N. 131 - Novembre 2018
(CLXII)
La Beffa delle Palme
LA
Fine
ingloriosa
del
milazzismo
di
Gaetano
Cellura
Si recitò una squallida commedia quel giorno in una camera dell’Hotel delle Palme di Palermo. E ne furono protagonisti i deputati regionali Ludovico Corrao e Carmelo Santalco.
Il
primo
era
un
personaggio
di
eleganza
eccentrica.
Dopo
quell’infelice
avventura,
quel
peccato
di
gioventù,
meglio
l’avremmo
conosciuto
come
parlamentare
del
Pci
e
del
Pds,
sindaco
di
Alcamo
e di
Gibellina,
avvocato
difensore
di
Graziano
Verzotto
e di
Franca
Viola,
prima
ragazza
siciliana
a
rifiutare
il
matrimonio
riparatore.
Il
secondo,
laureato
in
giurisprudenza,
capostazione
e
sindaco
di
Barcellona
Pozzo
di
Gotto,
dopo
l’esperienza
all’Assemblea
regionale
siciliana
sarà
senatore
democristiano
dal
1976
al
1992.
Come
Corrao,
ebbe
dunque
una
lunghissima
carriera
politica.
Era
il
febbraio
del
1960,
gli
ultimi
giorni
del
governo
regionale
di
Silvio
Milazzo.
Un’operazione
politica
passata
alla
storia
con
il
nome
di
milazzismo:
partorita
in
Sicilia
ma
incoraggiata
e
pianificata
a
Roma
probabilmente.
E da
due
politici
di
spessore
come
don
Luigi
Sturzo
e
Mario
Scelba
–
entrambi
di
Caltagirone,
come
lo
stesso
Milazzo.
Sul
piano
politico
il
milazzismo
scaturì
dalla
crisi
del
potere
(meglio:
dello
strapotere)
di
Amintore
Fanfani,
che
aveva
unito
nelle
sue
mani
le
cariche
di
presidente
del
consiglio,
ministro
degli
esteri,
segretario
nazionale
della
Dc,
leader
della
corrente
Cronache
Sociali.
Suo
proconsole
in
Sicilia
era
il
presidente
della
regione
Giuseppe
La
Loggia,
il
cui
governo
sostenuto
dai
partiti
di
destra
entrò
in
crisi
per
la
bocciatura
del
bilancio.
Invece
di
dimettersi,
La
Loggia
sfidò
apertamente
il
parlamento
siciliano
attribuendo
al
voto
un
valore
tecnico
e
non
politico.
D’altra
parte
era
proprio
Fanfani
a
incoraggiarlo
in
questa
sfida.
Nei
mesi
precedenti,
sceso
in
Sicilia
per
la
campagna
per
le
elezioni
nazionali,
l’aveva
pubblicamente
invitato
a
resistere
alla
guida
del
governo
dell’Isola.
“Coi
voti
o
senza
i
voti”.
Soltanto
uno
dei
suoi
assessori
non
condivise
la
decisione
del
presidente
della
regione
e
rassegnò
le
dimissioni.
Era
Silvio
Milazzo,
assessore
all’agricoltura.
Che
aprì
di
fatto
una
lunga
crisi
politica
al
cui
termine
anche
La
Loggia
fu
costretto
a
dimettersi.
La
Democrazia
cristiana
indicò
come
suo
successore
il
deputato
Barbaro
Lo
Giudice.
Ma
ad
essere
eletto,
alla
fine
d’ottobre
del
1958,
fu
invece
Silvio
Milazzo.
Proprio
lui,
l’assessore
dimissionario
del
precedente
governo.
E
con
i
voti
delle
opposizioni
di
sinistra
e di
destra
e di
buona
parte
della
Democrazia
cristiana,
che
ne
sanciscono
la
scissione
e la
ribellione
all’autoritarismo
di
Fanfani
in
nome
degli
ideali
autonomistici
dell’Isola.
Un
fatto
inedito:
per
la
prima
volta,
dal
1947,
la
Dc
non
era
più
padrona
della
Sicilia.
Non
molti
giorni
dopo
viene
pubblicato
Il
Gattopardo,
per
il
cardinale
Ernesto
Ruffini
uno
dei
tre
“fattori”
che
buttavano
discredito
sulla
Sicilia.
Gli
altri
due
erano
Danilo
Dolci
e
quei
mezzi
d’informazione
che
diffusamente
dipingevano
l’isola
come
terra
di
mafia.
