per
mostrare
al
mondo
quanto
sono
bravi
gli
argentini
e
come
questa
nazione
sta
correndo
verso
il
futuro
più
radioso.
A
pochi
mesi
dal
fischio
d’avvio
del
Mondiale,
viene
varata
l’Operazione
Barrido.
Interi
quartieri
malfamati
della
periferia
di
Baires
vengono
rasi
al
suolo
e
gli
abitanti
deportati
nella
provincia
di
Catamarca.
A
Rosario,
lungo
il
viale
principale,
viene
eretto
un
muro
con
immagini
dipinte
di
case
belle
ed
accoglienti
per
nascondere
quelle
vere,
povere,
fatiscenti
e
malsane.
Eppure,
di
turisti
non
ce
ne
sono
molti,
solo
17
mila.
Non
sono
neanche
ammessi
charter
dall’estero.
Ma
in
compenso
gli
addetti
ai
lavori,
giornalisti,
cronisti,
calciatori,
allenatori
e
allegra
combriccola,
sono
più
di
50
mila.
Tutti
sotto
controllo
o
quasi.
Intanto,
tanto
per
non
perdere
il
vizio,
vengono
arrestate
più
di
200
persone
al
giorno
per
evitare
che
parlino
con
i
giornalisti
stranieri.
Ma
ci
sono,
soprattutto,
quelle
donne
che
manifestano
in
piazza
con
le
foto.
Donne
sole,
stanche,
rose
dal
dolore
e
dall’angoscia,
coriacee
e
disperate,
la
cattiva
e
sporca
coscienza
di
un
regime
che
le
vorrebbe
invisibili
e
atone,
ma
che
invece
ci
sono,
resistono,
determinate.
Determinate
e
sole.
Il
vuoto
di
una
nazione
pallonara
attorno.
Tutto
folklore,
dice
il
regime.
Nessuno
manca
all’appello.
E
chi
manca
è
perché
se
n’è
andato
via
spontaneamente.
Che
colpa
ne
abbiamo
noi,
se
la
gente
espatria
per
lavoro
o
per
inseguire
un
sogno,
magari
un
sogno
in
gonnella?
Ci
capite,
voi,
italiani,
vero?
Certo,
che
sì…
Il
torneo
–
parliamo
del
torneo
piuttosto
–
costa.
Quanto?
Intorno
agli
800
milioni
di
dollari.
Bisogna
fare
bella
figura,
no?
Voi
cosa
fareste
al
posto
nostro.
Beh,
lo
stesso…
Ecco,
allora,
tutto
sistemato,
no?
Sì,
certo,
ma
il
colpo
di
stato,
le
voci
sulla
gente
che
scompare,
l’economia
che
scricchiola…
Eh,
cari
italiani,
sono
voci
messi
in
giro
dai
comunisti.
Voi
li
conoscete,
no?
Tre
mesi
fa
non
hanno
ucciso
un
illustre
statista
da
voi?
Sì,
c’è
un
governo
di
militari,
ma
per
salvare
il
paese
dall’anarchia
dei
comunisti,
dei
disfattisti,
di
quelli
che
non
vogliono
il
progresso,
ma
lavorano
per
corrompere
i
costumi…
Certo,
capiamo…
E
così,
mentre
capiamo
e la
gente
continua
a
scomparire,
ad
essere
torturata
con
gli
elettrodi
ai
testicoli
e
alle
mammelle,
mentre
si
intensificano
i
voli
della
morte
per
scaraventare
i
ragazzi
nell’Atlantico
dopo
averli
narcotizzati,
i
generali
se
la
godono
in
tribuna.
L’Argentina
è
proiettata
verso
il
futuro:
così
dicono
i
militari.
Strade
nuove,
aeroporti
moderni,
stadi
sfavillanti,
popolo
entusiasta.
Cosa
volte
di
più?
Per
l’occasione,
anche
la
censura
viene
ammorbidita.
Ma
non
serve.
