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N. 20 - Agosto 2009 (LI)

iL MONDIALE DESAPARECIDO
I Mondiali del 1978 e la dittatura argentina

di Giuseppe Tramontana

 

Il 1978 è un anno terribile, soprattutto per l’Italia. La crisi petrolifera, avviatasi nel ’73, stenta a diradarsi. Numericamente è più alta l’inflazione che la durata – in mesi – dei governi. Persino, con l’anomalia di un governo di solidarietà nazionale e la politica di austerity. Il 16 marzo è rapito Aldo Moro: il cadavere verrà ritrovato il 9 maggio, dopo i fatidici 55 giorni, in Via Caetani.

 

La stesa notte, tra l’8 e il 9 maggio, a Cinisi, Palermo, la mafia dei Badalamenti uccide Peppino Impastato. A giugno il Presidente della Repubblica Giovanni Leone è costretto a dimettersi. Al suo posto verrà eletto Sandro Pertini. Nella seconda dell’anno si approvano leggi fondamentali per l’Italia: la 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, a maggio, la legge 392 sull’equo canone, il 27 luglio, la legge 833 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, il 23 dicembre. Ma, proprio nel mese di giugno, gli italiani (e non solo), hanno l’occasione per distrarsi un po’, per tener lontani, seppur momentaneamente, cattivi pensieri, pessime premonizioni e terribili ricordi.

In Argewntina, si giocano i mondiali di calcio.

 

Che cosa abbinano oggi i più a quei Mondiali? Sicuramente tante cose, Paolo Rossi, il gol di Bettega ai padroni di casa, i gol beccati da Zoff da lontano e, infine, i coriandoli. Che si chiamassero anche quelli coriandoli, in verità, l’ho scoperto parecchi anni dopo. Venti, venticinque, non saprei.

 

Per me erano solo rettangolini di carta, che biancheggiavano sul tappeto verde d’erba, nei pressi della porta di Jongbloed, il portiere dell’Olanda, e sui quali scivolava la sfera presa a pedate dai calciatori. Nostalgia? Nostalgia. Così è. Per me, quelli sono i primi mondiali seguiti per intero, dalla partita d’inaugurazione alla finale coi coriandoli sul campo. Facendo appunto le ore piccole davanti alla tv, l’adrenalina in corpo, l’attesa di un gol, la cavalcata di un’ala, la parata di un portiere.

 

A quel mondiale c’è il solito Brasile, che nonostante – dicono – non stia attraversando un momento di forma esaltante, resta la squadra di sempre, che ti tritura le cervella a furia di dribbling e contro-dribblnig.

 

C’è naturalmente l’immortale Germania, campione in carica, senza fantasia, tutta muscoli e “muro o non muro un passo avanti”, quelli che sembra stiano per morire da un momento all’altro, ma alla finale ci arrivano. Eccome se ci arrivano. E magari la vincono. E c’è, soprattutto, la squadra dei sogni, l’Olanda. I nomi dei suoi giocatori sono musica per gli appassionati di mezzo mondo.

 

è la squadra che aveva perso la finale quattro anni prima, in Germania. Ed, allora, era apparsa di una bellezza mozzafiato. Emanava musica solo correndo e spingendo avanti il pallone: come le stelle dell’universo aristotelico. Era la musica del calcio totale, spassionato, geniale di Rinus Michels e del profeta Johan Cruijff. Era un calcio armonioso come una statua greca e veloce come una Kawasaki. Era la squadra che aveva messo d’accordo i due dilemmi della bellezza futurista: la perfezione estetica della Nike di Samotracia e la ruggente, assatanata, ebbrezza della velocità creatrice. Squadra della poesia, della metrica, una spoletta instancabile, che a passo di danza, passaggio dopo passaggio, ricamava, sul tappeto verde, trame, disegni, arabeschi di una bellezza sublime. Per noi, per noi mortali. Noi piccoli non abbiamo mai visto nulla di così sfavillante. Ma anche i grandi fanno fatica a trovare qualche esempio nel passato. E’ così nuovo ed entusiasmante…

 

