N. 25 - Giugno 2007
Il caso Mihajlov
di
Arturo Capasso
Qualche giorno fa
m’accingevo a scrivere un “medaglione”, che
rappresenta di solito il ricordo d’uno scrittore
conosciuto negli anni addietro e col quale ho
intrattenuto rapporti epistolari.
Mi è apparsa la cartella
Mihajlo Mihajlov, fitta di lettere, articoli,
appelli, interviste.
Ma sono diversi anni che
non sento l’autore di Estate a Mosca che tanto
successo ebbe negli anni settanta e che gli costò una
lunga detenzione nelle carceri titine. E allora ho
“navigato” su Google alla ricerca di aggiornamenti.
Molte notizie in
inglese, serbo , russo. In italiano c’ è un solo
richiamo che riporta ad un mio articolo sui dieci
anni del disgelo in Urss.
In quell’ articolo
Gustavo Herling si dice d ‘accordo con Mihajlo
Mihajlov
o piuttosto “con quel
che ebbe a dirgli a Mosca Leonid Leonov: Sui campi si
scriverà in Russia per i prossimi ottanta anni”.
Ho appreso poi che lo
scrittore serbo è attualmente membro dell’International
Pen Club e socio onorario di numerose organizzazioni
internazionali per i diritti umani e degli scrittori.
Inoltre, è vice presidente di Democrazia
Internazionale di Belgrado.
Sul sito Johnson’s
Russia List c’è una lettera aperta indirizzata a
George W Bush e a Vladimir V. Putin per un’ azione
comune contro il terrorismo.
L’appello , del 14
febbraio 2005, è firmato da un centinaio di
professori, giornalisti e scrittori dei due ex
blocchi. E c’è anche il Dr. Mihajlo Mihajlov, Author
and scholar, Belgrade. Così ho saputo due cose . sta
nella sua città, ha possibilità di far sentire la sua
voce. Ne sono lieto.
Libertà alterna
Il 25 aprile 1966 ricevo
la seguente lettera:: “ Caro Capasso, la ringrazio
per la sua lettera del 20 febbraio. Solo ieri sono
tornato a Zadar, dopo aver proseguito il viaggio nel
Paese, per la pubblicazione della rivista di cui le ho
scritto.
Le cose vanno bene,
tuttavia le autorità se ne sono interessate
eccessivamente ed hanno iniziato ad intimorire i
miei amici. Spero che la vicenda non finisca come i
miei articoli moscoviti. Il Signore ce ne scampi.
Grazie per l’invito di
essere suo ospite, ma non credo che mi sarà permesso
. Non voglio ripetere la sorte di Tarsis ( gli
diedero il permesso di uscire, non lo fecero più
rientrare,n,d,a,) Forse lei potrebbe venire a Zadar?
Ha ricevuto il mio
articolo su Sholokhov? Esso, purtroppo, è stato
scritto velocemente.
Sono sovraccarico di
lavoro e soprattutto mi spetta fare di tutto, anche
incollare i francobolli per l’enorme quantità di
lettere .
Sembra più che mai
valido il proverbio “uno solo nel campo non è un
combattente”. Bene, in qualche modo sopravvivrò.
Con molta stima, Mihajlo
Mihajlov”
p.s. Abbiamo un nuovo
indirizzo: Zadar, Zrtva fasizma 9.
Dopo qualche tempo
ricevo un’altra lettera , nella quale fra l’altro
scrive.
“Se
sarò arrestato, avrai il seguente telegramma: Je ne
peux pas venir à cause de maladie de Malin
E, purtroppo, l’8 agosto
è arrestato; le agenzie giornalistiche e i
corrispondenti da Belgrado diffondono la notizia in
tutto l’Occidente.
Mi reco a Zadar ( Zara)
e Zagabria, incontro suoi amici, collaboratori, la
mamma.
Scrivo alcuni articoli e
sollecito Ignazio Silone ad un suo autorevole
intervento.
Ricevo la sua lettera
datata 13 settembre 1966, finora inedita.
Una lettera di
Ignazio Silone
Ignazio Silone
Via Villa Ricotti 36
Roma
Caro Capasso,
ho ricevuto il suo
articolo sul viaggio a Zagabria e sono rimasto
alquanto perplesso sulla sua utilizzazione.
L’articolo in sostanza
non aggiunge nulla su quello che già si conosce
dell’ambiente in cui lavora il Mihajlov, ma contiene
particolari organizzativi, indirizzi, indicazioni
personali, indiscrezioni, che potrebbero eventualmente
servire alla polizia.
Le confesso sinceramente
di essermi astenuto dal prendere contatto diretto col
Mihajlov appunto a causa dell’ingenuità e
disinvoltura del metodo da lui seguito.
Senza informarsi,
magari presso lo stesso interessato, egli concesse
il diritto di traduzione italiana sulla sua Estate
a Mosca a un signore che non nasconde le sue
nostalgie fasciste.