I
giornali
si
censurano
da
soli:
meglio
così,
l’avrebbero
pagata
dopo,
altrimenti.
Cos,
ad
esempio,
durante
il
discorso
per
la
cerimonia
inaugurale,
a
Cordoba,
sul
tabellone
elettronico
–
nuovissimo
anch’esso
–
compare
il
disegno
di
un
carro
armato.
Nessun
giornale,
però
ne
dà
notizia.
Finora
solo
l’Italia,
la
nazionale
italiana,
quella
che,
alla
fine
porterà
più
tifosi
allo
stadio
(9
milioni)
ha
dato
un
dispiacere
ai
padroni
di
casa.
Si
arriva
alle
semifinali.
Nel
gruppo
A
sono
accorpate
la
rivelazione
Italia,
la
sempiterna
Germania
Ovest,
l’Olanda
dell’armonia
totale,
ma
che,
nella
fase
eliminatoria,
è
inciampata
con
il
Perù
(0-0)
e
scivolata
con
la
strabiliante
Scozia
(3-2),
e la
sorprendente
Austria.
Nel
gruppo
B
sono
acquartierate
Argentina,
Polonia,
Brasile
e
Perù.
Chi
andrà
avanti?
Il
14
giugno,
Italia
e
Germania
si
arrotolano
nella
noia.
Sbadigli
e
0-0.
Lo
stesso
giorno
l’Olanda
vince
in
carrozza
contro
i
malcapitati
austriaci:
5-1,
con
doppietta
di
Rep
e
gol
di
Brandts,
Rensenbrink,
e
Willy
Van
de
Kerkhof.
Poesia.
Nell’altro
girone,
sempre
lo
stesso
giorno
14,
gli
argentini
liquidano
2-0
la
Polonia,
mentre
il
Brasile
di
Dirceu
(2
gol)
e
Zico
(1)
smeriglia
il
Perù:
3-0
e
tanti
saluti.
Quattro
giorni
di
riposo.
Il
regime
gongola
sempre
più.
Gli
argentini
sono
travolti
dalla
propaganda:
di
nulla
si
parla
se
non
di
Copa
Mundial,
gol,
assist.
Solo
qualche
giornale
di
sinistra,
all’estero,
invita
Passarella,
Tarantini,
Kempes,
a
dire
qualcosa
sulla
repressione
del
regime,
sugli
squadroni
che
scorazzano
nelle
città
rastrellando
e
facendo
scomparire
centinaia
di
persone.
Nessuno
dice
ba.
Neanche
la
Chiesa,
che,
anzi
– si
saprà
in
seguito
–
sarà
un
validissimo
aiuto
per
i
macellai
in
divisa.
Bon,
il
18
si
riattacca.
Secondo
giro.
L’Italia
batte
l’Austria
con
uno
striminzito,
ma
meritato
1-0
(Rossi,
12’),
la
Germania
e
l’Olanda
fanno
2-2.
Nel
girone
B,
il
derby
latino-americano
Brasile
e
Argentina
finisce
a
reti
vergini:
0-0.
La
Polonia
batte
il
Perù,
che
dice
addio
al
Mondiale,
mentre
i
polacchi
si
possono
giocare
l’ultima
chance
nella
partita
conclusiva
contro
il
Brasile.
Ed
il
21
giugno
è il
giorno
dei
verdetti.
Nel
primo
girone,
l’Austria
detronizza
la
Germania:
3-2,
con
Krankl
che
fa
il
guappo
in
campo.
Ma
la
partita
clou,
la
nostra
partita,
è
Italia-Olanda.
Al
19’
un’autorete
di
Brandts
fa
sognare
gli
azzurri.
Sembrava
fatta.
La
finale
era
a
portata
di
mano:
bastava
difendersi
con
ordine
e
tutto
sarebbe
andato
per
il
meglio.
Ma
all’inizio
delle
ripresa,
lo
stesso
Brandts,
spintosi
in
avanti,
pareggia:
1-1.