I più anziani giurano che qualcosa del genere si era vista solo nel ’70, con il Brasile del 4-1 all’Italia. Ma altri non sono d’accordo. Più indietro, vanno: al Brasile, sì, ma del ’58, quello campione del mondo in Svezia, quello in cui esordì Pelè diciassettenne. Altri ancora, infine, si spingono addirittura fino al ‘54, all’Ungheria di Puskas, Kocsis, Hidegkuti, Czibor. Quella della finale rubata dai tedeschi sotto le Alpi svizzere. Ma, forse – l’avremmo capito in seguito – l’Olanda è solo l’Olanda. E quella del 1978, alla guida della quale non c’è più Michhels ma l’austriaco Happel, pur schierando i soliti Rensenbrink, i gemelli Willy e René Van de Kerkhof, Rudy Krol, Rep e Neeskens, non è quella di quattro anni addietro. Certo, è ancora bella, elegante, armoniosa, ma qualcosa manca. Manca il mitico numero 14, Johan Cruijff. Vale a dire una buona porzione della squadra e del suo gioco michelangiolesco. Ha deciso, Cruijff, di dire no alla dittatura argentina. Così, per una decisa presa di posizione politica – così rara nel mondo satollo e ottuso del pallone – ha rifiutato la convocazione del cittì Happel. Nessuno ha osato tanto. Solo il tedesco Paul Breitner, noto per le sue idee maoiste. Alla fine, i tulipani volanti usciranno sconfitti dal mondiale. E, almeno questo sì che li avvicina sicuramente ai mitici ungheresi: belli da morire, inventori di un nuovo modo di giocare, ma, alla fine, sempre a bocca asciutta.

 

E, poi, c’è l’Italia. Che si è qualificata per il rotto della cuffia, eliminando, per differenza reti, l’Inghilterra, grazie ai sei gol sotto cui aveva sepolto i malcapitati finlandesi nell’ultima partita di qualificazione. Giovane, zeppa di ragazzi ancora da farsi, un outsider. L’Italia di Bearzot. E dei novellini Cabrini e Cuccureddu, di Bettega e Causio, Scirea e Benetti, Zoff e Tardelli, il blocco-Juve, insomma. Con in più il vicentino Paolo Rossi, il fiorentino Antognoni, i torinisti Zaccarelli, Claudio Sala, Patrizio Sala ed Eraldo Peci, il bolognese Mauro Bellugi, il milanista Aldo Maldera, il romanista Paolo Conti, secondo portiere, e l’interista Ivano Bordon, terzo portiere. Dove saremmo arrivati? Boh, vediamo. Certo, ci sono da annoverare, tra i favoriti, anche i padroni di casa, gli argentini, che a quella coppa ci tengono proprio. Non sono malaccio, effettivamente. Temibili, tuttavia più per il fattore campo – come dicono gli esperti – che per il blasone o la forza. Ci sono, in quell’Argentina, Mario Alberto Kempes e Daniel Bertoni, il primo a concludere in rete ciò che l’altro riusciva a crossare; ci sono i duri Tarantini e Passarella, il genietto Luque e l’enigmatico, instancabile Ardiles che, curiosamente, gioca con il numero 2, nei mondiali successivi, ancor più curiosamente, con l’1. Tutta gente a noi poco meno che sconosciuta. Bravini, si dice, ma vuoi mettere con l’Olanda…?

 

Quelli sono i Mondiali della giunta militare di Videla, Massera, Agosti, Astiz e degli altri amici golpisti. Li avevano voluti fortissimamente. E la FIFA glieli aveva concessi. E devono anche vincerli. Sennò a cosa sarebbero serviti. Il colpo di stato c’era stato due anni prima, nel 1976. Quasi contemporaneamente, a poca distanza, in Cile, sotto un’altra dittatura, l’Italia del tennis conquistava la sua prima ed unica (finora, non mettiamo limiti alla racchetta) Coppa Davis. Qualche improvvido moralista aveva posto la questione: boicottare l’Argentina della Junta? E perché mai? Non lo si era fatto con il Cile di Pinochet due anni prima, perché farlo adesso con gli argentini? Tutto bene, allora. L’Italia e le altre nazioni sono andate. Stop. Tra le grandi, mancano solo l’Uruguay, sorprendentemente eliminata dalla Bolivia, e la Cecoslovacchia, campione d’Europa in carica. Nella lista dei padroni di casa manca un ragazzino che sta facendo impazzire gli stadi di mezza Argentina, un diciottenne di nome Diego Armando Maradona. Si dice che sia davvero bravo, un cavallo di razza, uno di quelli che avrebbero fatto strada, ma Luis Cesar Menotti, il cittì, non si è lasciato convincere: troppo giovane per giocare il mondiale. Gli vengono preferiti i vari Ardiles, Kempes, Bertoni e compagnia bella…

