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N. 21 - Settembre 2009
(LII)
Ammodernare senza tradire
Il Modernismo e la Chiesa Cattolica
di Lawrence M.F. Sudbury
Dopo
quasi
due
secoli
di
relativa
calma,
la
teologia
di
fine
‘800
–
inizio
‘900
fu
sconvolta
da
una
grande
ondata
di
rinnovamento
che,
pur
nelle
sue
composite
manifestazioni,
passò
alla
storia
con
il
nome
collettivo
di
“Modernismo”.
A
dire
il
vero,
tale
termine
fu
coniato
a
posteriori
e in
senso
dispregiativo
da
uno
dei
maggiori
nemici
della
corrente,
quel
papa
Pio
X
che,
nel
1907,
nell’enciclica
Pascendi
Dominici
Gregis,
volle
con
esso
indicare
ed
accomunare,
non
senza
un
certo
sarcasmo,
tutti
quei
sistemi
di
pensiero
volti
a
“modernizzare”
i
dettami
di
una
Chiesa
che,
secondo
lui,
dovevano
invece
essere
eterni
ed
intoccabili,
mentre
gran
parte
dei
“modernisti”
non
si
videro
mai
neppure
come
un
gruppo
unitario.
Le
radici
del
movimento
erano
da
ricercare
tanto
nel
passato
che
nel
presente
del
sistema
culturale
europeo-occidentale.
Per
quanto
riguarda
il
passato,
le
radici
ideologiche
più
remote
riposavano
certamente
in
quel
substrato
ideologico
che,
con
l’Umanesimo
pre-rinascimentale
e
rinascimentale,
aveva
tentato
riportare
la
visione
religiosa
su
un
piano
più
prossimo
alle
esigenze
quotidiane
dei
fedeli
e,
con
l’Illuminismo,
aveva
cercato
di
razionalizzare
numerose
istanze
teologiche.
Se
questi
elementi
ideologici
di
fondo
formavano
il
background
da
cui
potevano
scaturire
i
sentimenti
relativi
alla
necessità
di
un
cambiamento
del
monolitico
“magisterium”
cattolico,
furono,
comunque,
alcuni
dati
più
prossimi
e
cogenti,
sia
di
stampo
sociale
che
teologico,
che
portarono
allo
sviluppo
concreto
di
una
richiesta
di
ammodernamento.
Dal
punto
di
vista
sociale,
i
teologi
di
maggior
rilievo
avevano
da
tempo
cominciato
ad
interessarsi
dei
sistemi
filosofici
contemporanei,
abbandonando
un
interesse
esclusivo
per
la
Scolastica:
questo
passaggio
aveva
permesso
loro
di
confrontarsi
con
sistemi
di
pensiero
anche
non
cattolici.
Nel
continente
americano
e in
particolare
negli
Stati
Uniti,
poi,
gli
ecclesiastici
erano
circondati
da
una
cultura
fondamentalmente
laica
e
secolare,
ammantata,
fin
dal
periodo
coloniale,
da
un
certo
sentimento
anti-cattolico
che
portava
ad
una
specie
di
necessità
da
parte
loro
di
inserirsi
nella
società,
anche
a
costo
di
mettere
in
discussione
alcuni
elementi
del
loro
credo:
così,
documenti
quali
il
Sillabo
degli
Errori,
che
condannava
fermamente
la
separazione
Chiesa
-
stato,
iniziarono
ad
essere
sempre
più
largamente
ignorati,
mentre
l’inserimento
di
valori
secolari
negli
insegnamenti
religiosi
permise
un
sempre
maggior
contatto
con
il
popolo,
provocando,
nel
tempo,
lo
sviluppo
di
un
clero
la
ci
scala
di
valori
aveva
connotazioni
ampiamente
laiciste.
Si
andò
così
diffondendo,
in
America
e,
di
riflesso,
in
Europa,
l’idea
che
una
“evoluzione
del
dogma”
fosse
possibile
ed
anzi
auspicabile
e
che,
conseguentemente,
anche
la
morale
cattolica
potesse
subire
aggiornamenti,
purché
non
in
contraddizione
con
alcuni
fondamentali
nuclei
di
fede.
Tale
atteggiamento
ebbe
larga
presa
in
particolare
nei
circoli
degli
intellettuali
cattolici
francesi
e
britannici
e,
seppur
con
una
minor
estensione,
anche
in
quelli
italiani.
