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N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
la miniera di montevecchio
il più importante complesso minerario del regno d'italia
di Michele Broccoletti
Il
borgo
di
Montevecchio
occupa
un
ampio
territorio
fra
i
comuni
di
Guspini
e
Arbus.
A
poca
distanza
dal
mare
della
Costa
Verde
ed
immerso
in
un
bosco
di
lecci,
rovelle
e
sugheri,
è
stato,
in
passato,
il
centro
direttivo
delle
Miniere
di
Montevecchio,
ma
tutt’oggi
le
sue
antiche
origini
ne
caratterizzano
la
vita,
rendendolo
un'importante
e
prestigioso
esempio
di
archeologia
industriale.
Attualmente
abitato
solo
da
poche
centinaia
di
abitanti,
Montevecchio
rappresenta
la
testimonianza,
ancora
quasi
viva,
di
quello
che
fu
il
lavoro
e la
vita
della
miniera
fra
i
magazzini,
i
pozzi,
le
laverie,
gli
alloggi
degli
impiegati
e
dei
minatori,
fino
alla
palazzina
della
direzione.
La
Miniera
di
Montevecchio,
insieme
ad
altri
sette
siti
minerari,
fa
parte
del
Parco
Geominerario
Storico
Ambientale
della
Sardegna,
che
l'UNESCO,
nel
1997,
ha
definito
“patrimonio
culturale
dell'umanità”.
La
ricchezza
mineraria
di
Montevecchio
era
probabilmente
conosciuta
fin
dal
tempo
dei
Romani:
il
rinvenimento
di
strumenti
di
lavoro
infatti,
come
lucerne
e
piccoli
secchi
per
il
trasporto
dei
minerali
dai
pozzetti
scavati
nella
roccia,
e
soprattutto
il
ritrovamento
di
due
pompe
romane
in
piombo,
rafforzano
tale
ipotesi.
La
prima
concessione
(generale
e
relativa
a
tutto
il
territorio
della
Sardegna),
che
permetteva
l’attività
estrattiva,
venne
rilasciata
nei
primi
decenni
del
XVIII
secolo
a
Don
Pietro
Nieddu
e
Stefano
Durante.
La
seconda
concessione
fu
rilasciata
invece
fra
il
1740
e il
1758
al
console
svedese
Gustavo
Mandel,
proprietario
dell’omonima
Compagnia
Mandel:
quest’ultimo
fece
costruire
una
fonderia
a
Villacidro,
che
può
essere
considerata
uno
dei
primissimi
esempi
di
attività,
correttamente
definibile
industriale,
in
Sardegna,
ed
inoltre
fece
scavare
delle
buche
poco
profonde
in
tutta
la
zona.
Dopo
la
morte
di
Mandel,
le
attività
di
scavo
proseguirono,
sia
per
diretta
volontà
delle
autorità
sabaude,
sia
per
mezzo
di
privati
a
cui
furono
assegnate
piccole
concessioni
di
scavo.
Tuttavia,
si
trattò
di
attività
che
non
ebbero
la
consistenza
produttiva
delle
attività
industriali
che
si
avviarono
nella
seconda
metà
dell'Ottocento.
È
infatti
solo
nel
1842
che
il
prete
sassarese
Giovanni
Antonio
Pischedda,
fresco
di
seminario,
ottenne
uno
specifico
permesso
di
estrazione
relativo
alla
zona
di
Montevecchio.
Possiamo
affermare
che
l’origine
dell’attività
estrattiva
delle
miniere
di
Montevecchio
coincide
proprio
con
l’intraprendenza
di
Giovanni
Antonio
Pischedda
che
fu
sempre
più
attratto
dalla
cura
dei
commerci,
piuttosto
che
da
quella
delle
anime.
Fu
così
che
lo
stesso
Pischedda
entrò
in
contatto
con
il
cav.
Efisio
Paderi
di
Senorbì,
che
possedeva
un
permesso
per
l’estrazione
mineraria
ad
Arenas,
un’altra
miniera
dislocata
nell’Iglesiente.