 

Davanti ad un pubblico esultante ed alle massime autorità militari, che sono semplicemente le autorità, il 1 giugno i campioni in carica tedeschi pareggiano con la Polonia. L’indomani, 2 giugno, festa della Repubblica, l’Italia esordisce contro la Francia (gruppo A). 44 secondi e siamo sotto: cross dalla destra di Six e Lacombe insacca. Peggio di così… Quel maledetto anno 1978 incombe malefico ancora sullo Stivale… Ma al 29’ Pablito Rossi, approfittando di una ribattuta laterale del portiere francese, si fionda su quel pallone vagante nell’area di rigore come u cagnolino senza padrone e pareggia. Nella ripresa, poi, Zaccarelli, con un tiro a volo da fuori area, mette la museruola ai cugini transalpini. 2-1. Ciao Francia. Lo stesso giorno, l’altra partita del girone A, Argentina-Ungheria finisce con il medesimo punteggio a favore dei bianco-celesti padroni di casa. E la Giunta gongola, e gli argentini sognano, mentre nell’ESMA la gente viene torturata, seviziata dai boia in stellette, i ragazzi vengono prelevati a casa dagli squadroni della morte e fatti scomparire per sempre. Ma il tripudio è grande. Il 6 giugno l’Italia se la vede con l’Ungheria: finisce 3-1, senza tante storie. Rossi, Bettega e Benetti. Toth, su rigore, per i magiari. L’Argentina, lo stesso giorno, fatica, ma vince, contro i francesi: Passarella su rigore, pareggio temporaneo di Platini e gol-vittoria di Luque. Gli argentini fiutano, assaggiano l’aria. Qualcuno comincia a fare previsioni. Il governo è al massimo del consenso. E chi non acconsente, lo fa a suo rischio e pericolo. Ebbrezza, felicità, speranza. I giornali italiani, con i loro invitati, parlano di una nazione moderna, rinvigorita dal nuovo governo del presidente Videla (guai a chiamarlo dittatore).

 

Mentre negli altri gironi, le grandi, chi più chi meno arrancavano, il 10 giugno si scontrano Argentina e Italia per il predominio nel girone. E’ notte in Italia. Che notte, quella notte. Tutti davanti agli schermi azzurrognoli della tv, trepidanti. Noi contro tutti. Contro i nostri figli, gli arroganti, spocchiosi argentini, contro quelli che di noi hanno preso tutto, soprattutto i difetti. La partita scivola via senza grandi sussulti fino al 67’ quando, sulla trequarti, in zona centrale, Antognoni tocca per Bettega, che dà a Rossi. Colpo di tacco di ritorno per lo stesso Bettega. Un lampo. Tiro incrociato del nostro attaccante nell’angolino e tutti vediamo la Madonna: gol! Come ebbe a scrivere Eduardo Galeano, qualche tempo dopo, “la giocata del gol italiano disegnò sul campo un triangolo perfetto, dentro il quale la difesa argentina rimase persa più di un cieco in mezzo a una sparatoria. Anche se nessuno lo sapeva, la squadra italiana aveva già cominciato a vincere il Mondiale di quattro anni dopo”. Un cieco in mezzo a una sparatoria.

Colpo duro per gli amici del Cono sud. Ma tant’è.

Sono arrivati secondi nel girone, ma questo non ha pregiudicato il passaggio del turno. Arriverderci a presto. Intanto, l’ombra inquietante della dittatura si allunga sul Mondiale. Le mamme e le nonne dei desaparecidos si ritrovano in Plaza del Mayo, muniti di foto dei congiunti scomparsi, figli, nipoti, mariti, sorelle, fratelli…

 