Indubbiamente,
su
tale
visione,
così
come
sul
molte
idee
che
portarono
alla
nascita
del
Modernismo
ebbe,
dal
punto
di
vista
teologico,
una
notevole
influenza
anche
il
pensiero
di
alcuni
studiosi
protestanti,
in
particolare
degli
appartenenti
alla
cosiddetta
“Scuola
di
Tubinga”.
Era
questa
una
scuola
esegetica,
sorta
verso
la
metà
del
XIX
secolo
e
diretta
da
Ferdinand
Christian
Bauer,
che,
influenzata
dalla
dialettica
hegeliana,
tendeva
a
mettere
fortemente
in
discussione
l’elemento
soprannaturale
nel
Vangeli
e ad
applicate
come
criterio
filologico
di
autenticità
neotestamentaria
la
presenza
di
una
presunta
conflittualità
teologica
tra
Chiesa
ebraica
primitiva
(o
“Chiesa
petrina”)
e
Chiesa
dei
gentili
(o
“Chiesa
Paolina).
Frutto
principale
delle
loro
ricerche
fu
la
Vita
di
Gesù
di
David
Friedrich
Strauß
(1836)
ma,
ben
presto,
criticata
da
più
parti
per
la
rigidità
dei
suoi
metodi,
la
Scuola
perse
d’importanza
anche
in
ambito
evangelico.
Ciò
che
rimase
fu,
comunque,
l’apertura
alla
possibilità
di
una
lettura
contenutistico
–
evangelica
di
stampo
materialistico,
che,
indubbiamente,
nonostante
alcuni
filologi
modernisti
quali
George
Tyrrel
negassero
in
seguito
di
aver
tratto
ispirazione
da
tale
metodologia,
influenzò
la
revisione
storico
–
critica
sviluppata
da
alcune
frange
cattoliche.
Se,
però,
un
vero
e
proprio
fondatore
del
“Modernismo”
(che,
lo
si
ripete
ancora,
non
fu
comunque
una
corrente
unitaria)
deve
essere
rinvenuto,
questi
altri
non
può
essere
che
il
sacerdote
e
(che
poi,
a
seguito
di
scomunica,
abbandonò
l’abito)
e
teologo
Alfred
Firmin
Loisy.
Nato
nel
1858
e
ordinato
nel
1879,
egli
sviluppò
il
primo
elemento
di
rottura
con
l’insegnamento
cattolico
quando,
insegnante
di
ebraico
all’“Institut
Catholique”
di
Parigi,
pubblicò
(1881)
le
sue
famose
(o
famigerate)
“Cinque
Tesi”.
In
esse
egli
sosteneva
che:
il
Pentateuco
non
fosse
stato
scritto
da
Mosè;
i
primi
cinque
capitoli
della
Genesi
non
potessero
essere
in
alcun
modo
ritenuti
storici;
il
Nuovo
ed
il
Vecchio
Testamento
non
avessero
lo
stesso
valore
storico;
vi
fosse
stato
certamente
uno
sviluppo
nella
dottrina
religiosa
all’interno
delle
Scritture;
le
Sacre
Scritture
avessero
alcuni
limiti
che
le
accomunano
a
tutti
i
testi
del
mondo
antico.
Ovviamente,
tali
tesi
(per
altro
oggi
ormai
largamente
diffuse
anche
in
ambito
cattolico)
furono
immediatamente
osteggiate
da
parte
clericale,
tanto
Loisy
dovette
abbandonare
l’“Istitut”
e
andare
a
lavorare
presso
istituzioni
non
ecclesiastiche.
Dal
1901
,
un’altra
querelle
segnò
definitivamente
la
sua
vita:
quella
contro
il
testo
di
Adolf
Von
Harnack
Das
Wesen
des
Christentum.
Von
Harnak,
aveva
sostenuto
che
l’essenza
del
Cristianesimo
risiedeva
nella
relazione
tra
il
singolo
e
Dio,
rendendo
l’istituzione
della
Chiesa
assolutamente
non
necessaria.
