N. 119 - Novembre 2017
(CL)
LA REGALITÀ SACRA
IL CARATTERE MISTICO DELLE MONARCHIE RINASCIMENTALI
di Marco Fossati
Tutto
quel
che
è in
relazione
con
la
religione,
che
è
dedicato
e
consacrato
a
Dio
o al
culto,
può
essere
considerato
sacro.
Per
estensione
tutto
quello
che
è
degno
di
venerazione
ovvero
inviolabile,
appartiene
alla
sfera
del
sacro.
È
evidente
che
tale
definizione
trova
applicazione
anche
nell’ambito
dell’autorità
ovvero
nel
governo
politico.
In
passato,
proprio
il
potere
politico
non
solo
si è
confuso
con
quello
religioso
ma è
stato
pure
oggetto
di
venerazione,
acquisendo
in
pratica
caratteristiche
sacre.
Gli
esempi
sono
numerosi
sin
dall’antichità.
Per
limitarsi
all’Occidente
è
necessario
citare
il
mondo
romano,
dove,
dalla
metà
del
I
secolo
a.C.,
i
sovrani
assumono
qualità
sacre.
Prima
con
Giulio
Cesare,
poi
con
Ottaviano
Augusto
si
assiste
alla
confusione
tra
funzioni
religiose
e
politiche
(entrambi
ricoprivano
le
principali
cariche
religiose).
Le
azioni
militari
inoltre,
li
avvicinano
agli
eroi
mitologici,
dotati
di
virtù
straordinarie,
sovrumane,
tanto
da
diffonderne
un
culto
personale
ed
elevarli,
ancora
in
vita,
al
rango
di
divinità.
Elementi
che
portano
alla
progressiva
concentrazione
dei
poteri
nelle
mani
di
una
sola
persona;
primo
stadio
verso
una
forma
di
governo
monarchico-imperiale.
Con
i
successori
di
Augusto,
la
sacralità
del
sovrano
viene
consolidata
e
inserita
in
un
quadro
istituzionale
(vi
è un
preciso
rituale
per
la
divinizzazione
degli
imperatori);
passando
dal
culto
della
persona
a
quello
che
comprende
la
funzione,
si
pongono
le
basi
per
la
religione
imperiale.
Anche
tra
le
popolazioni
di
stirpe
germanica
vi
era
una
antica
tradizione
di
re
sacri,
ma
con
la
formazione
dei
cosiddetti
regni
romano-barbarici
(che
s’insediarono
nella
parte
occidentale
dell’Impero
Romano)
la
venerazione
per
il
sovrano
scomparve.
Fu
probabilmente
la
diffusione
del
Cristianesimo
a
far
venire
meno
la
base
pagana
sul
quale
si
fondava
il
concetto
di
potere
sacro.
Tra
V e
VII
secolo
i re
barbari,
benché
politicamente
molto
potenti,
perdettero
l’aspetto
divino.
Eppure
la
sacralizzazione
del
potere
politico
riemerge
proprio
in
ambito
cristiano;
già
San
Gregorio
(papa
dal
590
al
604)
sottolineava
il
carattere
sacro
della
regalità
sulla
falsariga
dei
re
d’Israele
(rifacendosi
all’Antico
Testamento,
meglio
compreso
dalla
mentalità
dell’epoca).
Essenziale
sarà
poi
un
evento
particolare:
nell’800
Carlo
Magno
viene
incoronato
imperatore
da
papa
Leone
III.
In
pratica
un
atto
di
propaganda
dato
che
sanciva
un’alleanza
politico
religiosa
già
in
atto
tra
il
Regno
dei
Franchi,
in
fase
di
forte
espansione
e la
Chiesa
di
Roma.
Da
una
parte
si
cercava
appoggio
e
legittimazione
per
l’opera
di
conquista
e di
accentramento
del
potere
in
Europa,
dall’altra
si
trovava
la
possibilità
di
dare
forza
concreta
alla
diffusione
e al
radicamento
della
religione
cristiana.