Anzi, proprio durante i Mondiali le sparizioni, le uccisioni, le vessazioni raggiungono la massima intensità. E crudeltà. Le madri si danno appuntamento davanti alla Casa Rosada, la residenza presidenziale, e, per mezz’ora, girano in cerchio, foto, cartelli in mano. I militari, per intimidirle, assoldano anche gruppi di hooligans tra i tifosi più violenti dei barrios. Tutto il paese era stato invaso per tempo da manifesti recanti lo slogan ’25 milioni di argentini giocheranno la Coppa del Mondo’. Una società americana di pubbliche relazioni, la Burton & Martseller, viene ingaggiata dal generale Omar Actis, capo del comitato organizzatore della manifestazione, per mostrare al mondo quanto sono bravi gli argentini e come questa nazione sta correndo verso il futuro più radioso. A pochi mesi dal fischio d’avvio del Mondiale, viene varata l’Operazione Barrido. Interi quartieri malfamati della periferia di Baires vengono rasi al suolo e gli abitanti deportati nella provincia di Catamarca. A Rosario, lungo il viale principale, viene eretto un muro con immagini dipinte di case belle ed accoglienti per nascondere quelle vere, povere, fatiscenti e malsane. Eppure, di turisti non ce ne sono molti, solo 17 mila. Non sono neanche ammessi charter dall’estero. Ma in compenso gli addetti ai lavori, giornalisti, cronisti, calciatori, allenatori e allegra combriccola, sono più di 50 mila. Tutti sotto controllo o quasi.

 

Intanto, tanto per non perdere il vizio, vengono arrestate più di 200 persone al giorno per evitare che parlino con i giornalisti stranieri. Ma ci sono, soprattutto, quelle donne che manifestano in piazza con le foto. Donne sole, stanche, rose dal dolore e dall’angoscia, coriacee e disperate, la cattiva e sporca coscienza di un regime che le vorrebbe invisibili e atone, ma che invece ci sono, resistono, determinate. Determinate e sole. Il vuoto di una nazione pallonara attorno.

 

Tutto folklore, dice il regime. Nessuno manca all’appello. E chi manca è perché se n’è andato via spontaneamente. Che colpa ne abbiamo noi, se la gente espatria per lavoro o per inseguire un sogno, magari un sogno in gonnella? Ci capite, voi, italiani, vero? Certo, che sì… Il torneo – parliamo del torneo piuttosto – costa. Quanto? Intorno agli 800 milioni di dollari. Bisogna fare bella figura, no? Voi cosa fareste al posto nostro. Beh, lo stesso… Ecco, allora, tutto sistemato, no? Sì, certo, ma il colpo di stato, le voci sulla gente che scompare, l’economia che scricchiola… Eh, cari italiani, sono voci messi in giro dai comunisti.

 

Voi li conoscete, no? Tre mesi fa non hanno ucciso un illustre statista da voi? Sì, c’è un governo di militari, ma per salvare il paese dall’anarchia dei comunisti, dei disfattisti, di quelli che non vogliono il progresso, ma lavorano per corrompere i costumi… Certo, capiamo… E così, mentre capiamo e la gente continua a scomparire, ad essere torturata con gli elettrodi ai testicoli e alle mammelle, mentre si intensificano i voli della morte per scaraventare i ragazzi nell’Atlantico dopo averli narcotizzati, i generali se la godono in tribuna. L’Argentina è proiettata verso il futuro: così dicono i militari. Strade nuove, aeroporti moderni, stadi sfavillanti, popolo entusiasta. Cosa volte di più? Per l’occasione, anche la censura viene ammorbidita. Ma non serve. I giornali si censurano da soli: meglio così, l’avrebbero pagata dopo, altrimenti. Cos, ad esempio, durante il discorso per la cerimonia inaugurale, a Cordoba, sul tabellone elettronico – nuovissimo anch’esso – compare il disegno di un carro armato. Nessun giornale, però ne dà notizia. Finora solo l’Italia, la nazionale italiana, quella che, alla fine porterà più tifosi allo stadio (9 milioni) ha dato un dispiacere ai padroni di casa.

 

Si arriva alle semifinali. Nel gruppo A sono accorpate la rivelazione Italia, la sempiterna Germania Ovest, l’Olanda dell’armonia totale, ma che, nella fase eliminatoria, è inciampata con il Perù (0-0) e scivolata con la strabiliante Scozia (3-2), e la sorprendente Austria. Nel gruppo B sono acquartierate Argentina, Polonia, Brasile e Perù. Chi andrà avanti? Il 14 giugno, Italia e Germania si arrotolano nella noia. Sbadigli e 0-0. Lo stesso giorno l’Olanda vince in carrozza contro i malcapitati austriaci: 5-1, con doppietta di Rep e gol di Brandts, Rensenbrink, e Willy Van de Kerkhof. Poesia.

 

Nell’altro girone, sempre lo stesso giorno 14, gli argentini liquidano 2-0 la Polonia, mentre il Brasile di Dirceu (2 gol) e Zico (1) smeriglia il Perù: 3-0 e tanti saluti.