Forti
dei
permessi,
i
due
pensarono
di
fondare
una
società
unitamente
ad
alcuni
soci
finanziatori:
insieme
con
altri
quattro
soci
di
Marsiglia,
nacque
così
una
società
italo-francese
con
un
capitale
di
8000
franchi.
Tuttavia
la
società
non
ebbe
successo
e
fallì
in
breve
tempo:
con
una
trentina
di
operai,
ed
inoltre
utilizzando
anticipazioni
per
12000
franchi,
vennero
estratte
solamente
poche
decine
di
quintali
di
galena.
Antonio
Pischedda
però
non
si
arrese
difronte
al
primo
ostacolo
e
conobbe,
sempre
in
Francia,
l’imprenditore
Giovanni
Antonio
Sanna,
originario
di
Sassari.
Quest’ultimo
sapeva
che
per
ottenere
la
concessione
mineraria
a
Montevecchio,
in
base
alla
legge
mineraria,
era
necessario
fondare
una
forte
società,
affidabile
e
dotata
dei
mezzi
finanziari
necessari
per
portare
avanti
il
progetto
industriale.
Nel
1845
perciò,
dopo
aver
fondato
la
società
Charavel
&
C.,
Sanna
ottenne
una
concessione
provvisoria
di
15
anni,
e
incaricò
subito
due
ingegneri
francesi
di
eseguire
lo
studio
geologico
e
topografico
del
filone
di
Montevecchio.
Un
anno
più
tardi
però
iniziarono
i
primi
problemi
burocratici:
la
Regia
Amministrazione,
volendo
ostacolare
l’opera
di
Giovanni
Antonio
Sanna,
richiese,
per
poter
rilasciare
la
concessione,
un
capitale
azionario
minimo
di
500.000
franchi.
Sanna
si
dimostrò
convinto
e
determinato,
riuscì
a
convincere
altri
imprenditori,
questa
volta
genovesi,
e il
26
giugno
1847
fondò
la
Società
per
la
Coltivazione
della
Miniera
di
Piombo
Argentifero
detta
di
Montevecchio,
con
un
capitale
di
600.000
lire.
Qualche
mese
più
tardi,
precisamente
il
28
aprile
1848,
re
Carlo
Alberto
firmò
l’atto
di
concessione
perpetua
per
lo
sfruttamento
della
miniera
di
Montevecchio.
Nel
1865,
con
1100
operai,
la
miniera
di
Montevecchio
non
era
solamente
la
miniera
più
importante
dell’isola
ma
dell’intero
Regno
d’Italia.
Possiamo
quindi
tranquillamente
affermare
che
è
grazie
a
Giovanni
Antonio
Sanna
che
la
Miniera
di
Montevecchio
divenne
una
delle
maggiori
realtà
industriali
della
Sardegna:
la
determinazione,
l’intraprendenza
e le
capacità
imprenditoriali
del
sassarese,
ed
in
seguito
dei
direttori
e
degli
ingegneri
che
lo
seguirono,
fecero
di
Montevecchio
uno
dei
maggiori
siti
produttori
di
blenda
e
galena,
minerali
da
cui
vengono
ricavati
lo
zinco
ed
il
piombo.
Di
conseguenza
anche
il
piccolo
borgo
sardo
divenne
una
vera
e
propria
cittadina
con
circa
5.000
abitanti
e
dotata
di
importanti
strutture.
Probabilmente
verso
i
primi
anni
del
1870
venne
costruito
l’ospedale,
ritenuto
uno
dei
più
moderni
mai
realizzati
in
Sardegna:
diviso
in
quattro
stanzoni
con
nove
posti
letto
ciascuno,
era
anche
dotato
di
sistemi
per
il
ricambio
d’aria
e di
binari
a
scomparsa
per
muovere
le
brandine
dei
degenti.
Sempre
negli
anni
settanta
del
XIX
secolo
iniziò
il
progetto
per
la
costruzione
della
chiesa
dedicata
a
Santa
Barbara,
protettrice
dei
minatori.
In
realtà
la
chiesa,
così
come
era
stata
ideata,
era
troppo
grande
per
le
necessità
del
piccolo
borgo
e
per
questo
al
suo
posto
venne
realizzata
una
grande
palazzina
destinata
alla
Direzione
della
miniera,
alla
quale
venne
annessa
anche
una
grande
cappella.