Ho poi l’impressione che
si è affidato ciecamente a farsi rappresentare nei
paesi d’Occidente alla centrale di Francoforte degli
emigrati russi, che è quello che è
Così ho ricevuto due
lettere di Mihajlov tramite il povero Tarsis (1) ,
che conobbi qui a Roma ed ho rivisto un paio di volte
e col quale potrei di nuovo prendere un caffè, ma a
condizione che non si parli di politica né di
letteratura.
In tutta questa vicenda
mi sono solo preoccupato che non si getti discredito
su Gilas (2) , uomo altrimenti serio e ponderato.
Verso Mihajlov, piena
solidarietà, anche pubblica; ma ciò di cui avrebbe
maggiormente bisogno, sarebbe un maggiore
discernimento nel sollecitare e nell’accettare
contatti con l’estero.
Dal momento che egli si
dichiara, ideologicamente, socialista-democratico,
perché non ha cercato appoggi tra i socialisti? Non
dico, rivolgendosi direttamente agli apparati, a a
singole persone, che a suo tempo difesero Tito contro
Stalin e han difeso Gilas contro Tito.
Penso che abbia una
copia del suo testo e non sia necessario che le
restituisca l’esemplare in mio possesso.
Cordiali saluti
Ignazio Silone.
Difendo Mihajlov
Il 9 agosto del ’66 ,
subito dopo l’arresto dello scrittore, avevo cercato
di sensibilizzare la distratta opinione pubblica
sull’intero vicenda:
“ I guai di Mihajlo
Mihajlov sono cominciati quando, di ritorno da un
mese di permanenza in Urss, ha iniziato la
pubblicazione del suo Mosca, estate 1964 sulla
rivista Delo.
Il saggio è un magnifico
affresco della vita culturale moscovita, una brillante
inchiesta sui personaggi del mondo letterario
sovietico.
Ma alcune affermazioni
sui campi di lavoro forzato non sono state gradite
alle autorità sovietiche, che hanno protestato presso
Tito. Ora si può parlare fin che si vuole di
“comunismo di destra” e di “indipendenza da Mosca” ,
ma il capo jugoslavo deve sempre salvare le apparenze
( e la sostanza) verso i vecchi compagni sovietici, i
quali tuttavia grazie al loro atteggiamento censorio
hanno contribuito alla diffusione dell’opera, tradotta
velocemente in russo e diffusa tramite il samizdat in
tutta l’Unione Sovietica.
L’esperienza di quel
Paese, lo studio della dottrina marxista , il
raffronto coi sistemi politici occidentali e la grande
amicizia con l’ex vice di Tito più volte imprigionato
- Milovan Gilas – hanno trasformato il Mihajlov da
uomo di lettere in uomo d’azione. S’è posto l’arduo
compito di fondare una rivista d’opposizione nel suo
Paese, invocando il principio di libertà garantito
dalla Costituzione.
Attorno a questo
progetto dovrebbe poi nascere un movimento politico da
opporsi all’unico esistente; dal sistema
monopartitico si dovrebbe passare a quello
bipartitico.
In questa ottica la
reazione di Tito appare giustificata. Un organo di
opposizione suonerebbe come una campana a morte per un
socialismo che si ritiene all’avanguardia fra i Paesi
dell’Est europeo , ma che poi risulta essere
rigidamente arroccato alle insormontabili posizioni
vetero marxiste.
E perciò il tentativo
del Mihajlov sembra agli osservatori occidentali molto
rischioso , di non facile realizzazione.
Viene da ricordare un
episodio che caratterizzò la prima attività
rivoluzionaria di Lenin (3). Quando fu arrestato per
aver partecipato ai disordini dell’ Università di
Kazan, la guardia che lo stava conducendo in cella
gli chiese in tono ironico:
che, giovanotto, vuoi
battere con la testa contro il muro? E Lenin
rispose: il muro, sì , è in putrefazione .Batti e
s’abbatte.
Il nostro scrittore
sembra volere insistere sulla via intrapresa. Non ci
resta che augurargli un grande successo, segnando una
svolta che potrà essere storica”.
Il viaggio in
Jugoslavia
A metà agosto decisi di
anticipare la mia visita al gruppo che faceva capo
allo scrittore.
Ho già accennato come
egli sentisse che prima o poi avrebbero bussato alla
sua porta. Infatti, mi aveva scritto. “ Se sarò
arrestato, avrai il seguente telegramma.
Je ne peux pas venir à cause de
maladie de Malin”.
La notizia del suo
arresto, avvenuto l’ 8 agosto, trapelò- come ho già
detto - immediatamente e le agenzie giornalistiche ,
nonché i corrispondenti dalla capitale slava, la
diffusero in tutto l’ Occidente.
Sarebbe rimasto in
prigione quaranta giorni e rimesso in libertà con la
condizionale.
Dopo qualche giorno
ricevetti un espresso, invece del telegramma, a firma
di un certo ing.D. Rastkovic, Brace Oreskovica 18.
Sulla scorta di questo
elemento e in possesso di altri nomi del gruppo, mi
recai a Zara, ora Zadar.
La piccola città fondata
dai Romani si affaccia sull’Adriatico ed è raggiunta
dopo una notte di navigazione da un battello jugoslavo
che d’estate effettua un servizio giornaliero con
partenza Ancona.