 

Quattro giorni di riposo. Il regime gongola sempre più. Gli argentini sono travolti dalla propaganda: di nulla si parla se non di Copa Mundial, gol, assist. Solo qualche giornale di sinistra, all’estero, invita Passarella, Tarantini, Kempes, a dire qualcosa sulla repressione del regime, sugli squadroni che scorazzano nelle città rastrellando e facendo scomparire centinaia di persone. Nessuno dice ba. Neanche la Chiesa, che, anzi – si saprà in seguito – sarà un validissimo aiuto per i macellai in divisa. Bon, il 18 si riattacca. Secondo giro.

 

L’Italia batte l’Austria con uno striminzito, ma meritato 1-0 (Rossi, 12’), la Germania e l’Olanda fanno 2-2. Nel girone B, il derby latino-americano Brasile e Argentina finisce a reti vergini: 0-0. La Polonia batte il Perù, che dice addio al Mondiale, mentre i polacchi si possono giocare l’ultima chance nella partita conclusiva contro il Brasile. Ed il 21 giugno è il giorno dei verdetti. Nel primo girone, l’Austria detronizza la Germania: 3-2, con Krankl che fa il guappo in campo. Ma la partita clou, la nostra partita, è Italia-Olanda. Al 19’ un’autorete di Brandts fa sognare gli azzurri. Sembrava fatta. La finale era a portata di mano: bastava difendersi con ordine e tutto sarebbe andato per il meglio. Ma all’inizio delle ripresa, lo stesso Brandts, spintosi in avanti, pareggia: 1-1.

 

L’Italia appare stanca, corre poco, i centrocampisti chiudono con fatica, gli attaccanti si fanno vedere meno del sole in inverno. L’Olanda, invece, cresce. Non sembra proprio quella dei giorni migliori, ma sa ancora elaborare trame, tessere l’ordito del gioco. La gente tifa Italia. Il sogno è la finale Italia-Argentina. Da sempre. Dall’assegnazione del Mondiale alla nazione dei pampas. E dura fino al 76’, il sogno. Fino al tiro da quaranta metri, o giù di lì, di Haan che Zoff guarda impotente infilarsi sotto il set alla sua sinistra. 2-1: Olanda in Paradiso, Italia in ginocchio. Zoff nell’occhio del ciclone: che cosa guardava, le farfalle? A casa bisognava mandarlo. Anzi, neanche farlo giocare. Dimentichi che fino a quel momento il portiere azzurro si era comportato più che egregiamente, i 50 milioni di cittì nostrani gettarono su di lui la colpa della sconfitta nella semifinale. Vabbè, c’è la finale per il terzo posto, ma quella finale è? E’ la finale dei fessi…

 

E non vale a mitigare la delusione la considerazione che l’Italia, comunque, è arrivata lì contro ogni pronostico: chi avrebbe potuto immaginarsi, il 2 giugno, una marcia del genere?

 

Ma la cosa interessante accade nell’altra semifinale. Ora, c’è da dire che, in virtù dei risultati maturati fino a quel punto, Argentina e Brasile sono entrambe prime nel girone, con 3 punti (la vittoria, vale ancora due punti). Segue la Polonia con 2, ultimo il Perù con 0. Tuttavia, per la differenza reti, i verde-oro carioca sono avanti. Hanno segnato tre gol ai peruviani, mentre gli argentini ne hanno fatti solo due ai polacchi. Decisiva diventa l’ultima partita. Senso di giustizia e della correttezza richiederebbero che le due partite, Brasile-Polonia e Argentina-Perù, si svolgano in contemporanea. E’ il minimo. Ma è il minimo che spesso consuma ed è sul minimo che si scommette la credibilità delle cose più importanti del mondo…

 

E, in quell’occasione il minimo passa in cavalleria, incredibilmente. E con l’avallo della FIFA. Nel pomeriggio giocano i brasiliani e vincono per tre reti a uno. La sera, quando ormai si sa abbondantemente il risultato dell’altra gara, si gioca Argentina-Perù. A questo punto, è necessario fare un salto in avanti di quasi trent’anni. Nel 2007, Fernando Rodriguez Mondragòn, figlio di Gilberto Rodriguez Orejuela, uno dei boss più potenti del narcotraffico colombiano, in un libro dal titolo El hijo del Ajedrecista (Il figlio dello Scacchista, il soprannome, quest’ultimo, dell’amato paparino), rivela alcuni interessanti retroscena di quella partita, passata alla storia come la marmelada peruana, la marmellata peruviana. Cosa accadde in quei giorni argentini di metà giugno? Parecchie cose. Stando alla confessione di Fernando Rodriguez Mondragòn, il paparino e lo zio Miguel, che erano, sì, colombiani, ma non sordi alle richieste di aiuto degli amici argentini, avrebbero portato una quantità imprecisata – ma enorme – di denaro frusciante alla squadra andina per corromperla garantendo la qualificazione alla finale dei bianco-celesti.