Loisy
criticò
pesantemente
questa
affermazione,
ma
lo
fece
in
modo
tale
da
risultare,
quasi
paradossalmente,
ancor
più
offensivo
dell’autore
tedesco
nei
confronti
della
Chiesa
Cattolica:
in
una
serie
di
testi
scritti
tra
il
1901
e il
1903
(La
Religion
d'Israel,
Etudes
Évangéliques,
L'Evangile
et
L'Eglise,
Autour
d'un
Petit
Livre,
Le
Quatrième
Evangile)
egli,
infatti,
in
parte
rifacendosi
alle
idee
del
Cardinal
Newman,
asseriva
che
fosse
inevitabile
per
la
Chiesa
formarsi
ma
che
essa
non
era
affatto
nei
piani
di
Gesù
(che
anzi,
probabilmente,
non
era
neppure
conscio
della
propria
consustanzialità
con
il
Padre)
ed
era
stata
modellata
dal
Concilio
di
Nicea,
tradendo
la
visione
di
Cristo
sulla
Sua
missione
di
Messia
ebraico.
Dopo
numerosi
moniti
vaticani,
l’aver
ribadito
tali
idee
in
un
seguente
Les
Evangiles
Synoptiques,
gli
costò
la
terribile
scomunica
“Vitandus”,
che
pose
fine
ad
ogni
sua
relazione
con
la
Chiesa.
Non
miglior
fortuna
ebbe,
più
o
meno
nello
stesso
periodo,
il
pensiero,
più
strettamente
legato
all’ambito
morale,
di
un
altro
sacerdote
e
teologo
cattolico,
Lucien
Laberthonnière,
che,
prima
come
direttore
degli
“Annales
de
Philosophie
Chrétienne”,
poi
con
il
suo
Éssais
de
Philosophie
Religieuse
(1906),
condannato
e
messo
all’Indice
dalla
Chiesa,
tentò
di
formulare
concezioni
teologiche
che
si
distaccavano
dal
Magisterium
cattolico
del
tempo.
Nella
sua
visione
religiosa,
certamente
influenzata
dal
Blondel,
Laberthonnière
intuiva
la
fede
come
slegata
dalla
sottomissione
a
qualunque
autorità
ma
come
esperienza
intima
della
Grazia
e
partecipazione
alla
Vita
Divina
(per
altro
non
allontanandosi
di
molto
da
quello
che
sarà
uno
dei
risultati
più
importanti
del
Concilio
Vaticano
II)
. In
questo
senso,
ogni
legame
alle
“auctoritas”
dei
Padri
della
Chiesa
(primo
tra
tutti
Tommaso
d’Aquino,
da
lui
definito
“mostruosamente
aristotelico”
nella
sua
visione
di
un
Dio
egoista
e
impersonale,
cosa
che
provocherà
al
teologo
francese
più
di
un
problema
con
un
Vaticano
sostanzialmente
in
piena
restaurazione
tomista)
era
da
rigettare
in
nome
di
una
Rivelazione
che
va
ricercata
in
se
stessi,
nell’incontro
con
Dio
e
non
in
una
gerarchia
ecclesiastica
troppo
spesso
confusa
con
la
Chiesa
o in
una
idolatria
con
le
verità
dogmatiche
che
finiscono
per
nascondere
la
virtù
cristiana
per
eccellenza
della
carità.
Di
per
sé,
non
vi
era
nel
so
pensiero
una
vera
e
propria
rottura
con
i
dogmi,
ma
semplicemente
un
loro
superamento
in
nome
di
una
riscoperta
delle
radici
fondamentali
della
fede.
Era
comunque
abbastanza
per
un’accusa
di
modernismo
e
una
proibizione
del
Sant’Uffizio
(1913)
di
ogni
ulteriore
pubblicazione.
Sul
piano
politico,
il
nome
di
maggior
spicco
del
cosiddetto
“Modernismo
teologico”
fu
quello
del
sacerdote
italiano
Romolo
Murri.
Sacerdote
dal
1893
e
laureato
in
teologia
alla
Pontificia
Università
Gregoriana,
Murri
fu
uno
dei
fondatori
della
Fuci
e,
nel
1901,
insieme
a
Don
Luigi
Sturzo,
dalla
Democrazia
Cristiana
Italiana,
nucleo
costituente
di
un
formando
partito
cattolico.
Certamente,
all’interno
dell’
“Opera
dei
Congressi”
la
Democrazia
Cristiana
era
una
corrente
di
notevole
innovatività
che,
seppur
autorizzata
da
papa
Leone
XIII,
non
poteva
che
essere
vista
con
una
certa
ostilità
dal
suo
ben
più
conservatore
successore
papa
Pio
X,
ma
la
vera
causa
di
rottura
tra
Murri
e
Roma
fu
il
dibattito
intrapreso
a
partire
dal
1905,
sulle
pagine
di
“Cultura
Sociale”,
tra
il
sacerdote
e il
leader
socialista
Filippo
Turati.