Di buon mattno, sotto
una pioggia fine ma continua, mi posi alla ricerca
dell’ing. Rastkovic. Dovetti ben presto convincermi
che la strada esisteva solo col nome Oreskovica e che
al numero 18 quella persona era sconosciuta.
La ricerca dei membri
del gruppo diventava piuttosto complicata e decisi di
recarmi alla Urtava fasizma, dove al numero 9 abitava
lo scrittore arrestato.
Donne con grosse ceste
sul capo andavano con passo spedito verso il mercato.
Un palazzo vecchio, primo piano, una porta verniciata
di fresco. Bussai, nessuno venne ad aprire; pochi
minuti prima avevo telefonato e nessuno aveva
risposto. Il nome all’ ingresso era stato sostituito
con quello del proprietario.
Una donna del piano di
sopra – un piano buio e trasandato – disse che la
persona da me cercata era stata prelevata dalla
polizia; mi fece poi parlare con un’altra inquilina,
un’ anziana veneta che alla mia domanda rispose: “Ora
viene e ora va”. Non era al corrente di quello che era
successo l’ 8 agosto.
Zadar, dunque, non mi
offriva alcuna possibilità di entrare in contatto col
gruppo. E così all’indomani presi il pullman per
Rijeka (la vecchia Fiume),
tappa d’avvicinamento
per Zagreb (Zagabria).
Tanto a Zadar quanto fra
le persone incontrate durante il viaggio, l’azione del
Mihajlov era considerata strana e per alcuni
addirittura folle. Registrai alcune risposte: Il
potere è ben saldo nelle mani di uno solo e di un
unico partito; abbiamo fatto grandi passi negli ultimi
anni e stiamo costruendo un nostro socialismo;
l’opposizione – oltre ad essere inutile – è dannosa .
Ancora: Non c’era bisogno che il Mihajlov facesse
tanta confusione e richiamasse l’attenzione degli
occidentali. Per pubblicare la sua rivista sarebbe
bastato chiedere l’autorizzazione, che senz’altro
sarebbe stata accordata .Comunque, non abbiamo bisogno
di un organo d’opposizione.
Un altro mio
interlocutore, incontrato mentre mi recavo in treno
da Rijeka a Zagreb, mise in risalto i vantaggi della
libertà economica voluta e garantita dal regime,
dichiarando con orgoglio di avere contribuito alla
ricostruzione.del suo Paese. Possedeva tre piccole
aziende con una quindicina di operai ed i suoi
guadagni erano notevoli. Desiderava sostituire la
vecchia Opel con una nuova Mercedes
Probabilmente dovetti
suscitargli fiducia, giacché mi mostrò un bel pacco
con
migliaia di dinari
avvolti nella carta di giornale; ma sotto la camicia
aveva una grossa pistola di marca tedesca.
Notai che l’esigenza di
libertà economica era molto sentita, soprattutto nel
turismo, con milioni di visitatori all’anno; ma
l’autonomia intellettuale e l’opposizione facevano
fatica a trovare accoglienza. Il gruppo di Mihajlov
avrebbe dovuto percorrere una strada tutta in salita….
L’incontro con
Batinic
A Zagabria cercai Ivo
Clowatzky, legale del Mihajlov.
Mi disse in un buon
italiano che aveva ricevuto dal suo assistito due
lettere e che si stava interessando al caso unicamente
per dovere professionale. Cercò poi di abbreviare la
conversazione col pretesto d’una partenza improvvisa.
Contattai S.T. , che mi
ricevette nel suo piccolo studio colmo di libri, al
secondo piano d’una strada secondaria. Avrebbe
incontrato i professori Marjan Batinic e Franjo Zenko
l’indomani mattina; sarei dovuto tornare al
pomeriggio per fissare i primi contatti.
Trascorsi la serata nel
centro della città – particolarmente movimentata – e
mi diressi verso la stazione. Aveva lo stesso aspetto
delle grandi stazioni moscovite, con tanti vecchi –
soprattutto donne – adagiati su grosse valige o
ruvidi sacchi, a dormire un sonno profondo che in
quelle posizioni solo la stanchezza può dare.
C’erano gruppi di
pionieri che cantavano in coro “il nostro Tito” e “il
nostro Comitato Centrale”. Si preparavano ad andare
tutti insieme , ragazzi e ragazze, a Belgrado.
E poi tavolini con gente
a bere birra, bicchierini di slivoviz e a mangiare
frittelle impregnate di grasso. Più avanti sorgeva l’Esplanade,
il grande albergo che ospitava gli occidentali,
isolandoli in un mondo irreale, con saloni sfarzosi,
casinò, night club ed uno stuolo di camerieri pronti
a difendere i clienti da eventuali disturbatori.
Così un ubriaco, che era
entrato nell’hall, rotolò più volte sul pavimento, fu
sollevato di peso e buttato fuori. Una donnina in
dolce attesa di clienti sgusciò in tutta fretta verso
il bar del piano di sotto. Il biscazziere italiano
confidò candidamente: con me non si vince.