L’Italia
appare
stanca,
corre
poco,
i
centrocampisti
chiudono
con
fatica,
gli
attaccanti
si
fanno
vedere
meno
del
sole
in
inverno.
L’Olanda,
invece,
cresce.
Non
sembra
proprio
quella
dei
giorni
migliori,
ma
sa
ancora
elaborare
trame,
tessere
l’ordito
del
gioco.
La
gente
tifa
Italia.
Il
sogno
è la
finale
Italia-Argentina.
Da
sempre.
Dall’assegnazione
del
Mondiale
alla
nazione
dei
pampas.
E
dura
fino
al
76’,
il
sogno.
Fino
al
tiro
da
quaranta
metri,
o
giù
di
lì,
di
Haan
che
Zoff
guarda
impotente
infilarsi
sotto
il
set
alla
sua
sinistra.
2-1:
Olanda
in
Paradiso,
Italia
in
ginocchio.
Zoff
nell’occhio
del
ciclone:
che
cosa
guardava,
le
farfalle?
A
casa
bisognava
mandarlo.
Anzi,
neanche
farlo
giocare.
Dimentichi
che
fino
a
quel
momento
il
portiere
azzurro
si
era
comportato
più
che
egregiamente,
i 50
milioni
di
cittì
nostrani
gettarono
su
di
lui
la
colpa
della
sconfitta
nella
semifinale.
Vabbè,
c’è
la
finale
per
il
terzo
posto,
ma
quella
finale
è?
E’
la
finale
dei
fessi…
E
non
vale
a
mitigare
la
delusione
la
considerazione
che
l’Italia,
comunque,
è
arrivata
lì
contro
ogni
pronostico:
chi
avrebbe
potuto
immaginarsi,
il 2
giugno,
una
marcia
del
genere?
Ma
la
cosa
interessante
accade
nell’altra
semifinale.
Ora,
c’è
da
dire
che,
in
virtù
dei
risultati
maturati
fino
a
quel
punto,
Argentina
e
Brasile
sono
entrambe
prime
nel
girone,
con
3
punti
(la
vittoria,
vale
ancora
due
punti).
Segue
la
Polonia
con
2,
ultimo
il
Perù
con
0.
Tuttavia,
per
la
differenza
reti,
i
verde-oro
carioca
sono
avanti.
Hanno
segnato
tre
gol
ai
peruviani,
mentre
gli
argentini
ne
hanno
fatti
solo
due
ai
polacchi.
Decisiva
diventa
l’ultima
partita.
Senso
di
giustizia
e
della
correttezza
richiederebbero
che
le
due
partite,
Brasile-Polonia
e
Argentina-Perù,
si
svolgano
in
contemporanea.
E’
il
minimo.
Ma è
il
minimo
che
spesso
consuma
ed è
sul
minimo
che
si
scommette
la
credibilità
delle
cose
più
importanti
del
mondo…
E,
in
quell’occasione
il
minimo
passa
in
cavalleria,
incredibilmente.
E
con
l’avallo
della
FIFA.
Nel
pomeriggio
giocano
i
brasiliani
e
vincono
per
tre
reti
a
uno.
La
sera,
quando
ormai
si
sa
abbondantemente
il
risultato
dell’altra
gara,
si
gioca
Argentina-Perù.
A
questo
punto,
è
necessario
fare
un
salto
in
avanti
di
quasi
trent’anni.
Nel
2007,
Fernando
Rodriguez
Mondragòn,
figlio
di
Gilberto
Rodriguez
Orejuela,
uno
dei
boss
più
potenti
del
narcotraffico
colombiano,
in
un
libro
dal
titolo
El
hijo
del
Ajedrecista
(Il
figlio
dello
Scacchista,
il
soprannome,
quest’ultimo,
dell’amato
paparino),
rivela
alcuni
interessanti
retroscena
di
quella
partita,
passata
alla
storia
come
la
marmelada
peruana,
la
marmellata
peruviana.
