N. 139 - Luglio 2019
(CLXX)
LE NOSTRE MOLTEPLICI IDENTITÀ
problematiche
attuali
di
Titti
Brunori
Zezza
Come
un
corso
d’acqua
che
in
un
territorio
carsico
improvvisamente
scompare
per
poi
riaffiorare
più
avanti
senza
preavviso,
così
il
tema
della
propria
identità
che
accompagna
l’uomo
da
sempre
è
nel
corso
del
tempo
più
volte
emerso
e
poi
apparentemente
scomparso.
Di
questi
giorni
in
Europa
esso
è
tornato
nuovamente
in
superficie
e ha
acceso
i
nostri
animi,
ma
volendo
riflettere
un
poco
su
tale
argomento
la
prima
domanda
che
ci
dobbiamo
porre
è di
quale
identità
si
discute
oggi.
Infatti
se
riteniamo
che
l’identità
di
un
individuo
non
coincida
unicamente
con
la
sua
appartenenza
a
una
nazione
o a
uno
specifico
territorio
geografico
oppure
che
non
sia
legata
al
solo
luogo
di
nascita
o
alla
lingua
che
si
parla
o
alla
religione
che
si
professa,
allora
emergerà
da
subito
che
essa
può
essere
senz’altro
anche
in
un
solo
individuo
multipla
e
ricca
di
sfaccettature.
Durante
il
secolo
scorso
negli
Usa
sorsero
movimenti
politici
che
si
batterono
per
difendere
da
ingiustizie
sociali
anche
alcune
identità
di
gruppo
come
quelle
legate
al
femminismo
o
alla
omosessualità,
e
altri
movimenti
si
impegnarono
per
veder
riconosciuti
appieno
i
diritti
civili
dei
neri
e
dei
nativi
americani.
Sempre
nel
secolo
scorso,
a
partire
dal
1958,
in
Europa
una
organizzazione
terroristica,
l’ETA,
con
le
sue
plurime
azioni
sanguinose
in
difesa
della
specifica
identità
dei
Paesi
Baschi,
turbò
non
poco
il
popolo
spagnolo.
Oggi
di
fronte
ai
frequenti
flussi
verso
il
nostro
continente,
dall’Africa
e
dal
Medio
Oriente,
di
migranti
“economici”
e di
uomini
in
fuga
dai
conflitti,
una
componente
della
nostra
società
occidentale
ha
cominciato
a
manifestare
un
notevole
disagio
sentendosi
minacciata
dapprima
nei
propri
interessi,
ma
poi
addirittura
nella
propria
identità.
La
devastante
crisi
finanziaria
risalente
a un
decennio
fa
che
colpì
in
particolar
modo
il
ceto
medio-basso
ha
innescato
tale
disagio,
ma
come
rileva
il
politologo
americano
Francis
Fukuyama
in
un
suo
recente
scritto
(Identità.
La
ricerca
della
dignità
e i
nuovi
populismi,
Utet
2018)
il
risentimento
che
connota
oggi
questa
categoria
di
persone
non
deriva
solo
dalle
profonde
disparità
economiche
innescate
dalla
globalizzazione
dei
mercati,
bensì
dalla
percezione
che
sia
la
propria
identità
e
più
in
generale
quella
del
proprio
gruppo
di
appartenenza
a
essere
messa
in
pericolo.
Non
è
tanto
il
desiderio
di
possedere
maggiori
ricchezze
che
sommuove
gli
animi
di
quelle
persone,
ma
il
fatto
che
il
denaro
viene
percepito
oggi
più
che
mai
come
segno
di
stato
sociale
e
come
ciò
che
può
far
acquisire
il
rispetto
della
propria
dignità.
Se
la
propria
identità
non
riceve
un
riconoscimento
adeguato
in
tal
senso
viene
minata
l’autostima
dell’individuo
medesimo
che
entra
in
crisi.
Ovviamente
la
ricerca
spasmodica
del
proprio
benessere
e di
risorse
materiali
risulta
riduttiva
rispetto
alla
complessità
del
concetto
di
identità,
ma
tant’è:
questo
è
oggi
il
sentire
comune
di
molte
persone.