Alle 15 del giorno
seguente mi ripresentai da S.T.; le persone che
cercavo sarebbero venute all’Esplanade dopo un’ora.
L’appuntamento mi sembrò piuttosto strano, giacché non
si poteva correre il rischio d’incontrarsi in pubblico
con uno straniero. E infatti non vennero. Ritornai
allora da S.T.
Uscimmo dal suo studio,
prendemmo un taxi e ci recammo da O.B.
Era ad attenderci il
professore Marjan Batinic. L’ insegnante di
letteratura all’Università di Zagabria aveva appena 28
anni. Era in una camera arredata modestamente- in
stile svedese – con una parete tinta di rosso:
Un altro giovane
intellettuale, M.R. , si offerse di fare da
interprete.
Il professore Batinic
disse: Dopo l’arresto di Mihajlov abbiamo cercato di
riunirci, ma anche io sono stato arrestato e poi
rilasciato. Secondo quanto Mihajl ha scritto ad un
comune amico a Belgrado, la sua liberazione dovrebbe
essere imminente; d’altra parte nessuno può restare in
stato di fermo oltre ventuno giorni, senza un
regolare processo. Comunque, il primo comma
dell’articolo 292 del nostro codice penale invocato
dal pubblico accusatore non contempla una lunga
condanna.
Rilevo che il nostro
amico corre il rischio di scontare anche la pena
condonatagli nell’ultimo processo . Risponde che in
questo caso sono determinanti le ragioni politiche,
più che le leggi. Aggiunge che la rivista Voce
libera vedrà regolarmente la luce. Sono già in
corso le pratiche per la relativa realizzazione. Il
professor Zenko se ne sta occupando personalmente. La
rivista dovrebbe essere stampata; in caso contrario
sarà ciclostilata..
Non si esclude che
potrebbe essere stampata all’estero ed introdotta
clandestinamente . Il primo numero conterrà un
“manifesto” del gruppo, che illustrerà le ragioni
della sua formazione ed azione; seguirà un rapporto
completo su tutte le vicende dell’ultimo arresto, per
informare il popolo jugoslavo adeguatamente.
Il Batinic appariva
sicuro e parlava senza interruzione, con voce bassa.
Gli portai un messaggio
verbale d’un alto esponente della cultura italiana: un
invito a non legarsi ad organizzazioni estremiste
occidentali, che avrebbero potuto svuotare la causa
del movimento. Già alcuni organi di sinistra avevano
avanzato seri dubbi sull’azione del Mihajlov. Mi disse
che era al corrente di tante polemiche e che era suo
desiderio affiancarsi ad organi responsabili ed
accreditati.
Ci lasciammo con una
forte stretta di mano ed una promessa di piena
solidarietà e collaborazione.
Il futuro della
Jugoslavia poteva dipendere dal gruppo di Mihajlov
ed il suo successo sarebbe stato ancor più
apprezzabile per le difficoltà in cui operava, giacché
l’opinione pubblica poteva essere manovrata e spinta a
rigettare “spontaneamente” un’azione di cui ignorava i
motivi della sua nascita.
Esce dal carcere dopo
quaranta giorni, con la condizionale.
Il 30 settembre mi
scrive da Zadar:
Caro Capasso,
mi dispiace che finora
– per comprensibili motivi – non ho potuto
ringraziarti d’avermi inviato l’interessante
manoscritto per la rivista.
La vicenda del periodico
procede bene, sebbene senza la mia diretta
partecipazione, almeno fino alla sentenza della Corte
Suprema.
Forse a metà ottobre
andrò per una settimana a Vienna per un congresso di
scrittori austriaci. Successivamente mi recherò per un
giorno a Berna.
Credi che ci potremmo
incontrare in qualche modo?
Con molta stima, Mihajlo
Mihajlov.
Nell’ottobre del 1966
Sovietica pubblica in esclusiva per l’Italia il
saggio del Mihajlov Come hanno crocifisso la
Russia (Terre dissodate di Mikhail
Sholokhov). Ripropongo parte del primo capitolo, che
mi sembra particolarmente interessante:
“Mikhail Sholokhov è il
migliore e il più dotato degli scrittori della Russia
stalinista.
L’assegnazione del
premio Nobel gli gioverà certamente per una più larga
diffusione delle sue opere in tutto il mondo e di
questo ci rallegriamo.
Nonostante le sue
personali convinzioni politiche e la sua rispettabile
anzianità nelle file del PCUS, la forza del suo
talento è prevalsa sulla menzogna programmata ed egli
lascia alle future generazioni un quadro descrittivo
veritiero ed efficace di quel terribile periodo
vissuto dal grande popolo russo.
Due grandi avvenimenti
nella storia contemporanea russa sono stati descritti
da questo geniale scrittore: Il placido Don,
dedicato alla rivoluzione russa e al periodo della
guerra civile, e Terre dissodate, che tratta in
dettaglio la collettivizzazione della campagna russa.
E sebbene il secondo risulti inferiore – per il suo
valore intrinseco- al primo, rimane pur sempre la più
viva testimonianza di quella terribile operazione
chirurgica eseguita sul corpo vivo del popolo russo.