Cosa
accadde
in
quei
giorni
argentini
di
metà
giugno?
Parecchie
cose.
Stando
alla
confessione
di
Fernando
Rodriguez
Mondragòn,
il
paparino
e lo
zio
Miguel,
che
erano,
sì,
colombiani,
ma
non
sordi
alle
richieste
di
aiuto
degli
amici
argentini,
avrebbero
portato
una
quantità
imprecisata
– ma
enorme
– di
denaro
frusciante
alla
squadra
andina
per
corromperla
garantendo
la
qualificazione
alla
finale
dei
bianco-celesti.
Ma
non
è
questo
l’unico
episodio
dubbio.
Un
giocatore
peruviano,
il
centrocampista
José
Velasquez,
qualche
annetto
dopo,
racconterà
di
come,
prima
della
partita,
vi
sia
stata
una
strana
visita
del
generale
Jorge
Videla,
accompagnato
dal
segretario
di
Stato
americano
Henry
Kissinger,
negli
spogliatoi
peruviani.
E di
come
-
sicuramente
per
pura
coincidenza
-
dopo
quella
visita,
il
tecnico
andino
Marcos
Calderon
abbia
deciso
di
rimettere
in
formazione
il
portiere
Ramon
Quiroga
Arancibia,
argentino
di
Rosario
naturalizzato
peruviano
l’anno
precedente,
da
qualche
partita
in
naftalina.
Ma
non
è
ancora
finita.
Come
raccontò
il
giornalista
del
The
Sport
Monthly
Tim
Pears,
il
governo
argentino,
poco
prima
della
partita,
fece
partire
un
carico
di
un
milione
di
tonnellate
di
grano
verso
il
Perù
ed
aprì
una
linea
di
credito
di
50
milioni
di
dollari
a
favore
degli
amici
di
Lima.
Tutte
queste
lubrificazioni
hanno
un
unico
effetto:
fanno
spalancare
la
porta
di
Quiroga.
Per
sei
volte.
6 a
0 e
Argentina
in
finale.
Con
buona
pace
dei
farlocchi
brasiliani…
Il
24
giugno,
la
finale
per
il
terzo
posto
vede
l’Italia
sconfitta
dal
Brasile:
2-1
e
nuovo
gol
da
distanza
siderale
incassato
da
Zoff.
E’
vecchio,
è
orbo,
è
stranito,
è
rincoglionito.
I
commenti
e
gli
insulti
al
portierone
azzurro
si
sprecano.
Quattro
anni
dopo,
in
Spagna,
tutti
i
critici
dovranno
rimangiarsi
le
contumelie.
Comunque,
l’Italia
è
quarta.
E’
arrivata
sino
in
fondo,
almeno.
L’indomani,
all’Estadio
Monumental
di
Buenos
Aires,
davanti
a
più
di
71
mila
spettatori,
va
in
scena
la
tanto
attesa
serata
del
trionfo.
Trionfo
deve
essere.
Trionfo
sarà.
Ad
arbitrare
un
vecchio
lupo
di
mare
italiano:
il
signor
Sergio
Gonella,
alla
sua
ultima
partita
in
nero.
In
tribuna
tutta
Videla.
Accanto
a
lui
Agosti.
E
poi
il
gotha
della
P2.
L’altro
golpista,
l’ammiraglio
Emilio
Eduardo
Massera,
il
responsabile
dell’ESMA,
la
Scuola
Meccanizzata
della
Marina,
dove
avvenivano
le
torture
più
atroci,
Licio
Gelli,
ex
repubblichino
e
maestro
venerabile
della
Loggia
massonica
eversiva,
e
Rafael
Luis
Rega,
ex
ministro
dell’Interno
di
Isabelita
Peron
e
inventore
della
Triple
A (Alianza
Anticomunista
Argentina),
gli
squadroni
della
morte.