I
vari
appelli
alla
coesistenza
pacifica
rischiano
di
suonare
ipocriti
per
chi
si
sente
oggi
bisognoso
di
sicurezza
e
ritiene
prioritario
combattere
quelli
che
per
lui
sono
i
potenziali
suoi
nemici,
per
cui
si
assiste
al
fenomeno
di
una
strisciante
regressione
a
una
identità
addirittura
biologica
e
primitiva.
A
nulla
vale
da
parte
di
alcuni
organi
di
informazione
sottolineare
l’esiguità,
malgrado
tutto,
del
fenomeno
migratorio
che
sta
investendo
l’Europa.
Paragoniamolo
in
contrapposizione
a
quello
subito
dal
piccolo
Libano
che
in
questi
ultimi
anni
ha
offerto
ospitalità
a
circa
due
milioni
di
rifugiati
siriani
in
fuga
dalla
guerra.
Una
percezione
distorta
del
fenomeno
migratorio,
alimentata
da
una
martellante
denuncia
di
violazioni
del
proprio
territorio
da
parte
di
piccoli
gruppi
di
migranti
che
assumono
il
carattere
di
invasioni,
ha
portato
da
parte
di
singoli
Stati
a
reazioni
abnormi
e
alla
scelta
di
soluzioni
inefficaci
a
gestire
un
fenomeno
che
affonda
le
sue
radici
in
un
lontano
passato.
A
suo
tempo
Fernando
Savater
asseriva,
a
proposito
del
mito
nazionalista
che
all’inizio
di
questo
millennio
non
sembra
purtroppo
ancora
essersi
dissolto,
la
necessità
di
contrastarne
l’ideologia
con
la
forza
della
verità.
La
crescita
rapida
e
disordinata
delle
informazioni
derivanti
dalla
cultura
digitalizzata
ha
favorito
il
diffondersi
di
false
verità
che
danneggiano
gli
individui
in
quanto
essi
perdono
progressivamente
l’abitudine
a
ragionare
e a
trovare
la
vera
verità,
che
era
per
i
greci
a-letheia,
vale
a
dire
non
nascondimento,
consentendoci
di
non
essere
ingannati.
Se
impariamo
invece
a
decifrare
i
fatti,
a
misurare
il
peso
della
Storia
mettendo
in
relazione
gli
eventi
del
passato
con
il
nostro
presente,
ne
guadagneremo
in
oggettività
di
giudizio.
I
nostri
sono
tempi
agitati
e
accelerati
e
l’accelerazione,
togliendo
valore
al
passato,
ci
schiaccia
sul
presente.
Ecco
quindi
il
motivo
per
cui
la
Storia
può
riacquistare
un
ruolo
centrale
nel
dibattito
politico,
culturale
ed
etico
dei
nostri
giorni.
Proviamo
a
riandare
all’opera
di
Virgilio
che
possiamo
dire
essere
stato
il
primo
grande
cantore
dell’emigrazione.
Egli
nella
sua
Eneide
ha
magistralmente
rappresentato
nelle
più
sfumate
variazioni
la
fatica
di
chi
è
per
motivazioni
diverse
costretto
a
emigrare,
compresa
quella
di
doversi
rapportare
con
l’alterità
dei
propri
simili.
L’abbandono
della
madrepatria
da
parte
di
Enea
è
emblematicamente
quello
di
tutti
coloro
ai
quali
può
capitare
di
aver
bisogno
di
accoglienza.
Il
suo
inevitabile
viaggio
per
mare,
quel
Mediterraneo
cosiddetto
“Mare
Nostrum”
semplicemente
per
contrapporlo
all’estraneo
e
infido
Oceano,
e
che
di
questi
tempi
è
teatro
di
tante
traversate
di
migranti,
diventò
per
quei
profughi
occasione
di
iniziazione
al
pericolo
di
tali
spostamenti
e
alla
frequente
inospitalità
dei
propri
simili
nei
loro
confronti,
allora
come
oggi.
E da
sempre
si
va
ripetendo
quella
reazione
di
rigetto
ogni
volta
che
un
nuovo
flusso
di
migranti
“invade”
un
Paese.
Questo
fenomeno
si è
verificato
agli
inizi
del
Novecento
negli
Usa
anche
con
gli
immigrati
italiani
e in
Italia,
poco
più
di
cinquant’anni
fa,
la
cosa
si è
ripetuta
con
la
grande
immigrazione
che
dal
Veneto
e
dal
Meridione
trasferì
masse
di
contadini
in
fuga
dalla
loro
terra
ingrata
verso
Lombardia,
Liguria,
Piemonte,
il
triangolo
industriale
del
boom
economico
postbellico,
nonostante
lo
vietassero
le
leggi
per
chi
non
fosse
lavorativamente
regolarizzato.