La prima parte di
Terre dissodate, apparsa nel 1932, fu scritta
sotto l’emozione degli avvenimenti, con vivaci colori
e presa diretta della realtà, mentre la seconda parte,
pubblicata trent’anni dopo - nel 1960 – appare una
descrizione alquanto scialba e sbiadita. Infatti, non
si percepisce più la vita pulsante del villaggio
russo.
Il romanzo Terre
dissodate descrive, dal primo all’ultimo capitolo,
in modo assolutamente storico, la liquidazione della
vita normale nel villaggio russo e d la
“socializzazione” delle campagne russe nello spirito
della dittatura totalitaria.
Le radici di quelle
vicende deplorevoli, per le quali la Russia , una
volta ricchissima di prodotti agricoli, ora è
costretta a comprare il grano in lontani Paesi d’
oltremare, affondano nel periodo degli anni ’30 e si
riportano appunto agli avvenimenti decritti nel libro.
Per comprendere bene
gli eventi degli anni 1929-1930, è necessario tener
presente il passato storico della classe contadina
russa.
La riforma del 1861,
pur avendo liberato il contadino dalla servitù della
gleba, non era riuscita ad eliminare la tradizionale
vita comunitaria del villaggio, tanto da permettere
uno sviluppo economico dinamico, individuale.
La quantità della terra
distribuita pro capite diminuiva sensibilmente col
passare del tempo a causa del notevole incremento
della popolazione rurale
Solo nel 1906 uno dei
più eminenti statisti russi – Stolypin – con la sua
nuova riforma agraria aprì la via allo sviluppo
dell’agricoltura individuale e alla relativa
commercializzazione dei prodotti. La sua riforma fu
definita dai bolscevichi “reazione stolypiniana”. In
un periodo di tempo relativamente breve, e cioè in
appena dieci anni, il 38% dell’economia agricola fu
regolato dalla proprietà privata.
La politica agraria
seguita dal governo provvisorio dopo la rivoluzione
del febbraio 1917 avrebbe coronato con successo la
riforma agraria iniziata da Stolypin, rafforzando
sempre più lo sviluppo economico del villaggio russo
in cui germogliava la libertà di associazione
cooperativistica tra i contadini.
Si trattava, in
sostanza, di applicare il sistema europeo che
prometteva al villaggio un benefico sviluppo, simile a
quello già in atto in Francia, Germania e nei Paesi
scandinavi.
Il colpo di Stato ad
opera dei bolscevichi e dei social-rivoluzionari di
sinistra, in seguito alla sommossa armata dell’ottobre
1917 (sommossa, e non rivoluzione) e il Decreto
sull’agricoltura –pubblicato subito dopo
l’instaurazione del potere bolscevico e che enunciava
il principio dello sfruttamento egualitario della
terra- ricacciava d’un colpo il villaggio russo nella
situazione in cui si trovava mezzo secolo prima ,
ripristinando una specie della comune del villaggio (
Sèlskaja obscìna).
In tal modo si eliminava
il contadino produttore individuale, appena emerso.
Questo contadino nelle terminologia sovietica veniva
definito kulàk, mentre i comitati dei contadini
poveri – kombèdy- diventavano organi del potere
sovietico nel villaggio.
E’ ovvio che Lenin era
ben conscio dell’effetto negativo del suo Decreto
sulla vita economica del villaggio, ma gl’interessi
della dittatura del Partito avevano precedenza
assoluta sul risanamento economico dell’agricoltura
Stalin a sua volta, dopo
aver cacciato i contadini nei kolchoz, per gli stessi
motivi della politica del Partito, si dimostrò un
autentico leninista.
Comunque, il produttore
agricolo economicamente indipendente era molto inviso
alla dittatura del proletariato.”
Il saggio del Mihajlov
destò notevole scalpore, quando fu pubblicato in
Occidente; poche, invece, le reazioni della sinistra.
Meglio non dar risalto a chi ficcava il naso in cose
che sarebbe stato meglio ignorare.
E così tutti ( comunisti
e loro fiancheggiatori intellettuali) vissero felici e
contenti. Scelsero di non disturbare il manovratore.
Scelsero.
Una scelta di vita , di
sopravvivenza, legata all’obbedienza cieca, passiva.
All’ Est niente di
nuovo
Luglio 1967 . Sappiamo
com’è andata a finire:
Mihajlo Mihajlov è stato
condannato dal tribunale di Belgrado a quattro anni e
sei mesi di carcere; inoltre per ben quattro anni –
una volta libero- non potrà esercitare l’attività di
scrittore.
E’ una condanna che
colpisce non solo un individuo, ma tutto il Paese.
Quanti inneggiavano alle
“aperture” del socialismo in Jugoslavia trovano
adeguata risposta.
Si tratta di un
socialismo che si definisce all’avanguardia fra i
Paesi dell’Est europeo, ma che invece è arroccato a
vecchie insormontabili posizioni.
Il Mihajlov segue così
lo stesso destino di Sinjavskij e Daniel’ , vittime di
avere un proprio cervello.
Sono in prigione e ci
resteranno; a nulla varranno gli appelli del mondo
libero.