Quando
l’arbitro
Gonella
fischiò
il
calcio
d’inizio,
la
vita
si
fermò
in
tutto
il
paese.
Generali,
colonnelli,
capitani,
ammiragli,
militari
con
sul
petto
più
croci
di
un
cimitero
di
guerra
prussiano.
La
vita
e le
attività.
Anche
le
attività
dei
boia
dell’ESMA.
Tutti
con
gli
occhi
fissi
agli
schermi
televisivi,
tutti
in
trepidazione
per
la
nazionale
bianco-celeste.
Per
120
minuti
(ché
ci
furono
i
supplementari)
la
vita
e la
morte
si
arrestarono.
Come
in
attesa
del
giudizio
universale.
Era
accaduto
lo
stesso
durante
le
precedenti
partite
della
nazionale
argentina.
Si
fermarono
anche
questa
volta
le
picanas
appuntite
che
tormentavano
i
’sovversivi’
con
corrente
elettrica,
spesso
attaccate
agli
organi
genitali,
alle
gengive,
ai
capezzoli,
alle
piante
dei
piedi.
Furono
sospese
le
violenze
sessuali,
le
immersioni
forzose
nell’acqua
sporca
fino
a
far
scoppiare
i
polmoni
o
quelle
negli
escrementi.
Subirono
una
breve
moratoria
anche
i
voli
della
morte,
i
voli
degli
aerei
militari
che
scaraventavano
in
mare,
nell’Oceano,
uomini
e
donne
pestati,
vilipesi,
torturati,
violentati,
narcotizzati.
Ma
vivi.
Che
morissero
annegati
come
i
topi!
La
partita
si
mette
subito
bene
per
i
padroni
di
casa.
L’arbitraggio
non
tarda
a
rivelarsi
non
particolarmente
benevolo
coi
tulipani.
Forse
non
è un
caso
che,
dopo
quella
partita,
Sergio
Gonella
deciderà
di
appendere
le
scarpe
al
chiodo.
Ma
tant’è.
Al
38’Mario
Alberto
Kempes,
taglia
l’area
di
rigore
orange
con
la
sua
capigliatura
da
Beatles
e
insacca
alle
spalle
di
Jongbloed:
1-0.
L’Olanda
non
ci
sta.
Comincia
a
macinare
gioco.
Occasioni
su
occasioni.
Niente.
L’Argentina
si
difende
a
fatica,
ma
si
difende.
E
dove
non
arrivano
Tarantini,
Passarella
e
compagni,
arriva
il
fischio
dell’arbitro:
fuorigioco,
fallo
in
attacco,
calcio
d’angolo
negato,
nel
contrasto
in
area
di
rigore
il
difensore
ha
sempre
ragione
e
così
via…
Gli
argentini
assaporano
la
vittoria,
el
triumpho.
Ma a
8
minuti
dalla
fine,
Nanninga,
entrato
al
59’
al
posto
di
Rep,
trova
lo
spiraglio
giusto:
1-1
e
gelo
sul
Monumental.
Dick
Nanninga,
attaccante
del
Roda,
per
la
cronaca,
giocò
solo
quella
partita
in
nazionale.
Anzi,
per
essere
coretti,
giocò
solo
61
minuti,
supplementari
compresi.
61
minuti
in
una
finale
mondiale
e un
gol.
Quando
si
dice
il
destino…
Ai
supplementari,
dunque.
Proprio
alla
fine
del
primo
tempo,
al
105’,
il
solito
Kempes
fa
centro
nuovamente,
nel
tripudio
generale,
tra
coriandoli
e
ululati
di
gioia,
boati
di
orgoglio
e
visioni
mistiche
del
destino
sotto
forma
di
numero
11,
il
numero
dell’attaccante.
Al
116’,
poi,
Daniel
Bertoni
pone
la
parola
fine
all’epopea:
3-1
e
Argentina
campione.
Poco
dopo,
il
capitano
Daniel
Passarella
riceve
dalle
mani
insanguinate
di
Videla
la
Coppa
col
globo
tra
l’esultanza
generale.