Oltre
alla
proclamazione
a
“imperatore
dei
romani”
che
comporterà
tutta
una
serie
di
conseguenze
politiche,
qui
interessa
mettere
in
evidenza
un
altro
punto:
fu
la
procedura
d’incoronazione
nei
suoi
aspetti
simbolici
ad
avere
effetti
notevoli
nei
secoli
successivi.
Infatti
il
papa
unse
il
capo
di
Carlo
con
l’olio
santo,
secondo
un
rituale
già
diffuso
da
alcuni
decenni
(mediante
i
vescovi)
tra
i re
franchi
e
visigoti,
ma
in
questo
caso
messo
in
forte
evidenza
grazie
all’acclamazione
con
cui
venne
salutato
il
sovrano;
in
particolare
nelle
parole
“incoronato
da
Dio”.
Sono
poste
le
basi
per
la
costituzione
di
un
impero
cristiano
che
accolga
la
comunità
dei
fedeli,
quello
che
verrà
chiamato,
tempo
dopo,
Sacro
Romano
Impero.
Nell’877
il
papa
Giovanni
VIII,
salutava
così
l’imperatore
Carlo
II:
“Salvatore
del
mondo
[...]
che
Dio
aveva
stabilito
come
principe
del
Suo
popolo
ad
imitazione
del
vero
Re
Cristo”.
È
ormai
diffuso
il
concetto
per
cui
ogni
potere
deriva
da
Dio.
L’imperatore
è
espressione
di
Dio
(l’Unto
del
Signore),
lo
rappresenta
in
Terra
e
deve
difendere
la
Chiesa.
Pertanto
i
sudditi
devono
obbedienza
alla
guida
politica
ma
anche
al
rappresentante
del
Signore.
Si
crea
una
società
liturgica
dove
i
rituali
diventano
molto
importanti
visto
che
tutti
gli
atti
assumono
una
doppia
valenza
sia
politica
che
religiosa.
Le
categorie
del
politico
e
del
religioso
(del
sacro)
tornano
nuovamente
a
confondersi,
riportando
alla
luce
un’abitudine
di
pensiero
che
forse
non
era
scomparsa
del
tutto
con
la
fine
del
“mondo
romano”.
A
partire
dall’XII
secolo,
con
l’emergere
delle
monarchie
e il
lento
declino
imperiale,
i
caratteri
sacri
si
sposteranno
sempre
più
sui
re.
Pertanto,
tra
la
fine
del
Medioevo
e
l’inizio
dell’età
moderna
si
assiste
a
una
ridefinizione
delle
sfere
d’influenza
tra
potere
secolare
e
potere
religioso.
Numerosi
sono
gli
esempi
della
pressione
delle
monarchie
sugli
ambienti
ecclesiastici,
dopo
secoli
in
cui
era
avvenuto
il
contrario.
Si
pensi
alla
politica
di
Filippo
il
Bello
in
Francia
(re
dal
1285
al
1314),
il
quale
affermava
che
il
suo
potere
derivava
unicamente
da
Dio
senza
mediazione
del
papa
e,
nei
secoli
successivi,
il
lungo
scontro
diplomatico
tra
clero
francese
e
Chiesa
di
Roma
conclusosi
nel
1516
con
il
concordato
di
Bologna,
in
cui
la
monarchia
transalpina
otteneva
un
relativo
controllo
sulla
Chiesa
nazionale.
Scontro
che
si
riaprirà
per
mano
di
Luigi
XIV
con
i
Quattro
articoli
della
Chiesa
Gallicana,
del
1682,
in
cui
verranno
ribadite
le
prerogative
del
sovrano.
In
Spagna
la
Corona
aveva
creato
(1483)
e
governava
sul
proprio
territorio,
in
piena
autonomia,
il
tribunale
ecclesiastico
dell’Inquisizione,
mentre
con
la
bolla
Inter
Coetera
del
1493,
otteneva
dal
papa
la
facoltà
di
evangelizzare
le
popolazioni
del
Nuovo
Mondo.
Nell’area
germanica
la
maggior
diffusione
delle
contee
vescovili
aveva
già
creato
nel
corso
del
Medioevo
una
sovrapposizione
tra
religione
e
politica
inoltre,
la
Riforma
luterana,
che
riproponeva
l’autorità
politica
come
manifestazione
del
volere
di
Dio,
portò
al
consolidamento
di
principati
confessionali
in
cui
la
Chiesa
(riformata
o
cattolica)
era
fortemente
legata
al
rispettivo
sovrano.