Possano trovare nei
lunghi anni di prigionia e di umiliazione (beninteso
per i loro aguzzini!) la forza di scrivere e di
testimoniare. Per tutti. Per l’Est, per la gioventù
comunista che anela alla verità e alla libertà e che
ormai è stanca delle lunghe tiritere.
Ho scritto prima :
all’Est niente di nuovo. E invece i ghiacciai
cominciano a muoversi. Inizia un movimento –
lentissimo –che porterà il seme della dignità e della
libertà dopo decenni di buio e di violenza.
Solzenitzyn
Nel maggio dello stesso
anno – 1967 – Solzenitzyn aveva inviato una
coraggiosa lettera a tutti gli scrittori sovietici,
uniti per il loro IV Congresso.
E’ un documento che
merita di essere ricordato, giacché rappresenta uno
spartiacque fra un mondo sottomesso ed un altro che
inizia una lunga marcia verso un futuro degno di
essere vissuto:
“Al praesidium e ai
delegati del Congresso; ai membri dell’Unione degli
Scrittori Sovietici, alle redazioni dei periodici e
dei quotidiani letterari.
Il mio romanzo V
krughe pervom (35 pagine manoscritte) fu
sequestrato circa due anni fa dal KGB e con ciò venne
ostacolata la sua pubblicazione e diffusione”(n.d.a.
l’opera, con il titolo V pervom krughe – Il primo
cerchio – venne pubblicata nel 1968 e si componeva
di ben 750 pagine. Fu tradotta in italiano da Pietro
Zveteremich e pubblicata da Arnoldo Mondatori. Ben
presto raggiunse tirature vertiginose ; nel 1970
l’autore ebbe il premio Nobel per la letteratura,
che potè ritirare solo nel ’74, dopo la sua espulsione
dall’Urss)
“Anzi, pur essendo
ancora in vita , contrariamente alla mia volontà e
persino a mia insaputa, questo romanzo fu pubblicato
in una edizione riservata e letta ra da una cerchia
di lettori selezionati e sconosciuti
Il mio romanzo fu
conosciuto dai funzionari letterari, ma ignorato dalla
maggioranza degli scrittori.. Non sono in grado di
ottenere una discussione pubblica sui pregi e i
difetti del mio lavoro nei circoli letterari, né di
prevenire certi abusi e il plagio della mia opera.
Con il sequestro del
romanzo fui anche privato del mio archivio letterario,
messo su in 15-20 anni di diligenti fatiche e che era
materiale non destinato alla stampa.Attualmente il mio
archivio viene stampato riservatamente e commenti
tendenziosi, maligni, sono diffusi nella medesima
cerchia di gentesconosciuta”.
L’autore ricorda un
suo lavoro teatrale considerato come recente e che
invece scrisse “mentre mi trovavo in un lager dove
ero conosciuto come individuo con quattro numeri di
identificazione (quando eravamo condannati a morire di
fame, dimenticati dalla società; quando oltre il filo
spinato del campo di concentramento NESSUNO protestò
contro la repressione politica)”
Rileva che i suoi undici
anni di esilio e di permanenza nei lager , dove fu
inviato per aver criticato Stalin, vengono invece
ricordati come periodo di collaborazione coi
tedeschi, dopo aver tradito la Patria.
Il suo grido di dolore,
la sua accusa continua: “Attualmente da noi è vietato
anche esibire un manoscritto per farlo leggere e
copiare. Nella Russia di cinque secoli fa agli uomini
di lettere ciò non accadeva!”
E conclude con una
precisa dichiarazione d’intenti ed una speranza:
“A nessuno si può
ostacolare la ricerca della verità; per essa sono
pronto a sacrificare la vita. Si può sperare che le
molte lezioni alla fine serviranno a non fermare la
penna degli scrittori vivi?”
Ma torniamo a Mihajlo
Mihajlov che fu molto felice quando lo scrittore russo
ebbe il premio Nobel, giacché era una grandissima
testimonianza d’una voce che ormai nessuno poteva più
mettere a tacere.
Il 7 luglio del ’67
ricevetti una lettera da parte della Lega Belga per la
Difesa dei Diritti dell’Uomo a firma del Segretario
Generale Adrien Wolters e del Presidente Georges
Aronstein.
Si confermava che era
stata elevata una forte protesta presso l’ambasciata
jugoslava a Bruxelles e direttamente presso il
Presidente Tito.
La mobilitazione
internazionale riuscì a ridurre i tempi della
carcerazione.
Mi scrisse il 14 ottobre
1970 da Novi Sad.
Stava completando il
terzo libro di Pensieri e si stava impegnando
per ottenere la restituzione del passaporto a sua
madre, che voleva raggiungere la figlia in America.
E’ prigioniero di
Tito, salvatelo
Il 16 febbraio 1972
m’invia una lunga ed accurata lettera in cui si dice
molto addolorato d’essere tornato in prigione per un
articolo che aveva pubblicato sul New York Times.
Ma ribadisce altresì di volersi battere per due
elementari diritti: scrivere liberamente ed andare
all’estero liberamente.