Solo
gli
olandesi
si
rifiutano
di
stringere
le
mani
ai
dittatori
e
così
Cruijff,
Krol,
Rensenbrink,
i
Van
de
Kerkhof,
Brandts
filano
via
quatti
quatti,
senza
concedere
a
quel
baffo
sopra
il
cimitero
di
croci
e
medaglie
di
aureolarsi
con
un
ipocrita
sorriso
di
compatimento.
Forse
si
saranno
rabbuiati
–
oltre
che
per
la
sconfitta
-
per
essersi
prestati
al
gioco
della
propaganda
di
regime.
E,
chissà,
avranno
pensato
anche
a
Cruijff,
l’uomo
del
coraggioso
no.
Lo
stesso
no
che
aveva
pronunciato,
il
vero
capitano
dell’Argentina,
Jorge
Carrascosa.
Un’imprendibile
ala
destra,
dell’Hurracan,
che,
per
non
avere
nulla
da
spartire
coi
golpisti,
aveva
rifiutato
la
convocazione
del
flaco
Menotti
all’ultimo
minuto.
Gli
altri
festeggiano.
Anche
Menotti,
che,
pare
avesse
imposto
ai
suoi
giocatori
di
non
rivolgere
il
saluto,
ad
inizio
gara,
alle
tribune
d’onore
affollate
di
stellette
e
divise.
Dopo,
tutto
riprende.
Anche
le
torture,
gli
omicidi,
i
sequestri
e i
voli
della
morte.
In
un
mese,
Argentina
ha
mostrato
al
mondo
cos’è
capace
di
fare,
in
un
campo
di
calcio.
Nessuno,
invece
– né
dentro
né
fuori
lo
stato
sudamericano
- ha
voluto
o
saputo
ascoltare
le
voci
dei
disperati,
dei
terrorizzati,
delle
madri,
delle
sorelle,
dei
fratelli
ancora
alla
ricerca
angosciosa
dei
propri
cari
scomparsi
senza
perché,
senza
speranza.
Violenza
brutale,
violenza
oscena,
violenza
perversa
di
una
dittatura
imbelle,
che
sarà
spazzata
via
da
una
stupida
guerra,
figlia
di
una
mossa
idiota
di
un
regime
ottuso.
Ma
ci
vorrà
ancora
un
lustro
perché
anche
il
mondo
venga
messo
definitivamente
di
fronte
alle
proprie
responsabilità.
E ne
resterà
come
stranito.
Stupito
e
vergognoso,
forse,
per
la
codardia
dimostrata.
Una
volta
di
più.
Di
certo,
non
può
dirsi
scandalizzato.
E
l’Italia,
figurarsi,
più
di
altri.
Intanto,
in
quel
1978,
forse
50
milioni
di
mani
argentine
–
come
recitano
alcuni
manifesti
di
regime
-
sollevano
la
coppa
del
mondo.
Ma
quante
di
queste,
sono
ancora
insanguinante
e
quante
segnate
dalle
torture,
piagate
dal
filo
spinato,
spezzate
dalla
furia
degli
aguzzini,
quante
hanno
inutilmente
implorato
pietà
e
quante,
infine,
non
avrebbero
fatto
più
ritorno
a
casa,
ingoiate
dall’abisso,
svaporate
nel
nulla?
Ma,
la
Coppa
è
argentina.
Tutto
il
resto,
pare,
è
secondario.
Vissuto
quasi
con
fastidio.
Soprattutto
da
chi,
non
essendo
argentino,
accetta
di
partecipare,
spensierato
e
ottuso.
Marionette
garrule
e
vuote
sul
palcoscenico
di
un
evento
pensato,
usato
e,
manipolato
dalla
propaganda
di
regime
in
maniera
così
sfacciata
e
arrogante
come
non
si
vedeva
dai
tempi
dell’Olimpiade
berlinese
del
1936.