 

Ma non è questo l’unico episodio dubbio. Un giocatore peruviano, il centrocampista José Velasquez, qualche annetto dopo, racconterà di come, prima della partita, vi sia stata una strana visita del generale Jorge Videla, accompagnato dal segretario di Stato americano Henry Kissinger, negli spogliatoi peruviani. E di come - sicuramente per pura coincidenza - dopo quella visita, il tecnico andino Marcos Calderon abbia deciso di rimettere in formazione il portiere Ramon Quiroga Arancibia, argentino di Rosario naturalizzato peruviano l’anno precedente, da qualche partita in naftalina. Ma non è ancora finita. Come raccontò il giornalista del The Sport Monthly Tim Pears, il governo argentino, poco prima della partita, fece partire un carico di un milione di tonnellate di grano verso il Perù ed aprì una linea di credito di 50 milioni di dollari a favore degli amici di Lima. Tutte queste lubrificazioni hanno un unico effetto: fanno spalancare la porta di Quiroga. Per sei volte. 6 a 0 e Argentina in finale. Con buona pace dei farlocchi brasiliani…

 

Il 24 giugno, la finale per il terzo posto vede l’Italia sconfitta dal Brasile: 2-1 e nuovo gol da distanza siderale incassato da Zoff. E’ vecchio, è orbo, è stranito, è rincoglionito. I commenti e gli insulti al portierone azzurro si sprecano. Quattro anni dopo, in Spagna, tutti i critici dovranno rimangiarsi le contumelie. Comunque, l’Italia è quarta. E’ arrivata sino in fondo, almeno.

 

L’indomani, all’Estadio Monumental di Buenos Aires, davanti a più di 71 mila spettatori, va in scena la tanto attesa serata del trionfo. Trionfo deve essere. Trionfo sarà. Ad arbitrare un vecchio lupo di mare italiano: il signor Sergio Gonella, alla sua ultima partita in nero. In tribuna tutta Videla. Accanto a lui Agosti. E poi il gotha della P2. L’altro golpista, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, il responsabile dell’ESMA, la Scuola Meccanizzata della Marina, dove avvenivano le torture più atroci, Licio Gelli, ex repubblichino e maestro venerabile della Loggia massonica eversiva, e Rafael Luis Rega, ex ministro dell’Interno di Isabelita Peron e inventore della Triple A (Alianza Anticomunista Argentina), gli squadroni della morte. Quando l’arbitro Gonella fischiò il calcio d’inizio, la vita si fermò in tutto il paese. Generali, colonnelli, capitani, ammiragli, militari con sul petto più croci di un cimitero di guerra prussiano. La vita e le attività. Anche le attività dei boia dell’ESMA.

 

Tutti con gli occhi fissi agli schermi televisivi, tutti in trepidazione per la nazionale bianco-celeste. Per 120 minuti (ché ci furono i supplementari) la vita e la morte si arrestarono. Come in attesa del giudizio universale. Era accaduto lo stesso durante le precedenti partite della nazionale argentina. Si fermarono anche questa volta le picanas appuntite che tormentavano i ’sovversivi’ con corrente elettrica, spesso attaccate agli organi genitali, alle gengive, ai capezzoli, alle piante dei piedi. Furono sospese le violenze sessuali, le immersioni forzose nell’acqua sporca fino a far scoppiare i polmoni o quelle negli escrementi. Subirono una breve moratoria anche i voli della morte, i voli degli aerei militari che scaraventavano in mare, nell’Oceano, uomini e donne pestati, vilipesi, torturati, violentati, narcotizzati. Ma vivi. Che morissero annegati come i topi!