Murri,
fin
da
subito,
mostrò
una
grande
apertura,
auspicando
un
dialogo
tra
le
parti
sulle
condizioni
dei
meno
abbienti
e,
soprattutto,
in
seguito,
sul
numero
del
medesimo
giornale,
scrisse
di
un
“cammino
che
si
potrebbe
fare
insieme
nelle
agitazioni
popolari,
nelle
amministrazioni
locali
ed
eventualmente
a
Montecitorio”.
Pio
X,
che
già
nel
1903
aveva
rilasciato
un
“Motu
Proprio”
dal
titolo
De
Populari
Actione
Christiana
Moderanda,
il
28
luglio
1906
emanò
l’enciclica
Pieni
l’Animo,
in
cui
vietava
la
partecipazione
del
clero
a
qualunque
attività
politica
non
coordinata
per
via
gerarchica
e
condannava
la
Lega
Democratica
Nazionale
di
cui
Murri
era
il
più
importante
esponente.
Murri
venne
anche
più
volte
richiamato
personalmente,
ma,
nonostante
i
suoi
numerosi
atti
di
sottomissione,
continuò
ad
occuparsi
di
politica
sociale,
cosa
che
gli
valse,
a
fine
1906,
una
sospensione
“a
divinis”
e,
tre
anni
dopo,
in
occasione
della
sua
elezione
alla
Camera,
una
scomunica
definitiva.
Per
terminare
questa
pur
non
esaustiva
disamina
delle
maggiori
personalità
del
Modernismo
(ma
molte
altre
se
ne
potrebbero
menzionare,
da
Louis
Duchesne
a
Henri
Bremond,
da
Friedrich
von
Hügel
a
Ernesto
Buonaiuti,
da
Salvatore
Minocchi
a
Maude
Petre),
non
possiamo
non
soffermarci
brevemente
sulla
figura
del
già
menzionato
filologo
e
teologo
irlandese
George
Tyrrell.
Nato
anglicano
e
convertitosi
al
cattolicesimo
nel
1879,
Tyrrell
divenne
gesuita
dall’anno
seguente
e fu
ordinato
sacerdote
nel
1891,
ma,
praticamente
da
subito,
mostrò
di
essere
una
voce
fortemente
“fuori
dal
coro”.
In
sostanza
estrema,
la
teoria
di
Tyrrell
era
che
i
tipici
studi
biblici,
in
particolare
quelli
che
si
proponevano
di
svelare
il
“Gesù
storico”
altro
non
fossero
che
il
riflesso
delle
personalità
dei
vari
studiosi,
“come
se
si
attingesse
ad
un
pozzo
nella
cui
acqua
è
riflessa
la
propria
immagine”.
In
tutti
i
suoi
testi,
in
particolare
in
External
Religion:
Its
Use
and
Abuse,
in
Through
Scylla
and
Charybdis:
or,
The
Old
Theology
and
the
New
e
nel
più
tardo
The
Church
and
the
Future,
Tyrrel
si
scaglia
contro
le
visioni
parziali
delle
varie
correnti
filosofico
–
teologico
e,
soprattutto,
trae
le
conseguenze
estreme
del
suo
pensiero
proclamando
una
assoluta
libertà
di
visione
personale
della
fede
cristiana.
Una
frase
in
particolare
di
External
Religion,
“ogni
epoca
ha,
pertanto,
il
diritto
di
adattare
la
sua
espressione
storico
–
filosofica
del
Cristianesimo
al
pensiero
contemporaneo
e,
quindi,
di
porre
fine
a
questo
annoso,
inutile
conflitto
tra
fede
e
scienza,
che
è
solo
uno
spauracchio
teologico”,
scatenò
l’ira
di
Pio
X:
nel
1906
Tyrrell
fu
espulso
dall’ordine
Gesuita
e
sospeso
da
tutti
i
sacramenti
l’anno
seguente.
L’odio
ecclesiastico
nei
suoi
confronti
arrivò
addirittura,
alla
sua
morte,
nel
1909,
a
far
sospendere
“a
divinis”
il
vescovo
di
Southwark
Peter
Amigo,
che
aveva
“osato”
tracciare
un
segno
di
croce
sulla
tomba
dell’“eretico”!