Aggiunge che conta molto
sull’aiuto dall’Italia.
Che fare? Cerco
d’impegnarmi come sempre ed il 1° dicembre 1975
pubblico su Gente l’appello di sua madre, che è
riuscita a raggiungere la figlia negli Stati Uniti .
Il settimanale dà grande risalto all’articolo, nel
quale ricostruisco l’intera vicenda:
“Sono anni che Mihajlo
Mihajlov sfida il potere di Tito. Entra in prigione,
ne esce, ricomincia la sua azione di uomo che vuole
dire ciò che pensa.
Ho incontrato Mihajlov
a Belgrado alcuni anni fa. Da poco era uscito dal
carcere ed aveva ripreso con maggior lena la sua
battaglia. Viveva in una modesta casa, in compagnia
della madre, che appariva sconvolta, preoccupata.
Gli chiesi se non
sarebbe stato meglio riparare in Occidente ed avere
così la possibilità di pubblicare ciò che gli piaceva.
Mi rispose con fermezza che il suo posto era lì e che
non voleva andarsene.
Facemmo poi visita a
Milovan Gilas, l’altro grande oppositore del regime.
Trascorremmo l’intera
serata a discutere. Progetti, analisi su scrittori ,
uomini politici, avvenimenti.
Ora è di nuovo dentro,
ci resterà sette anni. Mihajlov – come ha scritto
Milovan Gilas – “con cosciente coraggio è andato
incontro al suo destino, lo ha quasi atteso: in lui
l’idea della libertà è più forte del compromesso, più
forte della stessa vita”
Mihajlov nasce nel 1934
a Pascevo, nei pressi di Belgrado, dove i suoi
genitori, emigranti russi, giungono dopo la
Rivoluzione d’ottobre.
Frequenta il liceo a
Sarajevo, poi la facoltà di filologia a Belgrado;
successivamente studia filosofia a Zagabria e presso
la stessa università ottiene una borsa di studio.
Dal ’61 al ’62 presta
servizio militare in Erzegovina. Congedato, si
guadagna da vivere facendo traduzioni e scrivendo
articoli.
Nel dicembre del ’63 è
nominato assistente di lingua e letteratura russa
presso la facoltà di filosofia di Zagabria, nella
sede distaccata di Zara.
Nell’estate del ’64 si
reca in Urss e insegna per cinque settimane a Mosca e
Leningrado, nell’ambito degli scambi culturali fra i
due Paesi.
Rientrato in patria,
scrive un lungo articolo/saggio sugl’incontri avuti
con gli scrittori sovietici. E’ l’inizio del suo
calvario.
Appena il giornale
letterario Delo ( Affare) pubblica la seconda
puntata del suo resoconto di viaggio, l’ambasciatore
sovietico e lo stesso Tito si scatenano con grande
forza. Mihajlov è arrestato e torna in libertà dopo
quaranta giorni; ma nell’aprile del ’65 il tribunale
di Zara lo condanna a nove mesi di detenzione per
“diffamazione verso uno Stato amico”
La pronta reazione
dell’opinione pubblica mondiale gli fa ottenere la
condizionale. Ma cade su di lui la mannaia del regime.
Non riesce più ad insegnare, i suoi scritti sono
sistematicamente rifiutati.
Allora con un gruppo di
giovani insegnanti e scrittori decide di pubblicare
nell’estate del ’66 un periodico d’ispirazione
social-democratica che avrà come
titolo Voce libera
Intanto, il suo saggio
che tante grane gli sta dando nel proprio Paese, e che
porta il titolo Estate a Mosca ( Mosca, estate
1964) è tradotto in ben dieci lingue. Il successo
internazionale che arride al giovane scrittore
farebbe sperare nella possibilità di stampare un
periodico d’opposizione nell’ambito d’un Paese
socialista. Sarebbe un grosso merito per le autorità.
Ma ancora una volta prevale la ragion di Stato e le
tenebre dell’oscurantismo trionfano su sprazzi di
luce E’accusato di propaganda ostile e rimesso in
prigione.
Questa volta i suoi
giudici non sono affatto disposti a farsi addolcire
dall’opinione pubblica occidentale: gli comminano tre
anni e mezzo di reclusione a regime duro e il divieto
di fare apparire suoi scritti nel Paese
per ulteriori quattro
anni, dopo avere scontato la pena.
Il processo
Lotta per essere
riconosciuto prigioniero politico ed ha così la
possibilità di leggere e scrivere.
Mentre è ancora in
prigione, appare in numerosi Paesi il suo secondo
libro Temi russi. Torna il libertà nel 1970.
Non gli restituiscono il passaporto, anzi lo tolgono
anche a sua madre, che sarà costretta ad espatriare
clandestinamente per raggiungere la figlia negli Stati
Uniti.