E si
è
ripetuta
poi
nuovamente
con
l’emigrazione
degli
italiani
verso
la
Svizzera.
Perché
il
fenomeno
di
rigetto
si
attenuasse
sino
a
venire
assorbito
è
stato
necessario
che
passasse
una
o
più
generazioni.
Ma
ogni
volta
la
reazione
prima
è
stata
quella
di
rifiutare
il
diverso,
come
succede
oggi,
chiudendo
le
frontiere,
alzando
muri
e
chiudendo
porti.
Proprio
di
questi
tempi
in
cui
pareva
che
in
Europa
gli
Stati
nazionali
fossero
in
via
di
superamento
ci
si
smarrisce
di
fronte
alla
faticosa
gestione
di
questi
ultimi
flussi
migratori,
mentre
in
Africa
e in
Medio
Oriente
stanno
entrando
in
crisi
gli
Stati
artificiali
lasciati
in
eredità
dal
colonialismo.
Non
si è
in
grado
di
trovare
in
sintonia
con
i
partners
europei
soluzioni
praticabili
e
adeguate
a
tutelare
nel
contempo
il
proprio
territorio
e la
dignità
umana
dei
migranti.
Eppure
la
specie
umana
sin
dai
tempi
più
lontani
si è
inevitabilmente
spostata
alla
ricerca
di
nuovi
territori
più
ospitali
e di
migliori
opportunità
di
vita,
contribuendo
in
seguito
ad
accrescere
lo
sviluppo
economico
dei
Paesi
ospitanti.
Sappiamo
che
la
“vecchia”
Europa,
e
l’Italia
nello
specifico,
hanno
oggi
bisogno
di
forza
lavoro
e
già
da
tempo
noi
utilizziamo
braccia
di
uomini
“invisibili”,
nella
maggior
parte
dei
casi
sottopagati
e
senza
tutele,
per
migliorare
la
produttività
delle
nostre
aziende,
ma
dimentichiamo
che
tutti
costoro
di
cui
ci
avvaliamo
sono
stati
migranti
approdati
da
noi
in
tempi
diversi.
Chi
lancia
sassate,
come
è
avvenuto
di
recente
nel
foggiano,
contro
i
lavoratori
immigrati
che
raccolgono
i
nostri
pomodori,
è
vittima
del
razzismo
e
della
xenofobia
derivanti
da
quel
sovranismo
attuale
che
è
figlio
della
plurisecolare
idea
nazionalista.
Spinti
da
quel
senso
di
insicurezza,
e
quindi
di
chiusura
sociale
che
certi
effetti
negativi
della
globalizzazione
ha
determinato
in
loro,
essi
vogliono
cristallizzare
la
propria
identità
nel
loro
piccolo
mondo
conosciuto
e
apparentemente
immutabile
per
non
smarrire
il
senso
di
sé.
Ma
la
Storia
ci
insegna
che
il
mondo
sociale
cambia
inevitabilmente
e
anche
le
nostre
identità
non
sono
date
e
immutabili,
ma
si
sono
formate
nel
corso
dei
secoli
in
un
gioco
incessante
di
intrecci.
Oggi
17
milioni
di
cittadini
dell’
Unione
Europea
risiedono
in
paesi
diversi
dal
proprio
e
spesso
hanno
incombenze
lavorative
scarsamente
qualificate.
Sono
europei
ad
alta
mobilità
per
i
quali
non
è
necessario
scegliere
tra
una
identità
e
l’altra,
ma
al
contrario
ritengono
che
sommarle
li
arricchisca.
Il
multiculturalismo
perseguito
convintamente
da
Alessandro
Magno
in
quell’epoca
ellenistica
ricca
di
stimoli,
traeva
spunto
da
una
prima
idea
di
globalizzazione
e
avviava
un
grandioso
progetto
di
fusione
interetnica
dettato
dall’ambizione
di
superare
gli
steccati
delle
identità
nazionali.