Al
di
là
delle
singole
figure,
come
detto,
in
fondo,
piuttosto
distanti
ideologicamente
tra
loro
e
unite
unicamente
dalla
volontà
di
trascendere
lo
“status
quo”
ecclesiastico
in
termini
di
pensiero
religioso,
possiamo
cercare
di
enucleare,
per
grandi
linee,
alcune
delle
idee
fondamentali
che
mossero
il
tentativo
di
ammodernamento
che
oggi
conosciamo
come
“Modernismo”.
Quattro
appaiono
essere
i
centri
tematici
di
maggior
rilievo:
la
ricerca
di
un
approccio
razionale
alla
Bibbia.
Il
razionalismo,
che
fu
certamente
un
elemento
fondamentale
del
Modernismo,
imponeva
una
visione
scettica
sui
miracoli
e
sulla
storicità
dei
racconti
vetero
e
neo-testamentari.
Inoltre,
si
tentò
di
valutare
le
Scritture
basandosi
unicamente
sui
Testi
e
lasciando
da
parte
le
precedenti
letture
dei
Padri
della
Chiesa
e
del
Magisterium.
Si
trattava
di
un
metodo
di
origine
chiaramente
protestante,
legato,
per
molti
versi,
al
concetto
di
“Sola
Scriptura”,
ma
fu
considerato
da
numerosi
esegeti
cattolici
il
metodo
migliore
per
ottenere
una
conoscenza
di
prima
mano
sulla
reale
via
verso
la
salvezza;
lo
sviluppo
di
una
tendenza
secolarista
e
l’inglobamento
di
ideali
illuministici.
Possiamo
pensare
al
“secolarismo”
come
quella
tendenza
che
vede
come
via
più
eticamente
lecita
per
approcciare
campi
quali
la
politica
e la
società
quella
derivante
dalla
sintesi
dei
sistemi
morali
di
più
gruppi,
anche
religiosamente
distanti
tra
loro.
L’ovvio
corollario
di
questo
stile
di
giudizio
è la
necessaria,
netta
separazione
tra
stato
e
Chiesa,
con
una
chiara
distinzione
tra
ideologie
politiche
e
credi
religiosi
che
cozzava
apertamente
con
il
sentire
dei
teologi
cattolici
coevi
riguardo
al
fatto
che
ogni
azione
sociale
dovesse
essere
organizzata
tenendo
presente
il
fine
ultimo
della
salvezza.
Quelle
secolariste
erano
idee
già
rinascimentali
e
legate
alla
rivoluzione
scientifica,
ma
la
loro
diffusione
era
stata
particolarmente
capillare
durante
l’illuminismo,
in
particolare
con
le
varie
società
segrete:
era
naturale
che
fossero
circolate
anche
tra
le
file
ecclesiastiche,
portando
con
sé
un
ideale
che
appariva
quanto
di
più
lontano
dal
sistema
teocratico:
quello
di
democrazia;
l’innesto,
in
campo
teologico,
del
pensiero
filosofico
contemporaneo.
Filosofi
come
Kant
e
Bergson
divennero
pietre
miliari
della
costruzione
modernista,
in
particolare
in
relazione
al
tentativo
di
sincretizzare
il
loro
pensiero
con
quello
cattolico,
come
era
avvenuto
in
passato
con
il
platonismo
e
l’aristotelismo
nella
scolastica.
Il
risultato
di
sintesi
fu
lo
sviluppo
di
alcuni
punti
fermi
completamente
nuovi,
in
particolare
il
concetto
che
la
religione
fosse,
in
fin
dei
conti,
una
questione
legata
soprattutto
a
emozioni
irrazionali
e
che
un
suo
studio
non
potesse
prescindere
dalla
contestualizzazione
storica
della
nascita
di
alcuni
insegnamenti
poi
ritenuti
eterni.
In
questo
modo,
la
teologia
perse
il
suo
ruolo
“scienza
regina”,
mentre
gli
studi
si
portarono
verso
posizioni
relativistiche
basate
sulla
percezione
del
sacro
del
singolo
individuo
e
delle
singole
società;
infine,
e
siamo
qui
al
cuore
stesso
del
Modernismo,
l’idea
che
i
dogmi
potessero
evolvere
nel
tempo.
Questo
tratto
è
assolutamente
peculiare
anche
nel
panorama
della
eresie.