Sulla stampa occidentale
appaiono numerosi suoi articoli che, gli sono
fatali. Infatti, il 28 febbraio è condannato per
“avere presentato in maniera distorta le condizioni
esistenti in Jugoslavia”
Dragomir Cvetkovic, il
presidente del tribunale di Novi Sad – sede del
processo- dice all’accusato:”Lei sostiene che in
Jugoslavia non esiste libertà di pensiero né di
espressione”. Mihajlov ribatte pronto. “Questo
processo ne è la prova evidente”. E Cvetkovic
ribadisce caparbiamente: “La Costituzione sancisce che
esiste, quindi lei sostiene il falso”
A nulla vale
l’intervento del legale di Mihajlov, Veliko Kovacevic
,che invita i giudici a regolarsi secondo coscienza.
E’ condannato a sette anni di carcere a regime duro e
al divieto di pubblicare scritti per altri quattro
anni. Ciò significa che vedrà la libertà a 47 anni e
che potrà ricominciare a scrivere a 51.
La condanna è un chiaro
ammonimento per scrittori, artisti, studenti,
desiderosi di esprimersi liberamente. Appare chiaro
che è stata esemplare, anche per un atto di cortesia
verso il Cremlino. Pare che Leonid Breznev in persona
si fosse lamentato con Edward Kardelj ( che occupa il
secondo posto nella gerarchia di Belgrado) per le
dichiarazioni antisovietiche dello scrittore.
Finora sono rimasti
inascoltati gli appelli di numerosi organismi
internazionali.
Amnesty International
, che si batte per i diritti umani e per il
rilascio dei prigionieri politici in tutto il mondo,
ha chiesto la libertà per lo scrittore, invocando
l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, che è stata ratificata anche da
Belgrado. Si è mossa la sezione americana del Pen
Club, ci sono stati gli appelli di Arthur Miller e
dell’Associazione degli scrittori danesi. In Italia è
stata inviata una lettera aperta da alcuni esponenti
del Gruppo di Presenza Culturale, tra i quali
ricordiamo Ignazio Silone, Mario Pomilio, Gino
Montesano, Giorgio Petrocchi, Gino Nogara, Mario
Guidotti e Carlo Betocchi.
Crudele isolamento
E’ pieno di commozione
l’appello di Milovan Gilas, che ha scritto sul New
York Times : “Chi può sentirsi libero se lega la
sua lingua e chiude la sua mente verso le prigioni in
cui si trova Mihajlov? E mi chiedo: ho io, con queste
righe, fatto il mio dovere? E tutto quello che io,
anche se vecchio e malato, potevo fare per Mihajlo
Mihajlov?”
Ed ecco l’appello che la
madre – Vera Mihajlova – ha lanciato il 16 novembre
scorso: “Cari amici italiani, aiutatemi a salvare mio
figlio! Mihajlo Mihajlov, scrittore e pubblicista
jugoslavo, è stato condannato a sette anni di carcere
duro e privato per altri quattro del diritto di
pubblicazione.
Ci sono persone che
rapinano banche, dirottano aerei, terrorizzano ed
uccidono, mentre mio figlio – pur non avendo fatto
nulla contro la legge e la propria coscienza – è già
da un anno in cella di isolamento, senza radio, senza
libri, senza la possibilità di parlare con altri
reclusi. Tutto ciò per avere manifestato le proprie
convinzioni.
Già prima – dal ’66 al
’70 – era stato rinchiuso per tre anni e mezzo a
causa delle sue idee democratiche; ora è stato di
nuovo condannato. La Jugoslavia ha firmato la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e la Convenzione
di Helsinki, ma tutto ciò non ha alcun effetto per
mio figlio.
La sua salute è già
seriamente compromessa dopo il crudele isolamento. Per
dieci anni non gli hanno dato lavoro, né possibilità
di uscire dalla Jugoslavia. Lo hanno privato
dell’appartamento e gli hanno tolto tutti i diritti
civili. Si tratta d’una palese violazione non soltanto
della Costituzione jugoslava, ma anche di tutte le
altre dichiarazioni sottoscritte a Ginevra e ad
Helsinki.
Non esiste una legge che
costringa lo scrittore a tacere. La parola è per lui
carne e sangue, tutto se stesso.
Mia figlia ed io
lotteremo per lui con tutte le nostre forze.
Aiutateci!”
Muto rimase , lo
sterminato esercito d’intellettuali di sinistra,
sempre pronti a scendere in campo, a manifestare
rumorosamente con giovani fiancheggiatori, a fare
proclami bellicosi, a bruciare bandiere.
Muto rimase, lo
sterminato esercito d’intellettuali di sinistra.
Uno, cento, mille morti
nei gulag sparsi in tutto il blocco dell’Est.
E cosa sono, quei morti,
rispetto allo sventolio della gloriosa bandiera rossa?
Sono piccoli
insignificanti sassolini che la macchina della storia
trova sulla sua strada verso un futuro radioso, tinto
appunto di rosso.
1) Arturo Capasso, La
drammatica vicenda di Valerij Tarsis, pag.35, Cose
antiche e cose nuove, Club di Autori indipendenti,
Milano 2006.
2 ) Arturo Capasso,
L’autonomia di Milovan Gilas, pag.24, Cose antiche
,op.cit
3 ) Cfr. E Lenin divenne
un rivoluzionario, in Pensieri in corso, pp.264,
Club di Autori indipendenti, Milano 2006 |