L’esempio
più
eclatante
riguarda
però
l’Inghilterra
dove
il
re
Enrico
VIII
Tudor,
nel
pieno
dello
scontro
con
il
pontefice,
si
proclama
“capo
supremo
in
terra
della
Chiesa
dopo
Dio”
e
con
l’Atto
di
supremazia
(1534)
pone
le
basi
per
la
nascita
della
Chiesa
anglicana
con
a
capo
lo
stesso
re.
Lo
studio
dell’evoluzione
della
monarchia
come
istituzione
politico-amministrativa
spiega
solo
in
parte
tali
avvenimenti.
Le
confusioni
tra
le
sfere
della
politica
e
della
religione
furono
possibili
anche
per
la
presenza
di
un
fenomeno
più
complesso
e
profondo,
del
quale
questi
avvenimenti
altro
non
erano
che
gli
effetti
finali
e
forse
più
evidenti;
ovvero
la
regalità
sacra
o
mistica.
Una
concezione
del
potere
che
nel
Rinascimento
era
una
realtà
consolidata,
ben
radicata
nelle
idee,
nell’immaginario
e
nella
vita
materiale
delle
persone
dell’epoca.
Infatti
si
dimentica
spesso
come
i
sovrani
non
furono
mai
considerati,
dalla
maggioranza
della
popolazione,
come
dei
semplici
governanti.
Concetto
nato
quasi
spontaneamente
in
quell’ambiente
spirituale
e
meraviglioso
caratteristico
del
pieno
Medioevo,
dove
i re
in
fase
di
emancipazione
dall’Impero
(considerato,
come
detto,
espressione
di
Dio)
ne
assumono,
oltre
al
potere
reale,
anche
rituali
e
simboli.
Fondamentale
era
la
consacrazione
ecclesiastica
d’incoronazione,
che
avveniva
mediante
l’unzione
con
l’olio
santo
per
mano
dei
vescovi.
Con
questo
rito
la
Chiesa
riconosceva
al
re
legittimità
a
governare
in
nome
e
per
conto
di
Dio
quindi,
agli
occhi
dei
sudditi,
diveniva
automaticamente
una
figura
sacra,
distinta
dai
comuni
mortali
e
spesso
equiparata
ai
sacerdoti.
Sebbene
vi
furono
molte
resistenze,
tale
corrente
di
pensiero
trovò
numerosi
sostenitori
anche
tra
gli
intellettuali.
Il
misterioso
scrittore
normanno
del
XII
secolo
conosciuto
come
l’Anonimo
di
York
scriveva:
“Il
re,
è
Cristo
del
Signore,
non
può
essere
detto
laico”.
Il
professore
eretico
inglese
John
Wyclif
(1330-1384)
nel
Tractatus
de
officio
regis
afferma
che
la
regalità
è un
ordine
ecclesiastico.
In
Francia
uno
dei
più
noti
umanisti
del
primo
Quattrocento,
Nicolas
de
Clémanges
(1363-1437),
sosteneva:
“Il
Signore
ha
affermato
che
la
regalità
doveva
essere
sacerdotale,
perché
con
la
santa
unzione
del
crisma
i
re,
nella
religione
cristiana,
debbono
essere
considerati
come
santi
a
simiglianza
dei
sacerdoti”.
Mentre
il
principale
esponente
del
clero
francese,
Juvenel
des
Ursins
(1388-1473)
diceva
che
il
re,
“è
prima
persona
ecclesiastica”
e
non
“semplicemente
persona
laica”.
In
Italia,
nel
1494,
Girolamo
Savonarola
usa
le
parole
“Ministro
di
Dio”
riferendosi
al
re
di
Francia
Carlo
VIII.
Le
credenze
fantasiose
circa
le
persone
e la
vita
dei
sovrani
e
persino
la
possibilità
di
compiere
atti
soprannaturali,
furono
il
corollario
e la
diretta
conseguenza
al
concetto
di
regalità
sacra.