 

La partita si mette subito bene per i padroni di casa. L’arbitraggio non tarda a rivelarsi non particolarmente benevolo coi tulipani. Forse non è un caso che, dopo quella partita, Sergio Gonella deciderà di appendere le scarpe al chiodo. Ma tant’è. Al 38’Mario Alberto Kempes, taglia l’area di rigore orange con la sua capigliatura da Beatles e insacca alle spalle di Jongbloed: 1-0. L’Olanda non ci sta. Comincia a macinare gioco. Occasioni su occasioni. Niente. L’Argentina si difende a fatica, ma si difende. E dove non arrivano Tarantini, Passarella e compagni, arriva il fischio dell’arbitro: fuorigioco, fallo in attacco, calcio d’angolo negato, nel contrasto in area di rigore il difensore ha sempre ragione e così via… Gli argentini assaporano la vittoria, el triumpho. Ma a 8 minuti dalla fine, Nanninga, entrato al 59’ al posto di Rep, trova lo spiraglio giusto: 1-1 e gelo sul Monumental. Dick Nanninga, attaccante del Roda, per la cronaca, giocò solo quella partita in nazionale.

 

Anzi, per essere coretti, giocò solo 61 minuti, supplementari compresi. 61 minuti in una finale mondiale e un gol. Quando si dice il destino… Ai supplementari, dunque. Proprio alla fine del primo tempo, al 105’, il solito Kempes fa centro nuovamente, nel tripudio generale, tra coriandoli e ululati di gioia, boati di orgoglio e visioni mistiche del destino sotto forma di numero 11, il numero dell’attaccante. Al 116’, poi, Daniel Bertoni pone la parola fine all’epopea: 3-1 e Argentina campione. Poco dopo, il capitano Daniel Passarella riceve dalle mani insanguinate di Videla la Coppa col globo tra l’esultanza generale. Solo gli olandesi si rifiutano di stringere le mani ai dittatori e così Cruijff, Krol, Rensenbrink, i Van de Kerkhof, Brandts filano via quatti quatti, senza concedere a quel baffo sopra il cimitero di croci e medaglie di aureolarsi con un ipocrita sorriso di compatimento. Forse si saranno rabbuiati – oltre che per la sconfitta - per essersi prestati al gioco della propaganda di regime. E, chissà, avranno pensato anche a Cruijff, l’uomo del coraggioso no. Lo stesso no che aveva pronunciato, il vero capitano dell’Argentina, Jorge Carrascosa. Un’imprendibile ala destra, dell’Hurracan, che, per non avere nulla da spartire coi golpisti, aveva rifiutato la convocazione del flaco Menotti all’ultimo minuto. Gli altri festeggiano. Anche Menotti, che, pare avesse imposto ai suoi giocatori di non rivolgere il saluto, ad inizio gara, alle tribune d’onore affollate di stellette e divise.

 

Dopo, tutto riprende. Anche le torture, gli omicidi, i sequestri e i voli della morte. In un mese, Argentina ha mostrato al mondo cos’è capace di fare, in un campo di calcio. Nessuno, invece – né dentro né fuori lo stato sudamericano - ha voluto o saputo ascoltare le voci dei disperati, dei terrorizzati, delle madri, delle sorelle, dei fratelli ancora alla ricerca angosciosa dei propri cari scomparsi senza perché, senza speranza. Violenza brutale, violenza oscena, violenza perversa di una dittatura imbelle, che sarà spazzata via da una stupida guerra, figlia di una mossa idiota di un regime ottuso. Ma ci vorrà ancora un lustro perché anche il mondo venga messo definitivamente di fronte alle proprie responsabilità. E ne resterà come stranito. Stupito e vergognoso, forse, per la codardia dimostrata. Una volta di più. Di certo, non può dirsi scandalizzato. E l’Italia, figurarsi, più di altri.

 

Intanto, in quel 1978, forse 50 milioni di mani argentine – come recitano alcuni manifesti di regime - sollevano la coppa del mondo. Ma quante di queste, sono ancora insanguinante e quante segnate dalle torture, piagate dal filo spinato, spezzate dalla furia degli aguzzini, quante hanno inutilmente implorato pietà e quante, infine, non avrebbero fatto più ritorno a casa, ingoiate dall’abisso, svaporate nel nulla? Ma, la Coppa è argentina. Tutto il resto, pare, è secondario. Vissuto quasi con fastidio. Soprattutto da chi, non essendo argentino, accetta di partecipare, spensierato e ottuso.

 

Marionette garrule e vuote sul palcoscenico di un evento pensato, usato e, manipolato dalla propaganda di regime in maniera così sfacciata e arrogante come non si vedeva dai tempi dell’Olimpiade berlinese del 1936.


 

 

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