Non
è
casuale
la
citazione
di
Ruffini,
visto
che
schierò
l’episcopato
siciliano
contro
il
governo
milazziano
e
contro
la
collaborazione
tra
cattolici
e
comunisti.
Milazzo
si
oppose
all’ultimatum
del
partito
che
chiedeva
le
sue
immediate
dimissioni
e ne
fu
espulso.
Giustificò
–
scrisse
L’Ora
– la
contraddittoria
struttura
del
suo
governo
e
della
maggioranza
che
l’aveva
espresso
con
lo
stato
di
necessità
in
cui
si
trovava
la
regione
per
le
pesanti
interferenze
della
direzione
centrale
della
Dc
durante
e
dopo
la
crisi
del
governo
La
Loggia.
Guidò
due
esecutivi
(il
secondo,
dopo
le
regionali
del
’59,
senza
il
Msi
e il
Partito
liberale
che
avevano
scelto
il
“patto
antimarxista”
con
la
Dc);
fondò
nel
frattempo
con
Ludovico
Corrao
il
partito
dei
cristiano-sociali
siciliani
(l’USCS)
che
ottenne
nove
seggi
all’Ars;
e
durò
in
carica
fino
al
febbraio
del
1960,
allorché
il
barone
Benedetto
Maiorana
della
Nicchiara,
che
del
governo
faceva
parte,
prese
il
suo
posto
alla
presidenza
della
regione.
Il
barone
catanese
e i
tre
deputati
che
lo
seguirono
non
resistettero
alle
lusinghe
del
segretario
regionale
della
Dc
Giuseppe
D’Angelo
(anche
questa
trattativa
per
spodestare
Milazzo
si
svolse
in
una
camera
d’albergo,
a
Taormina):
e il
22
febbraio
del
1960
posero
fine
al
milazzismo
dando
vita
a un
governo
con
Dc,
Pli,
Msi
e
monarchici,
pochi
giorni
dopo
le
clamorose
rivelazioni
in
aula
di
Carmelo
Santalco
che
scossero
il
parlamento
siciliano.
Ma
cosa
disse
di
preciso
quel
giorno
all’Ars
l’ex
capostazione
di
Barcellona
Pozzo
di
Gotto?
E
soprattutto
cos’era
successo
qualche
giorno
prima
all’Hotel
delle
Palme?
«La
denominazione
esatta
è
Grand
hotel
et
des
Palmes
–
scrive
Sciascia
in
Atti
relativi
alla
morte
di
Raymond
Roussel
– La
storia
di
quest’albergo,
dal
soggiorno
di
Wagner
all’occupazione
americana
e
alle
vicende
del
governo
regionale,
specialmente
nel
periodo
“milazziano”,
è da
scrivere
come
un
capitolo
di
splendore
e
miseria
della
Sicilia
dai
Savoia
alla
Repubblica».
Successe
che
Ludovico
Corrao,
testa
d’uovo
del
milazzismo,
e il
comunista
Enzo
Marraro
furono
incaricati,
reggendosi
il
secondo
governo
Milazzo
su
un
sottilissimo
equilibrio,
di
contattare
alcuni
deputati
democristiani
dell’opposizione
per
farli
passare
con
la
risicata
maggioranza.
In
altre
parole,
di
ricorrere
agli
stessi
mezzi
usati
prima
dall’opposizione
per
indebolire
il
governo:
la
compera
dei
deputati.
Santalco
finse
di
starci.
E
d’accordo
con
il
segretario
regionale
della
Dc
Giuseppe
D’Angelo
piazzò
un
registratore
e
dei
microfoni
sotto
il
letto
della
camera
dell’Hotel
delle
Palme
dove
avvenne
la
trattativa
con
Corrao.
Trattativa
che
prevedeva
un
compenso
di
cento
milioni
per
i
deputati
disposti
a
passare
con
Milazzo,
un
assessorato
regionale
per
Santalco,
e la
nomina
di
Signorino
Sgarlata,
mezzadro
del
segretario
D’Angelo,
a
membro
della
Commissione
provinciale
di
controllo
di
Messina.
Il
giorno
dopo
in
aula,
mentre
l’Assemblea
regionale
era
riunita,
Santalco
prese
la
parola
e
rivelò,
provandoli,
tutti
i
particolari
di
quella
che
sarebbe
stata
ricordata
come
la
“beffa
delle
palme”.