Ad
esempio,
tra
le
numerose
idee
(o
superstizioni)
che
circolavano
in
tutta
Europa,
una
tra
le
più
diffuse
e
longeve,
era
quella
riguardante
il
segno
reale.
Si
riteneva
che
i re
avessero
sul
loro
corpo
dei
marchi
o
dei
segni
misteriosi
che
rivelassero
la
loro
dignità;
nell’area
germanica,
per
i
principi
d’Asburgo,
si
pensava
che
dei
peli
bianchi
sul
loro
dorso
formassero
il
simbolo
della
croce.
Stesso
simbolo
che
i
luterani
pensavano
di
vedere
sul
corpo
dell’Elettore
di
Sassonia
Giovanni
Federico,
nel
1547,
prima
della
battaglia
di
Muhlberg.
Addirittura
i
re
d’Inghilterra
e di
Francia
furono
considerati
per
secoli
in
grado
di
compiere
miracoli.
Più
precisamente
si
pensava
che
il
loro
tocco
guarisse
una
determinata
malattia,
l’adenite
tubercolare
(scrofole).
Infiammazione
causata
dai
bacilli
della
tubercolosi
che
colpisce
collo
e
volto.
Molto
diffusa
in
passato
anche
se
spesso
confusa
con
altre
affezioni
del
viso.
È
una
malattia
non
mortale
i
cui
sintomi
spesso
si
attenuano
o
scompaiono
per
lunghi
periodi,
nei
casi
più
lievi
guarisce
senza
particolari
cure.
Caratteristiche
che
si
prestavano
bene
all’idea
per
cui
il
tocco
da
parte
dei
re
potesse
portare
la
guarigione
o
alla
diminuzione
del
male.
“Noi
non
riusciamo
a
comprendere
l’idolatria
di
cui
erano
fatti
oggetto
la
monarchia
e i
re e
stentiamo
a
non
interpretarla
severamente,
come
effetto
di
chissà
quale
bassezza
servile”
(Bloch).
In
realtà
la
credenza
nei
miracoli
reali
nasceva
da
esigenze
che
caratterizzavano
quel
periodo;
la
popolazione
cercava
nei
sovrani
un
punto
di
riferimento
politico
ma
soprattutto
morale
e
spirituale,
mentre
gli
stessi
re
si
consideravano
esseri
superiori,
portatori
ed
esecutori
della
legge
e
giustizia
divina.
Qualche
esempio;
in
pieno
Medioevo,
nel
1140,
Ruggero
II
re
di
Sicilia
scriveva:
“L’ufficio
regale
rivendica
a sé
un
certo
privilegio
di
sacerdozio”;
cent’anni
dopo,
l’ultimo
grande
imperatore
Federico
II
di
Svevia,
nel
prologo
alla
sua
fondamentale
raccolta
legislativa
Liber
augustalis
(1234),
affermava
che
i
principi
erano,
“in
un
certo
senso
esecutori
della
divina
Provvidenza”.
Per
arrivare
alle
parole
di
Carlo
I
Stuart,
prima
della
sua
esecuzione
nel
1649,
in
cui
sostiene
implicitamente
la
superiorità
antropologica
dei
sovrani:
“Non
tocca
al
popolo
partecipare
al
governo:
un
suddito
e un
sovrano
sono
cose
diverse”.
È
facile
pensare
che
i re
credessero
(o
fingessero
di
credere)
e
comunque
tollerassero
ogni
superstizione
che
li
coinvolgeva
e
che
conferiva
loro
maggiore
popolarità.
D’altra
parte,
in
un
contesto
di
lotte
sanguinose
fra
fazioni
avverse,
erano
costretti
a
rafforzare
in
qualsiasi
modo
una
precaria
legittimità
e
l’elemento
mistico
e
meraviglioso
tornava
utile.
Comunque,
la
credenza
nelle
doti
taumaturgiche
dei
re
era
diffusa
anche
tra
gli
uomini
di
cultura.