Oggi
la
globalizzazione,
malgrado
certi
effetti
negativi,
sembra
essere
l’unica
vera
soluzione
praticabile
se
riteniamo
che
per
una
convivenza
possibile,
oltre
gli
scambi
commerciali
sia
proficuo
senz’altro
per
tutti
perseguire
lo
scambio
libero
tra
individui
giuridicamente
uguali
e
dotati
di
uguali
diritti
e
opportunità,
in
contrapposizione
al
ripristino
di
quegli
steccati
divisori
tra
etnie,
nazioni,
religioni,
razze
che
hanno
connotato
tragicamente
la
nostra
storia
passata.
Oggi
l’Europa
con
i
molti
suoi
difetti
e le
sue
fragilità,
il
suo
passato
autodistruttivo
e la
sua
decadenza,
è il
più
sicuro
spazio
continentale
del
pianeta,
il
più
civile
e
democratico,
ma è
anche
roso
nel
rapporto
tra
i
suoi
Stati
membri
da
particolarismi
e
grettezze
che
rallentano
quel
processo
di
integrazione
avviato
dai
padri
fondatori.
In
occasione
della
sua
recente
nomina
la
Presidente
della
Commissione
Europea
ha
ricordato
agli
Stati
membri
che
tutti
oggi
ci
troviamo
ad
affrontare
sfide
enormi,
dal
cambiamento
climatico,
alla
digitalizzazione
del
lavoro,
alla
globalizzazione
dell’economia,
ai
mutamenti
demografici,
e
che
esse
richiedono
unità
d’intenti
e
scelte
convinte
derivanti
da
valori
condivisi,
se
vogliamo
vincerle.
Ha
parlato
di
principi
irrinunciabili
e di
regole
certe
a
cui
fare
riferimento
nel
prossimo
futuro.
Per
quanto
concerne
i
flussi
migratori
ha
ribadito
che
lo
stato
di
diritto
è
universale,
che
si
applica
a
tutti
e
che
di
conseguenza
c’è
il
dovere
legale
e
morale
di
rispettare
la
dignità
di
ogni
essere
umano.
Ma
tenendo
presente
le
legittime
preoccupazioni
di
molti
nei
confronti
degli
attuali
migranti
ha
esplicitamente
dichiarato
che
dobbiamo,
sì,
salvare
vite
umane
in
quel
Mar
Mediterraneo
che
è
diventato
uno
dei
confini
più
mortali
del
mondo,
ma
dobbiamo
anche
ridurre
la
migrazione
irregolare,
dobbiamo
combattere
i
trafficanti
di
esseri
umani
rei
di
crimini
organizzati
istituendo
un’Agenzia
Europea
per
le
Guardie
Costiere
e di
frontiera
rafforzata,
così
come
dobbiamo
anche
migliorare
la
situazione
dei
rifugiati
potenziando
i
corridoi
umanitari
e
modernizzando
il
nostro
sistema
di
asilo.
La
UE
ha
dei
confini
esterni,
ha
dichiarato,
che
potranno
essere
fatti
rispettare
solo
se
tutti
gli
Stati
membri
solidarizzeranno
con
quelli
che
subiscono
la
maggior
pressione
a
causa
della
loro
posizione
geografica.
Quindi
sarà
necessario
un
nuovo
patto
su
migrazione
e
asilo
partendo
da
un
ripensamento
di
quello
di
Dublino.
Basterà
questa
dichiarazione
di
intenti
della
nuova
Presidente
della
Commissione
Europea
a
contenere
l’ansia
di
chi
oggi
si
vede
minacciato
nella
propria
identità
dai
nuovi
venuti
e a
neutralizzare,
se
tradotta
in
realtà,
l’avversione
manifesta
ormai
di
molti
di
loro
nei
confronti
dello
straniero,
del
diverso?
E
pensare
che
in
un
tempo
ormai
lontano,
è
ancora
la
Storia
a
rammentarcelo,
un
generale
libico,
Settimio
Severo,
divenuto
imperatore
romano,
seppe
avviare
riforme
che
diedero
nuovo
vigore
all’
Impero
romano.
Alla
sua
dinastia
la
nostra
capitale,
Roma,
tributa
di
questi
tempi
un
omaggio
in
grande
stile
con
l’allestimento
di
una
mostra
intitolata:
“Roma
Universalis.
L’impero
e la
dinastia
venuta
dall’Africa”.