Fino
a
quel
momento,
un
eretico
avrebbe
pensato
di
essere
l’unico
depositario
di
verità
eterne
e lo
scontro
la
le
sue
“verità”
e
quelle,
altrettanto
eterne,
della
Chiesa
avrebbe
portato
inequivocabilmente
o a
uno
scisma
o a
una
scomunica,
ma
con
questo
nuovo
sistema
di
pensiero,
tutto
si
faceva
molto
più
fluido,
relativo
al
periodo
storico
e,
nella
visione
della
Chiesa,
passibile
di
inglobare
qualunque
nuova
stortura
all’interno
del
Magisterium
(non
a
caso,
proprio
per
questo,
Pio
X
definì
il
Modernismo
“sintesi
di
ogni
eresia”).
Sempre
al
di
là
delle
prese
di
posizione
contro
i
singoli
esponenti
della
corrente
modernistica,
la
Chiesa
Cattolica
da
subito
prese
posizioni
molto
nette
contro
qualunque
sistema
teologico
si
allontanasse
da
quella
che
era
ritenuta
essere
la
linea
ortodossa.
Nel
1893,
Papa
Leone
XIII,
con
la
enciclica
Providentissimus
Deus,
affermò
la
legittimità
di
ogni
critica
biblica
solo
fino
al
punto
n
cui
essa
fosse
mossa
da
spirito
di
fede
e,
nel
1903,
lo
stesso
Pontefice
costituì
una
“Pontificia
Commissione
Biblica”
proprio
per
vigilare
sugli
studi
teologico
–
filosofici
ed
assicurarsi
che
essi
venissero
condotti
nel
rispetto
delle
dottrine
cattoliche
riguardo
a
ispirazione
e
interpretazione
scritturale.
Il
suo
successore,
Pio
X,
fu,
come
visto,
il
primo
a
identificare
il
Modernismo
come
movimento
unitario
e a
condannarlo
ripetutamente
sia
in
relazione
ai
suoi
scopi
che
alla
sue
idee.
La
sua
principale
fonte
di
preoccupazione
era
che
gli
aderenti
al
movimento
si
ritenessero
cattolici
pur
credendo
in
cose
nettamente
distanti
da
quelle
insegnate
dalla
dottrina
e
fu,
inizialmente,
proprio
questa
preoccupazione
che
portò,
nel
luglio
1907,
il
Sant’Uffizio
a
pubblicare
il
documento
Lamentabili
Sane
Exitu,
in
cui
si
segnalavano
ben
65
proposizioni
moderniste
come
insanabilmente
eretiche.
Nel
settembre
dello
stesso
anno,
il
Papa
promulgò
l’enciclica
Pascenti
Dominici
Gregis,
in
cui
la
condanna
del
Modernismo
risultò
definitiva
con
l’imposizione
di
un
“Giuramento
Obbligatorio
contro
il
Modernismo”
a
tutti
i
vescovi,
i
preti
e
gli
insegnanti
cattolici
(giuramento
che
sarà
abolito
solo
nel
1967
da
Papa
Paolo
VI).
Per
rendere
ancora
più
rigida
la
posizione
ecclesiastica
in
questo
senso,
Monsignor
Umberto
Benigni
organizzò,
attraverso
una
rete
di
contatti
personali
con
studiosi
e
teologi,
un
gruppo
(non
ufficiale)
di
censori,
chiamato
“Sodalitum
Pianum”,
che
riportassero
ogni
deviazione
modernista
nell’insegnamento
di
chicchessia.
Tale
gruppo,
noto
in
Francia
anche
come
“La
Sapinière”,
utilizzò
ogni
metodo
(dalla
delazione
all’ammonimento
quasi
ricattatorio)
per
imporre
le
proprie
idee
e,
probabilmente,
fece
più
male
che
bene
all’immagine
della
Chiesa
Cattolica.
Di
fatto,
comunque,
con
il
regno
di
Paolo
Vi,
il
termine
modernismo
cadde
largamente
in
disuso,
sostituito,
nelle
bolle
ufficiali,
da
più
precisi
riferimenti
alle
accuse
mosse
ai
singoli
testi
o ai
singoli
teologi
(secolarismo,
relativismo,
liberalismo,
etc.)
ma
non
è
mai
scomparso
del
tutto,
tanto
da
essere
ancora
usato,
a
tutto’oggi,
come
termine
spregiativo
e
accusatorio
dai
critici
più
conservatorie
tradizionalisti
all’interno
della
Chiesa.
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