Guglielmo
da
Occam
(1300-1350)
tra
i
massimi
filosofi
medievali,
sosteneva
che
i re
mediante
l’unzione
sacra
ricevevano,
“la
grazia
dei
doni
spirituali”
che
comprendeva
il
potere
di
guarire
(“potestas
curandi
e
sanandi
specialiter
scrophulas
patientes”);
nel
1390
il
mistico
cristiano
Jehan
de
Gerson
si
rivolgeva
al
re
di
Francia
con
le
parole:
“Re
consacrato
dal
miracolo,
re
spirituale
e
sacerdotale”.
Inoltre,
la
Chiesa
ha
quasi
sempre
contrastato
in
modo
timido
le
credenze
circa
i
presunti
poteri
soprannaturali
dei
principi.
“Propendeva
a
vedere
nel
carattere
di
santità
cui
pretendevano
i
re,
un
omaggio
alla
religione
più
che
un’usurpazione
dei
privilegi
del
clero”,
ma
“Riconoscere
che
un
principe
laico
fosse
capace,
in
quanto
principe,
di
compiere
cure
soprannaturali
equivaleva,
lo
si
volesse
o
no,
a
rafforzare
negli
animi
quella
concezione
stessa
di
regalità
sacra”
(Bloch).
Emblematico
quanto
affermava
papa
Paolo
III
nel
1547
in
una
bolla
in
cui
esaltava
la
città
di
Reims,
dove
i re
di
Francia
“ricevevano,
dalle
mani
dell’arcivescovo,
come
un
beneficio
inviato
dal
cielo,
la
santa
unzione
ed
il
dono
di
guarire
i
malati”.
Pertanto
in
Francia
e in
Inghilterra
(per
un
breve
periodo
anche
nel
regni
spagnoli
dove
si
riteneva
che
i
sovrani
guarissero
pure
l’itterizia
e le
malattie
nervose)
si
forma
un
istituto
collegato
alla
monarchia,
con
tanto
di
rituali
e
simboli;
i re
toccavano
i
malati
nell’ambito
di
particolari
cerimonie
pubbliche,
di
solito
in
concomitanza
di
festività
religiose
(Pasqua,
Natale,
Ognissanti,
Pentecoste).
Esso
arriva
al
culmine
tra
Cinquecento
e
Seicento.
Secondo
fonti
d’archivio
in
Francia,
durante
il
regno
di
Francesco
I
(1515-1547),
si
sottoponevano
al
rito
tra
le
1200
e
1700
persone
all’anno;
a
fine
secolo,
nel
1594,
Enrico
IV
da
poco
entrato
a
Parigi
toccò
più
di
600
malati
in
un
solo
giorno.
In
Inghilterra,
ancora
durante
il
regno
di
Carlo
II
(1660-1685),
si
stima
che
il
rito
avesse
coinvolto
almeno
centomila
persone.
Infatti,
al
di
là
di
superstizioni
assortite,
“Il
carattere
sacro
dei
re,
tante
volte
affermato
dagli
scrittori
del
Medioevo
resta
ancora
nei
tempi
moderni
una
verità
evidente,
incessantemente
messa
in
luce”
(Bloch).
Si
possono
portare
altri
esempi
a
conferma
di
questa
affermazione,
come
il
discorso
di
Giacomo
I
d’Inghilterra
in
Parlamento
nel
1609,
che
riproponeva
esplicitamente
la
teoria
medievale
del
diritto
divino
dei
sovrani:
“I
re
sono
giustamente
paragonati
a
Dio
[…]
se
considerate
gli
attributi
di
Dio
vi
accorgerete
che
essi
si
attagliano
perfettamente
alla
persona
del
monarca”.
E
nonostante
si
stessero
affermando
radicali
cambiamenti
nel
campo
del
sapere,
che
si
riflettevano
nell’ambito
delle
dottrine
politiche,
molti
intellettuali
seicenteschi
riproposero
l’argomento;
il
letterato
francese
J.L.
Guez
de
Balzac
(1597-1654)
sosteneva:
“Le
persone
dei
principi,
qualunque
essi
siano,
debbono
essere
inviolabili
e
sante
per
noi”,
mentre
uno
tra
i
principali
filosofi
moderni,
Thomas
Hobbes,
nell’opera
De
corpore
politico
(1655),
scriveva:
“Sebbene
i re
non
assumano
il
sacerdozio
come
ministero
essi
non
sono
dei
puri
laici
tanto
da
non
possedere
la
giurisdizione
sacerdotale”.