Ludovico
Corrao,
travolto
dallo
scandalo,
per
tutta
la
vita
non
volle
mai
più
parlare
di
questa
vicenda.
Nel
2011,
a 84
anni,
morirà
a
Gibellina
ucciso
da
un
bengalese
suo
dipendente
nella
sede
della
Fondazione
Orestiadi.
L’USCS
venne
sciolta,
l’atipica
alleanza
di
governo
giunse
alla
fine,
con
buona
soddisfazione
della
stampa
e
dei
potentati
economici
del
Nord.
Molti
di
quelli
che
vi
avevano
aderito
rientrarono
nella
Dc o
nel
partito
socialista.
Sui
fatti
dell’Hotel
delle
Palme
e
sulle
rivelazioni
pubbliche
di
Santalco
venne
nominata
una
Commissione
parlamentare
d’inchiesta
per
accertarne
la
veridicità
e le
responsabilità,
ma
dimessosi
in
blocco
e
seduta
stante
il
governo
Milazzo
sugli
stessi
fatti
calò
presto
il
silenzio.
Anche
Silvio
Milazzo
si
dimise
da
deputato
regionale:
nel
1962,
un
anno
prima
della
scadenza
del
suo
mandato
all’Ars.
Si
candidò
successivamente
alla
Camera
con
la
lista
Concentrazione
Unità
Rurale
e
pur
risultando
il
più
votato
nella
circoscrizione
Sicilia
I
non
fu
eletto.
Dopo
di
lui
la
Sicilia
sterzò
di
nuovo
a
destra
prima
di
aprirsi
all’esperienza
del
centrosinistra.
Tutta
questa
è la
lettura
politica
del
fenomeno.
Ma
ce
n’è
un’altra,
che
è di
natura
economica.
Il
milazzismo
scaturì
anche
dal
fallimento
delle
politiche
liberiste;
e
soprattutto
dallo
scontro
tra
Gulf
Oil
che
deteneva
nell’isola
le
concessioni
per
lo
sfruttamento
del
petrolio
e
l’Eni
che
ne
era
esclusa.
Uno
dei
meriti
del
governo
Milazzo
fu
quello
di
aprire
le
porte
della
Sicilia
anche
all’Eni
di
Mattei.
A
sessant’anni
di
distanza,
il
milazzismo
fa
ancora
discutere.
Secondo
alcuni
è
stato
inciucio,
scontro
interno
alla
Dc
siciliana
con
evidenti
implicazioni
nazionali,
opportunismo
e
trasformismo
politico
delle
sinistre,
operazione
di
potere
e di
interessi
economici
cui
non
sarebbe
mancato
il
sostegno
di
famiglie
mafiose
di
Palermo
e di
Alcamo.
Secondo
altri
invece,
il
giornale
L’Ora
per
primo,
cacciata
dei
mafiosi
dall’amministrazione
di
alcuni
consorzi
di
bonifica,
presa
di
coscienza
delle
classi
popolari
contro
il
sistema
democristiano
e
soprattutto
rivendicazione
dei
diritti
autonomistici
ora
che
con
l’avvio
della
sua
industrializzazione
l’isola
respingeva
ogni
forma
di
subordinazione
ai
potentati
del
nord
Italia
e
alle
multinazionali.
Una
cosa
però
è
certa:
il
milazzismo
divise
tutti.
La
politica,
l’economia
e la
stampa.
Nel
Pci
fu
sostenuto
da
Emanuele
Macaluso,
ma
non
suscitò
alcun
entusiasmo
in
Girolamo
Li
Causi.
Lo
stesso
Togliatti,
in
una
tribuna
politica
del
1963,
glissò
nel
rispondere
a
una
precisa
domanda
sull’argomento.
Divise
gli
industriali
siciliani
da
quelli
del
Nord.
Evidentemente
a
molti
non
andò
giù
quella
strana
alleanza
dal
Pci
al
Msi
e in
particolare
come
tutta
l’operazione
si
concluse.
Quanto
alla
stampa,
basta
leggere
qualche
estratto
di
quel
che
scrivevano
allora
i
giornali
(non
solo
quelli
dell’Isola)
per
vedere
quali
sostenevano
il
milazzismo
e
quali
– la
maggioranza
– lo
ritenevano
un
fenomeno
deteriore
da
archiviare
al
più
presto.
Dava
fastidio
la
Sicilia
che
alzava
la
testa.