Situata
sulla
piazza
del
villaggio
di
Montevecchio,
la
Palazzina
della
Direzione,
che
domina
i
cantieri
di
Levante,
venne
costruita
in
stile
neorinascimentale
e
disposta
su
tre
livelli:
a
piano
terra
ed
al
primo
piano
erano
situati
gli
uffici
tecnici
e
amministrativi,
il
secondo
piano
ospitava
l’abitazione
del
direttore,
mentre
l’ultimo
livello
accoglieva
la
servitù
con
le
cucine
e
gli
alloggi.
Oltre
all’ospedale,
al
Palazzo
della
Direzione
ed
alla
chiesa,
a
Montevecchio
vennero
edificate
altre
varie
strutture,
quali
scuole,
cinema,
campo
sportivo,
foresteria,
ufficio
geologico,
dopolavoro,
ufficio
posatale…
venne
addirittura
costruita
una
colonia
per
i
figli
dei
minatori.
Nel
1975
morì
Giovanni
Antonio
Sanna
e la
sua
scomparsa
diede
origine
a
liti
tra
parenti
per
l’amministrazione
e la
divisione
della
società
e
dell’eredità.
Tuttavia
gli
eredi
del
sassarese
riuscirono
a
sviluppare
e
gestire
la
miniera
fino
agli
anni
trenta
del
XX
secolo.
Solo
nel
1929,
a
causa
della
crisi
economica
internazionale,
la
Montevecchio
si
unì
con
la
Monteponi,
dando
vita
al
polo
Monteponi-Montevecchio,
che
però
fu
costretto,
nel
1933,
a
cedere
le
proprie
azioni
alla
Montecatini,
la
quale,
inizialmente
riportò
la
produzione
ai
livelli
di
un
tempo,
ma
nel
1991
fu
costretta
a
cessare
definitivamente
l’attività
di
estrazione.
Nel
complesso,
gli
impianti
minerari
di
Montevecchio,
ricchi
di
filoni
metalliferi
piombo-zinciferi,
si
suddividono
nei
cantieri
di
Levante
(situato
nelle
immediate
vicinanze
di
Montevecchio)
e di
Ponente
(collocato
lungo
la
strada
bianca
che
da
Montevecchio
conduce
al
villaggio
minierario
di
Ingurtosu),
che
sono
separati
dal
passo
di
Gennaserapis,
dove
è
situato
il
nucleo
centrale
dell’abitato,
il
quale
raccoglie
tutti
gli
edifici
simbolo
della
miniera.
La
miniera
di
Montevecchio
si
distinse
inoltre
anche
nell’elettrificazione
(sia
interna
che
esterna
alla
miniera)
e
nell’adozione
di
sistemi
innovativi
di
perforazione
nei
quali
ben
presto
la
perforazione
a
secco
venne
soppiantata
dalla
perforazione
ad
acqua,
meno
nociva
e
meno
pericolosa
per
il
minatore
perforatore.
Un’altra
grande
innovazione
fu
quella
dell’autopala,
inventata
nel
dopoguerra
da
un
dipendente
della
società,
ed
in
breve
tempo
diffusasi
in
tutto
il
mondo.
Attualmente,
anche
se
il
complesso
minerario
è
totalmente
dismesso,
restano
importanti
testimonianze
e
numerosi
siti
che
documentano
quella
che
era
la
vita
e
quelle
che
erano
le
condizioni
della
dura
attività
estrattiva
svolta
dal
1848
sino
al
1991.
Alcuni
pozzi
sono
stati
recentemente
restaurati
e
nei
pressi
degli
stessi
sono
conservati,
perfettamente
integri,
interessanti
macchinari
come
argani
e
compressori.
In
conclusione,
possiamo
affermare
che,
anche
grazie
all’archeologia
industriale
ed
agli
studi
condotti
in
questo
ambito,
si
sta
recuperando
un
importante
patrimonio
storico
e
culturale,
grazie
al
quale
si
sta
ridando
voce
ad
una
realtà
fatta
di
storie
di
uomini
e
dure
lotte
per
la
sopravvivenza.
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