Non
sorprende
trovare,
anche
in
campo
giuridico,
una
teoria
che
derivava
dalle
idee
riguardanti
la
regalità
sacra.
Alla
metà
del
XVI
secolo,
tra
i
giuristi
inglesi
si
era
diffuso
il
concetto,
per
cui
“il
re
ha
in
sé
due
corpi,
cioè
il
corpo
naturale
e il
corpo
politico
[...]
il
quale
corpo
politico
contiene
l’ufficio,
il
governo
e la
maestà
regali”.
In
altri
termini
si
era
distinto
la
persona
del
re
dalla
sua
funzione
senza
però
separarli
o
specificarli.
Questo
permetteva
di
conciliare
esigenze
moderne
ovvero
la
spersonalizzazione
del
potere,
che
andava
di
pari
passo
al
formarsi
del
concetto
di
Stato
e
delle
relative
strutture,
con
le
credenze
antiche
ancora
forti,
che
mitizzavano
e
sacralizzavano
la
figura
del
re.
Era
in
pratica
una
finzione
giuridica
che
non
nasceva
dal
nulla
ma
aveva
radici
nella
teologia
cristiana;
riportava
al
concetto
e
alle
dispute
sulle
due
nature
del
Dio-uomo
del
IV e
V
secolo.
Questa
teoria
dei
“Due
Corpi
del
Re”
non
uscì
mai
dalle
Isole
Britanniche
ma
ebbe
conseguenze
importanti
nel
secolo
successivo.
Infatti
il
Parlamento
inglese
processò
re
Carlo
I,
identificandolo
solo
come
Carlo
Stuart,
“tributario
pertanto
di
un
potere
limitato
e ad
eseguire
quindi
la
sentenza
contro
il
solo
corpo
naturale
del
re
senza
coinvolgere
o
danneggiare
in
modo
irreparabile
il
corpo
politico
del
Re –
a
differenza
di
quanto
avvenne
in
Francia
nel
1793”
(Kantorowicz).
In
pratica
nel
1649
venne
giustiziato
il
re
senza
distruggere
l’istituzione
monarchica
considerata
la
vera
fonte
del
carattere
sacro.
Alla
fine
del
Seicento,
però,
iniziano
a
concretizzarsi
una
serie
di
cambiamenti
di
natura
economico-sociale
e di
pensiero,
le
cui
basi
si
erano
costituite
nel
corso
del
Rinascimento.
Nel
XVIII
secolo
poi,
le
conoscenze
scientifiche
limitano
sempre
più
l’aspetto
soprannaturale
all’interno
della
Società
e
intaccano
pure
le
religioni.
Inoltre
si
diffonde
la
filosofia
illuminista
basata
sul
razionale,
che
investe
ovviamente
anche
il
campo
politico
con
una
progressiva
desacralizzazione
del
potere
e
l’inizio
del
processo
di
laicizzazione
e di
separazione
tra
religione
e
politica.
Si
assiste
a un
lento
declino
dell’istituzione
monarchica,
almeno
nella
sua
concezione
assolutista,
che
ovviamente
trascina
con
sé
anche
tutta
quell’impalcatura
mistica
(le
idee
riguardanti
la
sacralità
regia
e le
credenze
nei
miracoli
dei
sovrani)
che
era
funzionale
alla
sua
esistenza.
In
realtà,
il
carattere
sacro
del
potere
non
sparirà
del
tutto,
ricomparirà
con
la
venerazione
di
entità
astratte
come
la
Dea
Ragione,
durante
la
Rivoluzione
Francese
o
quando,
tra
Otto
e
Novecento,
verranno
elevati
a
oggetti
di
culto
concetti
come
patria,
popolo,
razza
sul
quale
si
baseranno
ideologie
politiche
dai
connotati
religiosi;
ossatura
dei
nefasti
totalitarismi
novecenteschi.
Riferimenti
bibliografici:
M.
Bloch,
I
re
taumaturghi,
Einaudi,
Torino
1973.
e.H.
Kantorowicz,
I
due
corpi
del
Re,
Einaudi,
Torino
1989.